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Inginocchiati come Yankee, oh yeah

L'estate guerrigliera delle pantere importate dall'America

Michele Masneri e Andrea Minuz

Il colossale ritardo culturale che c’è in Italia si vede anche dal livello con cui affrontiamo certi dibattiti internazionali. Dal #MeToo a #BlackLivesMatter, basterebbe tornare alla buona educazione

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Eravamo appena usciti dal Covid, per una volta primi in una manifestazione globale anche di una certa caratura, e si parlava addirittura di un “modello Italia” (l’avanguardia dei balconi!), ma eccoci tornati al punto di partenza. Col #blacklivesmatter siamo di nuovo a “Un americano a Roma”: gli slogan in inglese ma senza saperlo, la militanza afro, gli inginocchiamenti in tv e per le strade, il ripescaggio di Montanelli per sedere anche noi al tavolo delle statue, e la consueta passione per le cause rivoluzionarie lontane – retaggio salgariano e operistico, più che “antimperialista” (“la tisi viene applaudita solo se ha luogo a Parigi, come insegnano La Traviata e La Bohème”, A. Arbasino). E’ il nostro funambolico allineamento a proteste, scontri, rivendicazioni etniche e guerre culturali intorno al “politicamente corretto”, con una lingua in cui “negra” indicava una cultura e “nera” una faccetta. Dunque, all’inseguimento, ancora una volta, in affanno. In attesa dell’autunno caldo, sarà un’estate rovente, signora mia. 

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Eravamo appena usciti dal Covid, per una volta primi in una manifestazione globale anche di una certa caratura, e si parlava addirittura di un “modello Italia” (l’avanguardia dei balconi!), ma eccoci tornati al punto di partenza. Col #blacklivesmatter siamo di nuovo a “Un americano a Roma”: gli slogan in inglese ma senza saperlo, la militanza afro, gli inginocchiamenti in tv e per le strade, il ripescaggio di Montanelli per sedere anche noi al tavolo delle statue, e la consueta passione per le cause rivoluzionarie lontane – retaggio salgariano e operistico, più che “antimperialista” (“la tisi viene applaudita solo se ha luogo a Parigi, come insegnano La Traviata e La Bohème”, A. Arbasino). E’ il nostro funambolico allineamento a proteste, scontri, rivendicazioni etniche e guerre culturali intorno al “politicamente corretto”, con una lingua in cui “negra” indicava una cultura e “nera” una faccetta. Dunque, all’inseguimento, ancora una volta, in affanno. In attesa dell’autunno caldo, sarà un’estate rovente, signora mia. 

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MM: Fantastiche queste pantere nere all’italiana, con manifestazioni a Milano e partecipazione dei meglio influencer, “I can’t Breathe”. 

AM: O alla Reggia di Caserta, con inginocchiata collettiva e pugno chiuso contro i Borboni schiavisti.

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MM: O a Roma, dove c’è già “largo George Floyd”.

AM: Proprio sotto la casa-museo di Sordi, a pochi metri dall’Inps. Siam sempre lì, non è mica colpa nostra. Così i fatti: dopo fulmineo raid al Pincio, con pranzo al sacco e colata di vernice rosa sul busto del generale Antonio Baldissera (capo delle truppe italiane in Eritrea nel 1888), un gruppo “antirazzista” si è scaraventato contro la targa di via dell’Amba Aradam, subito reintitolata a “George Floyd e Bilal Ben Messaud” (uno occidentale, cresciuto a Houston, amico di campioni dell’Nba, l’altro, tunisino, migrante morto in mezzo al mare, ma accomunati senza troppi complimenti per il fatto di esser neri). Seguiva comunicato, come ai beati anni delle P38, e attacco al “cuore del sistema”: la metro C. Non già, apritela! Basta! Finite i lavori! Ma “nessuna stazione abbia il nome dell’oppressione”. Un “No” risoluto alla fermata “Amba Aradam” (per ora solo cantiere). Diciamo quindi basta a tutte queste stazioni sanguinarie, predatorie, etnocentriche e imperialiste.


Gli slogan in inglese ma senza saperlo, la militanza afro, gli inginocchiamenti in tv e per le strade, il ripescaggio di Montanelli


 

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MM: Tipo “Furio Camillo” (Linea A, altezza Tuscolano), dittatore spietatissimo coi Volsci, gli Equi, gli Etruschi, uno che a Veio (nella wilderness estrema di Roma Nord) mise su un vero “pogrom”.

AM: Una ferita ancora aperta. Ci penso sempre ogni volta che prendo la Cassia.

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MM: Arco di Travertino diventerà Porfido, almeno (vediamo che fanno a Londra con Marble Arch). Ma intanto a Londra hanno buttato giù la prima statua nera! Scandalo? Quella del Negus Hailé Sélassié, ultimo imperatore d’Etiopia (che qualcuno sbagliando chiamava “il negrus”). Ma non pare opera di rivoltosi bianchi, bensì una ritorsione di giovani etiopi dopo l’uccisione del cantante democratico Hachalu Hundessa.

AM: Ma che c’entra Hailé Sélassié?

MM: Niente. Come in molti casi. Ma tornando a Roma, qui non ha attecchito molto il tema spacca-statue. Cioè, siccome sono già tutte spaccate da sole, abbandonate, già imbrattate, anche i più contestatori sono in un mood positivo. Continua il ribaltamento, anche nel dopo Covid la capitale detta la linea. Diverse associazioni, tra cui Black Lives Matter Roma, Associazione Garibaldini per l’Italia e Women’s March Rome hanno inviato una lettera alla Raggi per chiedere di realizzare un busto di “Andrea il moro”. Andrés Aguyar, discendente da una famiglia di schiavi deportata dall’Africa in Uruguay, ha combattuto con Garibaldi. Ma non ha nessuna statua che ricordi il suo sacrificio. Così adesso chiedono che sia eretta una statua a lui dedicata, accanto a quella di Garibaldi medesimo, che casca a pezzi.

AM: Si può sempre mettere vicino alla statua di Mazzini, alle pendici dell’Aventino, quella che nei “Nuovi Mostri” Sordi/Catalan-Belmonte chiama “il monumento a Mussolini”, intuendo e forse già prefigurando la gran confusione di epoche e dittature e imperi del Male in cui siamo sprofondati (almeno Catalan-Belmonte era ubriaco fradicio). 


Arco di Travertino diventerà Porfido, almeno. Ma intanto a Londra hanno buttato giù la prima statua nera! Scandalo?


 

MM: Anche lì, come nella Metro C, il difficile è stato realizzarla, più che abbatterla. La prima pietra è stata posta nel 1922. Termine lavori: 1949. E poi è tutto in discesa, basta non manutenerla. Nessuna adunata “antifa” per prenderla a calci e pugni, nessuna colata di vernice, niente “racist” e “stop with supremacy” o “Mazzini scafista” con la bomboletta spray, ma un lento, inesorabile autosgretolamento.

AM: Una grande lezione di civiltà. Statue che si disfano da sole. Però come “splendida cornice” non hanno niente da invidiare ai vialoni di Washington. E’ un risorgimento che guarda al mare, verso la Cristoforo Colombo, che ora dovrà necessariamente cambiare nome. Si potrebbe rinominarla, “Via dei nativi americani”, anche se ci vorrà del tempo ad abituarsi: tutti in coda sulla “Nativi”, oggi me so’ fatto due ore di ingorgo sulla “Nativi”, prendi la “Nativi”, te la fai tutta e sei arrivato a Ostia.

MM: Come suona male. E’ sempre un problema di lingua.

AM: Chiaro. Sempre lì si finisce. In un paese in cui l’inglese non si sa, non si parla, non si scrive (ma siamo tutti “fluent” nel cv) ecco la gran parata di hashtag e slogan molto cool, brandizzabili, pop, altamente instagrammabili, “I can’t Breathe” ma anche “Every breath you take”. Per esempio, di Hong Kong non ce ne frega niente anche per una carenza di rime e coreografie linguistiche (con gli hashtag in cantonese ’ndo vai?). Anziché il derby statua di Montanelli vs monumento a Pasolini, avrei voluto vedere talk-show e tg con servizi in cui si chiede a bruciapelo alla gente, anzi magari proprio ai protestatari, scusi ma lei lo sa cosa vuol dire #blacklivesmatter? Per esempio, senti qui: “Felpa con cappuccio, cappello da baseball in testa, cartello con scritto ‘Fuck Racism’ in mano, Chiara Ferragni ha marciato insieme al marito Fedez, 30 anni, e al caro amico di famiglia Luis Sal. Sui social ha condiviso alcune immagini dell’evento e accanto alle foto ha scritto semplicemente: ‘Milano, 7 giugno, La materia dei neri vive’ (“Gossip&Celebrities, 10 giugno 2020). Traduzione in effetti anche molto shakespeariana (“la materia di cui sono fatti i neri”).


La Cristoforo Colombo ora dovrà necessariamente cambiare nome. Si potrebbe rinominarla “Via dei nativi americani”


 

MM: Ma le due realtà, la materia dei sogni di un antirazzismo cool e quella invece di tante altre black lives più terra terra si incontreranno mai? A Milano i riders si accapigliano di notte per prendere i torpedoni che li riportano nei loro suburbi; le ferrovie non ce li vogliono. Ma del resto dalle mie parti poco politicamente correttamente i treni pendolari della notte, tra Milano e Brescia, frequentati in gran parte da immigrati, si chiamano “il nigger”. “Hai preso il nigger delle 20 e 30? Ma sei pazza, amore” – è una conversazione che ho sentito varie volte. Anche in variante “giargia”. Il “giargia” o “giargianese” è un interessante concetto lombardo che identifica ogni individuo che non sia del posto, dunque straniero, immigrato, ecc. (dunque, variante: “Ho preso il Giargia delle 21”).

AM: Però senti come suona male, Giargia. George Floyd, invece, “senti invece come appoggia bene” (cit.).

MM: Bè certo, a noi ci piacciono i neri americani perché hanno nomi americani, mica come i neri nostri, che sono neri con l’aggravante di essere africani, o peggio ancora, italiani. Il rappresentante sindacale dei braccianti si chiama Aboubakar Soumahoro. Ma come si fa? Ma non ce l’ha un ufficio stampa?

AM: Ma basterebbe anche un amico. Però sarebbe invece perfetto per un film Mibact di interesse culturale con l’africano o afroitaliano (o migrante) buttato lì sempre in quota “problema”. Mai un piccolo imprenditore, mai uno che ce l’ha fatta, uno che di giorno lavora e la sera si guarda le partite su Sky. Macché.


Avrei voluto vedere talk-show e tg con servizi in cui si chiede a bruciapelo alla gente: scusi ma lei lo sa cosa vuol dire #blacklivesmatter?


 

MM: Tipo il proiettile vagante in “Ferie d’agosto”: chi mai se lo doveva prendere se non il nero ambulante?

AM: Come nelle leggi hollywoodiane non scritte, “se c’è una pistola, prima o poi deve sparare”, se c’è un nero in un film italiano prima o poi arriva il disagio. In un attimo si è passati da “Uè Africa! Back in the Jungle!” del Commendator Zampetti al drammone punitivo, neorealista, tediosissimo, con gli africani usati solo in chiave ricattatoria, ladies and gentlemen, “ecco a voi un po’ di senso di colpa occidentale”.

MM: Il nostro canone afro è assai incerto. Memorie dei più anziani, per le patetiche avventure imperiali (in ritardo anche lì su tutti, impero durato 5 anni, armi chimiche, siamo riusciti a essere allo stesso tempo cattivissimi e perdenti).

AM: La nostra formazione e consapevolezza antirazzista è racchiusa in una manciata di nomi: Kunta Kinte, Sammy Barbot, Denny Mendez che vince Miss Italia (con lo strappo del popolo contro la giuria che non la voleva votare), Fidel Mbanga-Bauna del TG3 Lazio (con quel formidabile “Fidel” a fare da apripista), al limite Idris, Balotelli (dimentico sicuramente qualcuno). Poi certo, c’era “Aziz”, il nostro “caratterista nigeriano”. Incassava le battute perfide dei bianchi caucasici milanesi o romani. Scoperto dai Vanzina, lanciato in “Drive-In”, immortalato nello spot dei sottaceti Ponti, finito poi in una brutta storia di abusi nel giro delle cliniche del guru dell’anoressia, Waldo Bernasconi, ma si è sempre dichiarato innocente. “Aziz” si chiamava Isaac George, nome da campione di basket o da re del Soul, qui invece diventava il prototipo del cameriere, scoppiazzando ma per ridere l’America di “Via col Vento” e “Zì, Mizz Rozzella”, anche perché il cameriere, si sa, in Italia è filippino, “Manila, Parioli” (come recita il titolo del documentario che dobbiamo fare con Enrico Vanzina).


Come a Hollywood “se c’è una pistola, prima o poi deve sparare”, se c’è un nero in un film italiano prima o poi arriva il disagio


 

MM: Infatti da noi nessuno ha mai avuto personale di colore, se non qualche fanatico all’Olgiata. E le nostre “mami” erano semmai delle tate venete; veneto bianco, si diceva. I loro discendenti adesso hanno fabbrichette di occhiali o multinazionali tascabili coi capannoni, e non sembrano covare rancori. Mica come l’immigrato che si è arrostito il gatto per strada. Vicentini mangiagatti, si diceva una volta. E anche il più grande scrittore coloniale era un veneto che non era mai uscito di casa, Salgari naturalmente. Nel 1896 scrive “I drammi della schiavitù”; trama: il mercante di schiavi Alvarez si ripromette di cambiare vita. Per prima cosa decide di liberare il gigantesco nero Niombo e la bellissima mulatta Seguira. Kardec, comandante in seconda, che non accetta il pentimento del suo capo, approfitta di un naufragio per eliminare Alvarez. Sulla zattera che raccoglie i naufraghi e che dagli stessi schiavi viene ricondotta sulle spiagge amiche, Kardec ritrova i due, Niombo e Seguira. Mentre per gli schiavi lo sbarco rappresenta il ritorno alla vita, per Kardec è l’inizio della fine. Non potrà infatti sfuggire a Niombo e Seguira che sapevano del tradimento e inesorabilmente subirà la loro vendetta. Anche Calimero, che è un Black Lives d’annata. Nasce nel 1963 come pubblicità della Mira Lanza, il pulcino nero rifiutato da tutti. Con slogan che andrebbero benissimo anche oggi. “Eh, che maniere! Qui tutti ce l’hanno con me perché io sono piccolo e nero… è un’ingiustizia però”, con accento veneto (lo vedi che il Veneto è il nostro Mississippi).

AM: Ma nei ripescaggi della nostra memoria collettiva, schiavitù e segregazione razziale non significano “Black Panthers” o Malcom X, ma “Radici”. 1978, RaiDue, sceneggiato in otto puntate (oggi “serie evento”), uno dei miei primi ricordi televisivi. Subito archiviato come zozzeria dalla critica (un “Via col vento” che fa il verso a “Spartacus”, dicevano, quindi polpettone, melodrammone, americanata). Il pubblico andò invece in delirio. Ci fu anche il trionfale tour italiano di Kunta Kinte (LeVar Burton). Lunghe notti romane in discoteca con servizi in stile “Studio 54” e titoli formidabili sui giornali (“La dolce vita di Kunta Kinte”) più “Telegatto” a Milano. Le interviste di quegli anni danno la misura di una distanza che non è solo storica. Kunta Kinte dice che non gliene frega niente di intestarsi una battaglia politica, è giovane, bello, laureato alla Southern University of California, ha studiato teatro, vuole diventare un attore bravo, ricco e famoso. Quando gli domandano chi è il suo modello, non dice Martin Luther King ma Lawrence Olivier. Sammy Barbot invece me lo ricordo vestito come Fred Astaire in “Top Hat” sulle copertine di Tv Sorrisi e Canzoni, Il Monello o mentre canta “Aria di casa mia”. Chiamato a dare un bilancio di quegli anni dice sempre, “L’Italia non è un paese razzista, casomai classista”. Famiglia e raccomandazione battono segregazione. Ma da mo’.

MM: Il fatto è che scontiamo questo colossale ritardo culturale. L’Italiano non è razzista, ma se tutto procede arriverà a esserlo finalmente tra 20 anni, con la stessa sfasatura che c’è su tutti i temi culturali, anche se il pregiato internet fa finta che non sia così. E giustamente gli ex schiavi americani adesso sono ancora parecchio arrabbiati, anche dopo 150 anni. E gli ex padroni abbastanza preoccupati, come la coppia pistolera del Missouri. Però che c’entriamo noi? Se c’è una cosa che non abbiamo mai avuto sono gli schiavi neri. Ci stiamo lavorando, d’accordo. Ma farci sentire subito in colpa pare un po’ ingiusto. Tra cent’anni nei salotti di illustri professori della Sapienza o Tor Vergata o addirittura first lady avremo le foto degli antenati che raccolgono i pomodori sulla Pontina; come nel documentario su Michelle Obama, in cui si capisce che l’università è la vera molla della riscossa sociale.

AM: Il “Radici” di Netflix.


L’Italia ha sempre questa vocazione da ultimo della classe: che non ha studiato, non sa la materia, ma alza la mano e dice la sua


 

MM: Al padre non avevano permesso di studiare in quanto nero, lei riesce a entrare a Princeton. Ma sono paragoni che non reggono. In Italia la molla sociale dell’università funziona soprattutto sul lato dell’offerta, per i docenti, che hanno la foto degli antenati che insegnavano la stessa materia nello stesso ateneo da prima della schiavitù.

AM: Infatti fa un po’ impressione quando si accusa l’Italia d’esser anti-nera, come se ci fossero gli stuoli di avvocati, notai, manager, ballerini, neri, a chiedere lavoro, e l’Italia perfida glielo negasse. A parte che qualunque nero o bianco un po’ sveglio, se dotato di questi attributi, cercherebbe altrove.

MM Ma noi ci sentiamo subito in colpa. I poveri stilisti, da Prada in giù, sono invece disperati perché non riescono a trovare abbastanza designer e consulenti e amministratori di colore, ricevendo cazziatoni dall’estero. Che dovranno fare? Formare rapidissimamente allo IEO o IED i primi arrivati da barche e gommoni?

AM: Potrebbero inserire un corso di studio di fashion design al celebre Nobile collegio di Mondragone.

MM: Tu scherzi. Però anche a Mondragone, la nostra Tara: alla fine sono bulgari, cioè bianchi. Un disastro.

AM: Non si riesce proprio a immaginare delle black lives per cui valga davvero scendere in piazza sfidando anche la canicola, oggigiorno.

MM: Già, difficile immaginare anche l’equivalente dei ricchi possidenti americani fotografati davanti al loro villone e subito vituperati. A parte che la foto è fantastica. Lui col capello color mogano, la polo Brooks Brothers rosa infilata nei pantaloni, lei sbarazzina a piedi scalzi e maglia a righe che sfina. Per lui una virile arma d’assalto, per lei una piccola pistola per signora. E però, a parte che bisogna aver provato a entrare in una proprietà privata in America, per sapere come sia considerato molto poco divertente; da noi non funzionerebbe. Non so, mi immagino una fantastica coppia mia conterranea, il Franco e la Umberta Beretta (lei mecenate e aspirante influencer); illustre stirpe che fornisce le pistole ai poliziotti americani: eccoli sulla porta di casa a Milano, che sbirciano la manifestazione da cui sbuca la Ferragni. Sarebbe subito un: ma venga su, facciamo un brunch, una story!

AM: Insomma, un vero razzismo è impossibile, al momento. Anche se siamo pronti a prenderci questa responsabilità.


Calimero è un Black Lives d’annata. Nasce come il pulcino nero rifiutato da tutti. Con slogan che andrebbero bene anche oggi


 

MM: Sempre. Come negli anni Cinquanta: avevamo lì subito pronto il senso di colpa per il boom non ancora arrivato, non avendo ancora il bagno in casa e non avendo ancora imparato a camminare con le scarpe.

AM: Un “tugurio in cui i proprietari sono riusciti a comprarsi la televisione” diceva Pasolini (solo che per lui il problema era la televisione, mica il tugurio). Il fatto è che in Italia, avere per una critica del progressismo, ci vorrebbe magari prima un po’ di progressismo. Ma noi no. Abbiamo quelli che si autoproclamano “politicamente scorretti” pensando di essere anticonformisti, ma senza alcuna dittatura del politicamente corretto nelle Università, e con Salvini a ruota libera su tutto, come vuole, quando vuole. E’ un po’ come col cinema. Abbiamo attori che son tutti “antidivi”, da Ambra a Elio Germano, ma senza uno straccio di star system da cui prendere le distanze.

MM: Come quelli contro la gentrificazione del Pigneto. Ah, il politically correct all’italiana è una delle mie materie preferite. Un giorno verrà studiato in tutto il mondo. E’ arrivato mal tradotto, poco compreso, perduto in qualche dogana negli anni Novanta. Lo stanno leggendo ora in traduzione. In America sono 30 anni che le grandi corporation sponsorizzano bovinamente tutte i pride (che non si chiamano più gay da un pezzo), ma noi qui: ah, non poter insultare questi zozzoni. Il pensiero unico! Laggiù, invece, nostalgie per quei bei pride scollacciati di una volta.

AM: Voglio vedere quando arriveranno anche qui i Pride in abito e valigetta, visto che si tiene sempre nella settimana più calda dell’anno, e ai manager sarà imposto di saltare sul carro col tre bottoni.

MM: Come gli amici stranieri che dicono: ah, che bravi, avete sgominato Uber, siete tornati al caro vecchio taxi. Vai a fargli capire che non è mai arrivata. C’è sempre di mezzo quel ventennio di fuso orario. Ma L’Italia ha sempre questa vocazione da ultimo della classe: che non ha studiato, non sa la materia, ma alza la mano e dice la sua. Deride gli altri, poveri tapini, che non hanno capito niente. E fa pure un rutto, già che c’è.

AM: Passa direttamente dalle pecore al #metoo, ma dando lezioni a tutti.


Difficile immaginare anche l’equivalente dei ricchi possidenti americani fotografati davanti al loro villone e subito vituperati


MM: Vivere tra i due sistemi è istruttivo. Quando passavo un po’ di tempo in California, terra di ardenti passioni civili, ci ho vissuto gli albori del #metoo, e talvolta registravo esagerazioni di progressismo allucinato. Poi, tornato a Roma, a cene di altissimi intellettuali, apprendevo che “so’ tutte mignotte”. Pure il #metoo all’Italiana è fenomeno interessante: Il Weinstein originale s’è preso 20 anni; da noi, registi scagionati molto velocemente, lavorano più di prima, meglio.

AM: Anche qui ritardi devastanti. La migliore letteratura sul o contro il “politicamente corretto” è tutta dei primi Novanta. “The Closing of the American Mind” di Allan Bloom è del 1987 e c’è già tutto quello che c’è da sapere (quell’anno, la nostra provocazione letteraria è “Libidine”, il libro gonfiabile di Roberto D’Agostino). Tutto il capitolo centrale di “Paesaggi italiani con zombi” di Arbasino è già un formidabile regolamento di conti col pol. corr., il “conformismo e perbenismo ideologico che si sviluppa nelle più intolleranti e pedanti università americane di provincia, come ripresa di bigottismi e tabù intransigenti dopo l’apparente epifania liberatoria o rivoluzionaria dei Sessanta”. Ma, notava già Arbasino, questa soppressione di parole obiettive che precisano realtà non approvate (cieco, zoppo, sordo, storpio, muto, facchino) si incontra poi qui con la sfrenata passione per le “metafore”, i giri di parola astratti, l’esprimersi “mediante litote”, oppure, con la cifra della pura maleducazione, rutto libero, rivendicazione della parolaccia e dell’insulto, ma senza grandi connotazione politico-ideologiche.

MM: Ma certo, o Philip Roth: è chiaro che se vuoi insegnare nelle università americane ormai devi essere almeno albino e non binario. Si sa. Ma da noi, la lamentela indignata invocante la libertà di pensiero è piuttosto quella del vecchio docente palpeggiatore che non si sente più libero di palpare la dottoranda. Dove andremo a finire, con tutto questo politicamente corretto, urla, sinceramente sconcertato? Per non parlare della legge liberticida che ci impedirà di percuotere o ingiuriare l’improvvisa coppietta gay in transito.

AM: E qui, le parole contano! “Siamo il paese con più go home del mondo, ma nessuno scrive come here, forse perché non sanno come si scrive”, diceva sempre Arbasino. Se invece che Politically Correct l’avessimo chiamato Buona Educazione, avremmo evitato un sacco di guai. Bisogna seguire non le usanze estere bensì le nostre zie (dalle derive del Pol. Corr ci salveranno le vecchie zie): non si mettono mani sul sedere alle sconosciute, non si dice la parola con la n*, né quella con la f*, sarebbe un’occasione anche per gli anziani non inurbati che non riescono a cogliere l’arduo concetto, per ottenere un po’ di buone maniere gratis.

MM: Potremmo mettere i navigator o i nonni baby sitter (magari soprattutto vecchi baroni e conti e colonnelli, vecchie contesse in disgrazia, col palazzo in affitto su Airbnb deserto), a tenere seminari di etichetta.

AM: Un’aristocrazia (nera) diffusa, come gli alberghi. Sarebbe una rivoluzione. Ma “le rivoluzioni qui si fanno solo contro le opposizioni” (AA).

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