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C’è una complicata strategia di compromesso tra Meloni e Nordio

Salvatore Merlo

Patto tra la premier e il suo ministro della Giustizia: a lei serviva scippare la giustizia alla “pelosità” di Forza Italia, raggiungendo un equilibrio tra nuove posizioni garantiste e giustizialismo storico della destra. Equilibrio che richiede però un ammorbidimento anche da parte dell'ex magistrato. Con l'obiettivo di una riforma ambiziosa

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Lo apprezza, talvolta forse crede che lui un po’ esageri, dunque s’indispettisce e fa in modo che qualcun’altro, come il sottosegretario Andrea Delmastro, s’incarichi di correggerne le parole. Ma Giorgia Meloni se l’è scelto appositamente Carlo Nordio, il ministro della Giustizia. Ben sapendo chi fosse e come la pensasse questo ex magistrato ipergarantista e liberaldemocratico che è contrario all’ergastolo ostativo, che è sensibile ai diritti degli indagati e dei detenuti, e che vorrebbe circoscrivere l’uso delle intercettazioni. Limitarle, ben oltre quello che in realtà il governo si appresta a fare. Meloni sapeva, dunque, e sa benissimo con chi ha a che fare. D’altra parte, ancora prima che il governo si formasse, persino prima di aver vinto le elezioni, l’attuale presidente del Consiglio aveva già elaborato uno schema e un piano per la giustizia che prevedeva proprio Nordio ministro in nome di un principio che in alcune riunioni riservate lei stessa definiva “riduzione del danno”: non consegnare il ministero della Giustizia a Forza Italia, chiudere per sempre con la stagione delle leggi ad personam occupando e caratterizzando in maniera nuova quello spazio politico fin qui egemonizzato (in maniera “pelosa” secondo molti consiglieri di Meloni) proprio dal partito di Silvio Berlusconi. Ed ecco dunque Nordio.

  
Per tagliare fuori Forza Italia dalla Giustizia, con l’obiettivo di non farsi trascinare da Berlusconi in meccaniche pericolose e dissennate, occorreva proprio “rubare” il garantismo a Forza Italia. Raggiungendo però – questo era (ed è ancora) il ragionamento empirico di Meloni – un complicato equilibrio tra queste nuove posizioni e il “giustizialismo” storico, per non dire atavico, dell’ Msi e di An. Quel genere di inclinazioni che sono popolari nell’elettorato di Fratelli d’Italia. Così Meloni, ancora prima delle elezioni, aveva individuato in Carlo Nordio la personalità che, per autorevolezza, biografia e limpidezza personale, potesse incarnare questa “strategia del furto”. Sulla base, però, di un compromesso. E di un accordo molto preciso che doveva determinare un ammorbidimento delle posizioni della destra legge e ordine, sì, ma anche di Nordio.

    

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Una via di mezzo, appunto. Ragione per la quale, in queste settimane, Nordio ha ceduto sull’ergastolo ostativo, mentre il partito di Meloni si appresta a un intervento sulle intercettazioni ispirato proprio da Nordio e dall’idea di riuscire a ridurne l’abuso. A Meloni non sfugge una cosa: il giustizialismo paga in termini elettorali. In un paese, l’Italia, dove si sono infatti spostati milioni di voti per effetto di uno scandalo corruttivo come Tangentopoli, il valore istruttivo, e per così dire pedagogico, di quel fatto enorme rappresenta, per gran parte della classe politica, la prova della bontà di questa filosofia generale. Cui Meloni, almeno sul piano comunicativo, non intende discostarsi poiché è ovviamente attentissima al consenso. E difatti non parla di giustizia, se non deve. Non interviene nemmeno per difendere Nordio. Ma, al di là della comunicazione, sul piano tecnico e operativo, la premier, come Nordio, intende intervenire non solo sulle intercettazioni ma pure su una più ampia riforma della giustizia che arrivi persino alla separazione delle carriere. Obiettivo ambizioso. Per questo, assieme a Nordio, coltiva la “strategia del compromesso” che porta a qualche ambiguità, sì, talvolta persino a delle incomprensioni tra lei  e il ministro, ma che è pure l’unico sistema che Meloni ritiene sostenibile per intervenire sul sistema giudiziario senza pagare un dazio elettorale.
 

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