Matteo Piantedosi (Ansa)

​​​​​​​“Ma quale ventriloquo di Salvini?”: il Viminale non è della Lega. Parla Piantedosi

Valerio Valentini

“Se la Lega vuole fregiarsi della mia lealtà, non posso che esserne onorato. Ma sono autonomo. Futuro in politica? Se la politica mi vorrà…”. Il nuovo codice di condotta per le ong e la diplomazia con la Francia. Le stazioni di polizia cinese. La bulimia comunicativa della Lega. Il decreto rave su cui "non c'è stata alcuna retromarcia". dice il ministro dell’Interno

A entrarci per la prima volta, si ha come uno straniante effetto di déjà vu. La carta da parati giallo pastello, il grande quadro con Madonna e bambino alla parete dietro alla scrivania stile liberty, le tende legate davanti alle vetrate delle finestre: una scenografia che a un certo punto, nell’epopea sbracata del grilloleghismo trionfante, quel continuum di interminabili dirette Facebook del Capitano, era diventata famigliare per gli appassionati del genere. Manca però la chincaglieria di corredo: i rosari, il cappello di Trump, la maglia di Baresi, il modellino della ruspa. Al posto dell’Alberto da Giussano, davanti al computer ministeriale, un grande corno rosso, di pregevole fattura, che poggia sul volto di un Pulcinella nero. Non è l’unico. Perché altri, più o meno vistosi, sono esposti anche sugli scaffali della libreria, sulle mensole, disseminati qua e là con un certo gusto della simmetria. “Il problema è che da quando s’è iniziata a diffondere la voce di questa mia passione, amici e collaboratori hanno smesso di ingegnarsi per farmi i regali: e puntano sempre sui corni, alcuni sono anche di un certo valore artistico”.

 

Ma che non sia solo nel mobilio, la discontinuità di forme e di apparati rispetto a una stagione, quella del salvinismo al Viminale che pure lo vide protagonista, Matteo Piantedosi ci terrà a ribadirlo più volte, nel corso della chiacchierata, pur senza mai tradire la più vaga forma di rinnegamento, né d’imbarazzo. “Semmai è un paradosso bizzarro, che mi colpisce”, racconta, nel suo impeccabile abito blu, voce profonda e inflessione partenopea da Toni Servillo, sedendosi sulla sua poltrona d’ordinanza. “Quando era capo di gabinetto dell’allora ministro Salvini, voi cronisti vi divertivate a dire che il vero ministro, quello che mandava avanti la macchina, ero io”. Era l’epoca, del resto, in cui Salvini il Viminale lo usava appunto come set cinematografico improvvisato, per poi dedicarsi, più che altro, ai tour elettorali in giro per l’Italia. “Ora, invece, ora che il ministro sono io davvero, c’è come una tendenza a insinuare che in realtà sarei controllato da altri, privo di una mia indipendenza”. E’ il “ventriloquo di Salvini”, dice di lui Simona Malpezzi, del Pd. “Ecco, appunto”. Al che tocca ricordare, però, delle non poche volte in cui i profili social della Lega, sotto i colori del partito, in queste settimane hanno pubblicato post con la sua faccia, la faccia di Piantedosi, e le sue dichiarazioni. Una sorta di appropriazione indebita di ministro, l’iscriverlo d’ufficio al Carroccio? “Che la Lega ritenga di volersi fregiare della mia lealtà, non può che farmi onore. Ma devo dire che, finora, riscontro una medesima piena condivisione di vedute e d’intenti con tutti i partiti della coalizione di governo”. Equidistante, insomma? “Equivicino, semmai”. 

E allora la curiosità bisogna provare a soddisfarla subito. Dunque l’avellinese Matteo Piantedosi, classe ’63, figlio della più fervida tradizione della Dc irpina, di un padre, preside, grande amico di Fiorentino Sullo, per chi ha votato alle ultime elezioni? “Curiosità legittima, comprendo. E so che comprenderete se non vorrò soddisfarla”. Attimo di silenzio. Poi, quasi deluso per la nostra delusione, riprende: “Ma credo che sul proporzionale il voto si desse alla coalizione, no? Ecco, allora posso cavarmela così”. Uomo di destra, dunque, lo si può affermare senza remore. “Se mi descrivete come tale, non mi offendo”. E al contempo, affezionatissimo a Pino Daniele. “La colonna sonora della mia adolescenza. Il mio cantante preferito. Ho una discografia completa, che parte con vinili dell’epoca, comprati quando ero studente”. E sì che sulla Lega, il giudizio era quello che era. Noi crediamo alla cicogna? “Ma l’arte è un’altra cosa. Non deve essere condivisa: ti deve piacere o non piacere”. E a Piantedosi, modestamente, Pino Daniele piacque. “Moltissimo”. (D’altronde Salvini era appassionato di De André, e poi è venuto su così: evidentemente sul rapporto perverso tra politica e cantautorato andrebbe condotta una lunga analisi – o anche no). “Ma Pino Daniele è trasversale, un genio che appartiene a tutti, che ha appassionato tantissime persone di diversa estrazione e provenienza. Fare parallelismi con la politica non è corretto”.

E Piantedosi, appunto, è un tecnico o un politico? “Non può esistere un ministro non politico”. Anche se guida quel Viminale che, dopo gli eccessi del salvinismo, s’è detto che andava depoliticizzato? “Non so chi abbia rinvenuto questa esigenza, francamente. Ma l’azione di un ministro, ovviamente ancorata a valori condivisi come il rispetto della Costituzione e la salvaguardia degli interessi della nazione, è sempre politica. Tanto più in un governo come quello di cui faccio parte”. E qui un’immagine carpita entrando nell’ufficio più illustre torna a imprimersi nella retina, a suggerire un sospetto. Perché nello studiolo d’anticamera – dove bisogna attendere che il ministro completi il penultimo di una lunga trafila d’incontri, in un venerdì di metà dicembre che lo ha visto prima impegnato in un vertice con i sindaci di Roma, Milano e Napoli, poi un Cdm protrattosi più del previsto, e poi un lungo pomeriggio di riunioni operative – ci sono due grandi quadri con l’elenco di tutti i ministri dell’Interno dal 1861 a oggi. E lì, nella lista aperta da Marco Minghetti – e che al quarantanovesimo posto annovera Benito Mussolini, ma non ditelo a Giancarlo Giorgetti, sennò s’arrabbia per il fattaccio delle foto al Mise – e chiusa proprio da Piantedosi, c’è una particolarità che il consigliere diplomatico Marco Villani, ambasciatore tornato di recente da Londra, ci tiene a far notare: accanto ad alcuni nomi c’è un quadrifoglio, a indicare che si tratta di prefetti, e in un solo caso, quello di Piantedosi appunto, il quadrifoglio ha un contorno scuro, marcato: “Segno che si tratta di un prefetto ancora in servizio al momento della sua nomina a ministro”. E viene spontaneo notare che, almeno per i precedenti più recenti – Luciana Lamorgese, certo, e prima di lei Anna Maria Cancellieri – l’intermezzo al Viminale è stato una parentesi di una carriera che con la politica politicante poi non ha voluto avere più molto a che spartire. E Piantedosi, invece? “La politica è un’arte nobilissima. Ma qui, credetemi, è già difficile pensare a cosa dovremo fare domattina”, sorride, sornione, il ministro, “quindi pormi problemi sul mio futuro remoto sarebbe velleitario”. Di nuovo una pausa attraversata dalla tentazione di aggiungere qualcosa, di nuovo una concessione inattesa. “Dopodiché, bisognerebbe sempre vedere se la politica vuole me”. Ma la politica l’ha voluto, non c’è dubbio: e l’ha voluto, tra l’altro, anche per risolvere un problema politicissimo, per superare insomma il veto che era stato posto da Giorgia Meloni sul ritorno di Salvini al Viminale, e le tensioni che ne sono conseguite. “Questa è una versione non certificata. Non v’è prova tangibile che quello fosse il problema, né che il mio incarico costituisse una soluzione”.

 

Di certo c’è che è stato un ritorno, per Piantedosi. “Ma dopo il mio incarico di capo di gabinetto, sono stato chiamato a fare il prefetto di Roma, dunque un ruolo che non coincide affatto con l’alienarsi dalla macchina del ministero dell’Interno”. E, per una coincidenza che forse non è così strana, ha ritrovato sulla scrivania molti di quegli stessi dossier che avevano tribolato le sue giornate durante il Conte I: persistenza di problemi che si vorrebbero facili e che sono invece complessi, inconcludenza della politica, o cosa? “Se vi riferite alla questione dell’immigrazione, è chiaro che è una faccenda difficilissima da gestire. Perché il fenomeno, almeno in queste proporzioni, è relativamente recente, perché è sempre cangiante, perché richiede convergenze e intese a livello internazionale e si scontra spesso, però, con la divergenza degli interessi dei vari stati coinvolti”.

Piantedosi ha fatto riferimento, nei giorni passati, anche alle interferenze di servizi segreti stranieri, al loro tentativo di utilizzare le ong per destabilizzare il quadro geopolitico in Europa. Allusioni gravi. “Che se fossero davvero tali, mi avrebbero indotto a fare ben altra denunzia che non quella a mezzo stampa. La verità è che io ho solo risposto a domande che mi ponevano questo interrogativo”. E non ha negato: non del tutto, almeno. “Francamente, di fronte alla pervicacia della volontà mostrata da alcune ong di forzare le regole e le leggi dello stato, di porre sotto stress le relazioni tra paesi amici, di adottare condotte che vanno di gran lunga oltre i meri intenti umanitari, non mi sento di escludere fino in fondo che possa esserci una regia più alta che risponde a disegni più ampi. Ma in Italia si finisce presto, poi, col lasciarsi suggestionare dalle trame occulte, dai servizi deviati. Quindi meglio non alimentare queste narrazioni”. Di fatto con le ong, però, lo scontro è aperto. “Ma non è uno scontro. Non c’è, da parte del governo, alcun tentativo di criminalizzare queste organizzazioni. Purché, però, la loro azione non sia tesa deliberatamente a configurarsi come un’azione contro il governo. In quel caso non possiamo restare passivi”. Bisogna credere, dunque, che non ci sia davvero alcuna tentazione propagandistica, dietro l’accanimento, retorico quantomeno, verso chi salva vite in mare? “Assolutamente no. Anzi, le accuse che ci vengono rivolte sul piano umanitario sono, devo dirlo, quelle che trovo più disdicevoli. Ma a dimostrazione che non è quella della criminalizzazione, la nostra bussola, posso anticipare che nel prossimo codice di comportamento per le ong, che contiamo di definire nelle prossime settimane, abbiamo l’ambizione di procedere a rafforzare le sanzioni amministrative anziché perseguire la via penale, com’è stato fatto nel recente passato”. Multe più salate? Sequestri delle imbarcazioni? “Come avviene già in molti altri ambiti del codice: una gradualità delle sanzioni che arriva, sì, fino al sequestro”.

 

Non se ne era occupato già Marco Minniti, a suo tempo? “Non v’è dubbio che quella stagione dimostrò come ci potesse essere una aspirazione, in quella fase, a convergere verso una certa cultura delle regole, a prescindere dalle appartenenze politiche. E di sicuro fu apprezzabile quel tentativo di condividere le norme di comportamento tra lo stato e le ong. Il ministro, all’epoca, optò per una via convenzionale, quella pattizia, priva di cogenza, cioè di accordi che dunque non prevedevano sanzioni. E anche in quell’occasione alcune ong non la condivisero. Ma l’effetto positivo di quell’approccio di Minniti fu l’introdurre all’evidenza dell’opinione pubblica il tema dell’esigenza di regolamentazione”.

 

Serve una pausa. “Una via pattizia, priva di cogenza”: che fatica, ministro. “Anche voi avete visto Maurizio Crozza, eh? Eccezionale, mi ha divertito moltissimo”. Lo sketch è esilarante, va detto: c’è il ministro, assediato dai cronisti, che s’indispettisce: “Non frapponetevi all’incedere celere del ministro nell’esercizio delle sue alte funzioni atte ad alternare nella deambulazione gli arti inferiori”. Il tutto per dire: “Sto camminando”. Piantedosi ride di gusto, allarga le braccia. “Dovrei sentirmi schernito, ma in verità non posso fare a meno di rivendicare anche quelle complessità del linguaggio che mi appartengono come l’eredità di 34 anni trascorsi in prefettura”. Dal che poi, però, talvolta scaturiscono pure inciampi poco onorevoli, come l’ormai proverbiale “carico residuale” riferito ai disgraziati rimasti a bordo delle navi ormeggiate al largo di Catania, ad esempio. O forse c’è, dietro a questi bizantinismi sintattici, questi arzigogoli da antilingua calviniana, il salto nel vuoto del tecnico che deve trovare accomodamenti praticabili laddove altri additano sbrigative soluzioni. E qui i collaboratori del ministro s’allertano sulle loro sedie come a indicare la sconvenienza della domanda, l’insidia che il rispondervi comporterebbe. Ma Piantedosi con un gesto della mano li trattiene. “Se io cedessi alla sua lusinga, implicitamente accuserei i miei colleghi di governo di essere dei superficiali”. In effetti. “Ecco, appunto”. Accidenti se è pronto, per la politica. 

 

E la politica, però, sembra forse quella che manca al governo italiano sulla questione dei migranti. Molti proclami, molte rivendicazioni spesso supportate da evidenze giuridiche alquanto fumose (del tipo: “se la nave batte bandiera norvegese, se li prenda la Norvegia i clandestini”), ma l’impressione che in Europa ci sia poca disponibilità ad ascoltare le ragioni dell’Italia. Sicuri, allora, che aver innescato quella mezza crisi diplomatica con Parigi per 234 persone sia stata una scelta saggia? “Noi abbiamo solo mostrato una postura di fermezza di fronte a una nave che cercava di forzare le nostre disposizioni. E lo abbiamo fatto, peraltro, applicando una norma introdotta dal Conte II. E’ stata una scelta che ha pagato, se è vero che per settimane, poi, le partenze dalle coste della Libia si sono di fatto interrotte”. E qui Piantedosi prova a confutare anche l’evidenza dei numeri che gli viene posta. “Certo, quelli effettuati dalle ong rappresentano, nel complesso, non più del 10 o 15 per cento degli sbarchi complessivi”. Appunto. Come si può non pensare che l’esasperazione dei toni su queste organizzazioni non tradisca scopi elettoralistici? “Ma non si può non vedere che la presenza delle ong nel Mediterraneo costituisce un fattore di attrazione, un incentivo alle partenze”. La tesi famigerata del pull factor, dunque: che però, a dispetto della presunta “naturale convergenza tra l’attivismo delle ong e gli interessi degli scafisti” affermata da Meloni, è abbastanza dibattuta in sede europea. “Ma al di là di recenti documenti fornitici dall’agenzia Frontex, la nostra profonda convinzione poggia sulla supervisione diretta dei flussi. Lo schema di gioco è sempre lo stesso, e si sta replicando anche ora, mentre parliamo, al largo di Zuara. Funziona così: una nave più piccola viene schierata in prossimità delle coste della Libia, mentre la nave più grande resta più distante, pronta ad accogliere i migranti appena trasbordati subito dopo. Come può, questo, non essere un incoraggiamento delle partenze?”. 

 

In ogni caso l’aver adottato quella posa rigorista, con le tre ong, a metà novembre, ha portato a un pastrocchio diplomatico con la Francia. “Le tensioni con la Francia sono nate a seguito della scelta del capitano della Ocean Viking, presa in assoluta autonomia e senza che noi ne venissimo in alcun modo informati, di lasciare le acque siciliane per dirigersi a nord. Tanto che abbiamo atteso delle ore per capire se le notizie riportate da agenzie di stampa, secondo cui le autorità francesi erano disposte ad autorizzare lo sbarco, fossero fondate. E siccome nessuno le ha smentite…”. Sicuri che non si sia sbagliato nulla, qui a Roma? “Non una dichiarazione né ufficiale né informale è uscita dal mio ministero in quelle ore”. Dal Viminale no. Ma Salvini fece post di questi toni: “La linea dura paga: i francesi aprono i porti. L’aria è cambiata”. E via trionfando. “Non dal Viminale. E in generale non credo sia stata questa o quella dichiarazione di un qualche ministro a indispettire i francesi”. 

Che comunque, però, si sono indispettiti. “Col mio omologo Darmanin ci siamo confrontati nella sede a ciò preposta, e cioè il Consiglio per gli Affari interni dell’Unione europea. E sul merito delle misure da prendere, i nostri interventi sono stati perfettamente sovrapponibili. Dove conta davvero, nell’assise più importante a livello comunitario, non s’è registrata alcuna divergenza di vedute”. Una puntualizzazione così insista, questa di Piantedosi, che sembra voler sottintendere una certa volontà di distinguere la cagnara dalla diplomazia, le ragioni della propaganda da quelle del governo. Lui si diverte per l’annotazione, non si scompone. “Questo lo dite voi, e ve lo lascio dire. Io non posso che notare che il problema migratorio è un problema europeo, che nessun paese può illudersi di affrontare con le sue sole forze”.

 

E però da anni, e con una sostanziale indifferenza rispetto al variare dei governi, in Europa si va a far valere delle ragioni che gli altri stati membri semplicemente non riconoscono. Forse perché anche Parigi, Berlino, Vienna, hanno le loro certezze, fondate ad esempio sulle cifre delle richieste di asilo fornite da Eurostat. La Germania l’anno scorso ne ha ricevute 148 mila, la Francia 103 mila, la Spagna oltre 63 mila. L’Italia poco più di 45 mila. Per non dire, poi, della presenza degli stranieri residenti in rapporto alla popolazione. “Non c’è dubbio che, quando si arriva a discutere del problema migratorio a Bruxelles, ciascun paese porti le sue esigenze, e in base a quelle propone o pretende certe misure”. Anche il recente Consiglio europeo, quello in cui Meloni avrebbe voluto intestarsi una svolta sul Mediterraneo, ha visto le proteste di Austria e Olanda per i movimenti secondari. “E qui c’è un paradosso: e cioè come si possa porre il tema dei movimenti secondari, ovvero di migranti che dopo essere arrivati in Europa si spostano da un paese all’altro, senza affrontare la questione dei movimenti primari, ossia interrogarsi su come ridurre e regolare gli arrivi in Europa. Ma al di là di chi ha più ragioni degli altri, io sono convinto che all’interno dell’Unione non si possa che perseguire quello che definirei un approccio olistico, e cioè sforzarsi di gestire questo fenomeno così complesso e sfaccettato in tutti i suoi aspetti, contemperando le istanze dei vari paesi e coordinando le azioni degli stati membri”.

 

Sarà il ministro della lotta all’immigrazione? “Mi sento un ministro dei territori, lì dove va preservata la legalità e la sicurezza dei cittadini. Si pensi allo sgombero degli immobili occupati illegalmente: siamo intervenuti ad esempio a Pizzofalcone a Napoli, una realtà da tempo inquinata da infiltrazioni criminali. Si pensi anche alle numerose e importanti operazioni condotte negli ultimi giorni per ripulire le piazze di spaccio in varie città italiane. Legalità e la sicurezza servono in ogni ambito e in ogni direzione”. 

E’ qui che il ministro si alza e va alla scrivania, da una scatola molto raffinata estrae un sigaro Toscano che s’indovina di notevole qualità (“Vi dispiace se lo accendo?”), dà una sbirciata all’orologio. Bisogna sollecitarlo sull’altro tema che lo ha visto, all’esordio del governo Meloni, guadagnare il proscenio in Cdm. “Immagino vi riferiate al fatto che siamo stati bravissimi a sgomberare il rave di Modena, situazione ad altissimo rischio per l’incolumità stessa dei partecipanti, in assoluta celerità e senza alcun disordine”. In realtà proprio l’efficacia di quell’intervento, la buona riuscita dell’operazione, inducono a dubitare che fosse davvero opportuno agire con tanta fretta, forse perfino con una certa approssimazione. Trop de zèle?  “Anzitutto, l’aver brillantemente gestito lo sgombero del rave non può certo esimerci dall’interrogarci su come poter dare migliori strumenti normativi sia per intervenire in futuro, sia, soprattutto, su come provare a scoraggiare simili manifestazioni abusive. Né fretta né approssimazione, dunque. Abbiamo semmai dato seguito a istanze che dalla struttura interna del ministero erano state già avanzate da mesi, e che già il precedente governo aveva valutato”.

 

Senza, però, procedere. E forse non a caso. Qui si è introdotto un nuovo reato penale sulla scia del clamore di un fatto di cronaca. “Ma non c’è stato alcun nuovo reato, si è solo aggiunta una ipotesi aggravata a un articolo del codice penale, quello che punisce l’invasione di terreni o edifici”. Converrà che è lo stesso che introdurre un nuovo reato. “Sul piano nominale, non direi. A noi interessava soprattutto varare lo strumento della confisca delle strumentazioni, appunto in una logica di deterrenza. Inoltre, si è molto dibattuto sull’uso di intercettazioni a tappeto: nulla di più infondato, dacché l’aggravante ipotizzata riguarderà soltanto chi organizza i rave, non chi vi partecipa”. Va detto che però, su entrambi i fronti, le storture segnalate c’erano nella stesura iniziale del provvedimento: è stato in Senato che si è intervenuti sia sulla ridefinizione della fattispecie di reato, sia sul restringimento della sua applicazione ai soli organizzatori. “Un lavoro svolto in piena armonia tra governo e Parlamento, come si conviene”. E tuttavia c’è chi, anche per questo, descrive Piantedosi come “il ministro della retromarcia”, in Transatlantico. “E’ uno che cede con fermezza”, dicono. “Ma non s’è resa necessaria alcuna retromarcia nella misura in cui non c’è stata alcuna fuga in avanti. Si è lavorato in clima di grande concordia”. Anche col ministro della Giustizia Nordio, assai contrario alle tentazioni “panpenalistiche”? Piantedosi s’acciglia. “Ah, ne ho letti di retroscena... Posso dire qui, senza tema di smentita, che con Nordio c’è piena, totale e granitica sintonia”. 

 

Il fattaccio delle stazioni di polizia cinese non ci dice che forse, nel recente passato, siamo stati troppo ingenui nell’accettare accordi di collaborazione con Pechino sul nostro territorio, come per i pattugliamenti congiunti? “Chi volle introdurli, immaginò forse una convenienza nella collaborazione con le istituzioni di quel paese”. Possiamo dire che i fatti hanno dimostrato che gli intenti di Pechino non erano quelli di una mera collaborazione? “Quelli dei pattugliamenti congiunti sono dei memorandum standard, che riguardano anche altri paesi”. La Cina forse è un paese un po’ particolare, in questo senso. “E infatti posso dire che quelle forme di collaborazione non verranno più praticate, né replicate in altre forme. Del resto, questo è un governo che, come alcuni criticamente osservano, si configura come sovranista: potrebbe mai accettare che proprio sul fronte del controllo del territorio ci fossero delle cessioni, sia pur potenziali, di sovranità?”.

 

E un governo di destra, improntato ai principi di legge e ordine, può invece tollerare un certo sbraco libertario sui vaccini? Non è un po’ contradditorio, quantomeno? “Non mi pare proprio che ci sia questa tendenza. Se ci si riferisce al reintegro anticipato dei medici in servizio, direi anzi che si è seguita una logica rigorosa per cui si è preteso da tutti il rispetto della legge finché non si è poi provveduto a mutarla, quella legge. E lo si è fatto non certo per assecondare chissà quali pulsioni, ma solo perché chi di competenza ha ritenuto che la situazione pandemica consentisse quella modifica normativa”. Non c’è stato, nella destra sovranista, in questi anni, un certo ammiccamento alle tesi dei No vax? “Non credo riguardi solo la destra, di certo il discredito verso i vaccini non è stato promosso da nessun esponente di questo governo”. Be’, c’è stato un sottosegretario alla Salute che ha detto che non c’è “l’onere della prova inversa” (sic) sul fatto che senza i vaccini la lotta al Covid sarebbe andata peggio. “E lo ha detto dall’alto della sua responsabilità, evidentemente ritenendo di avere degli argomenti validi a sostegno della sua convinzione. Altri avranno tesi contrapposte. E’ il bello della democrazia”. 

 

Il telefono del ministro torna a vibrare. I gesti che arrivano dai collaboratori sono quelli di chi segnala che il tempo è finito. “Si può concludere la chiacchierata con una descrizione delle luci che s’accendono sulla sera romana”, e che in effetti osservate da qui, dai finestroni del Viminale che lasciano intravedere le cupole di Santa Maria Maggiore, fanno il loro effetto. “Troppo spesso c’è una narrazione che tende al catastrofismo, sulla nostra bella capitale”, sussurra Piantedosi. Ma qualche giorno fa perfino la presidente del Consiglio s’è dovuta arrendere all’insensatezza del traffico romano sulla Colombo. “Roma ha le sue complicazioni, è indubbio. Ma altri grandi paesi pagherebbero per poter vantare, ad esempio, la nostra efficienza nella gestione dell’ordine pubblico, anche nelle circostanze più problematiche. La pandemia, ad esempio. E’ vero, ci sono stati bruttissimi episodi, come quello dell’assalto alla sede della Cgil. Ma altrove i tafferugli hanno prodotto incidenti ben più gravi: morti, addirittura”. La sicurezza come metro di giudizio immancabile della realtà: l’istinto del prefetto che riemerge, sempre e comunque. “E’ la mia vita. E’ inevitabile. Avevo 26 anni quando sono entrato in servizio alla prefettura di Bologna, città a cui resto legatissimo. E poi Lodi, e poi Roma, appunto. Sempre da prefetto”. Un irpino del mondo, di prefettura in prefettura. Piantedosi spegne il sigaro, si alza. Sempre affabile. “Un italiano che ha l’orgoglio di essere italiano. Troppo banale, come congedo?”. Non originalissimo, bisogna riconoscerlo. Ma in politica nulla è più nuovo del giù usato, in quanto a slogan. Magari, nel futuro prossimo, chissà. 
 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.