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E adesso che fine farà l’agenda Draghi? Le incognite della nuova maggioranza

Stefano Cingolani

Un piano fatto di rafforzamento dell'identità europea che voleva privilegiare il merito, la competenza e la capacità invece dell'amicizia e del clientelismo. Ma con un nuovo governo a guida Fratelli d'Italia la sovranità dell'Ue si arresterà ai confini nazionali

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Il prossimo capo del governo troverà sulla scrivania di Palazzo Chigi un’agenda tricolore. Non si tratta di un plico, di un libro, né di un vero e proprio dossier. Potrebbe essere definita un’agenda virtuale dalla chiara impronta “repubblicana”. C’è chi la condanna, chi la demonizza, chi la nega e chi la rinnega, ma nessuno può farne a meno. “Che cos’è l’agenda Draghi?” La domanda l’ha posta lo stesso presidente del Consiglio il 4 agosto nella conferenza stampa con la quale ha augurato buone ferie anche a chi lo ha pugnalato. Ecco come l’ha definita: “Sostanzialmente è una serie di risposte, interventi e riforme”. 

 

“Si pensi alla pandemia di coronavirus, ai fondi che sono arrivati grazie al Pnrr e agli obiettivi raggiunti, alla crescita straordinaria di questi due anni”. Poi ha proseguito per essere più chiaro: “È difficile dire che esiste un’agenda. Ma se proprio ci devo pensare, allora è fatta di cosa? Prima di tutto è fatta di risposte pronte ai problemi che si presentano, e vorrei veramente riuscire ad arrivare a dare al governo successivo anche il conseguimento di tutti gli obiettivi per quest’anno. È questione di credibilità, sia sul fronte interno, ma anche internazionale, perché avere il credito internazionale alto come lo ha l’Italia oggi è importantissimo per la crescita interna, per il benessere, per la prosperità, per l’equità sociale, per poter fare tutte le riforme necessarie, senza un ostile vincolo esterno”. Dunque, in primo luogo saper governare, però il buon governo, condizione necessaria, non è sufficiente.

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Se oltre alle parole guardiamo alle opere, possiamo individuare non tanto un elenco di cose fatte o da fare, quanto alcuni punti fermi che delineano un percorso di più lunga lena. Eccoli: l’affidabilità e la modernizzazione del paese; il “debito buono”; l’accoglienza che si manifesta in una strategia di pragmatica integrazione; l’indipendenza delle istituzioni pubbliche che implica meritocrazia ed equilibrio dei poteri; l’europeismo attivo che punta a riformare la Ue; l’atlantismo o meglio una idea di politica basata sui principi della liberal-democrazia. Altro che banchiere, altro che tecnocrate. La via seguita da Mario Draghi in questi 18 mesi a palazzo Chigi è segnata da una precisa idea dell’Italia.

 

La modernizzazione coincide con il Pnrr, strumento fondamentale e grande occasione. Guai se diventa una cocente delusione. Giuseppe Conte vanta di aver negoziato i 191,5 miliardi con l’Unione europea, alla guida del governo giallorosso, ma poi s’è perduto in parole alle quali non sono seguiti fatti concreti. È stato Draghi a farlo uscire dalle vuote declamazioni, a mettere ordine, riscriverlo in parte e ad avviare la macchina, fissando una chiara scala di priorità in cima alla quale ci sono le riforme. Proprio questa è la prima novità del piano che non consiste in una gigantesca distribuzione di quattrini, ma in investimenti e in cantieri.

 

Tre riforme sono incagliate: la concorrenza relegata alla querelle sulle spiagge, il fisco, il processo penale e civile. Saranno scogli difficili da superare, ma non potranno essere aggirati. L’altra novità alla quale spesso non si fa attenzione è il fattore tempo: le opere debbono essere realizzate entro un periodo prestabilito, pena la perdita dei finanziamenti. Niente più appalti all’italiana, basta con le lungaggini e con il gioco al rialzo dei costi. I ritmi e i modi del fare vanno rinegoziati tenendo conto del nuovo scenario negativo (guerra, inflazione, crisi energetica)? Si può, ma ci sono pochi spazi perché, come ha ricordato Draghi, quasi tutto è stato già assegnato. E c’è il rischio che il tempo faccia scattare la sua tagliola. 

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Il voto anticipato ha generato ingorgo e affanno. Una delle prime mosse del prossimo governo sarà raggiungere gli ultimi 40 traguardi entro la fine dell’anno. L’altro intervento urgente riguarda la legge di Bilancio. Tutto è congelato, compresa la Nadef (Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza) che contiene il quadro congiunturale e le macro cifre. Ma bisognerà decidere subito sul caro bollette, sulla nuova campagna vaccinale, sulle pensioni (quota 102 scade a fine anno, poi si tornerebbe alla Fornero). Ci vuole un voto del Parlamento e un governo con i pieni poteri, però il nuovo esecutivo non potrà essere in carica prima di un mese (il record di 25 giorni spetta al quarto governo Berlusconi nel 2008). Su tutto incombe lo scostamento di bilancio, cioè se fare o no nuovo deficit e ciò ripropone il dilemma draghiano tra debito buono e debito cattivo. Non significa solo non dissipare le risorse esistenti, ma non violare le regole fondamentali di una sana gestione delle finanze pubbliche. Scostamenti continui, spendi e spandi, sono le forze oscure che insidiano il bilancio dello stato, ma sono anche le malattie endemiche dell’Italia, quelle che suscitano dubbi e preoccupazioni in chi investe i propri risparmi in debito tricolore. Qui si giocherà la credibilità del paese.  

 

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L’equità è un criterio sempre evocato da Draghi che, tra pandemia, inflazione, crisi energetica, ha erogato circa 160 miliardi di euro dando un impulso alla crescita, senza peggiorare il deficit e riducendo il debito pubblico rispetto al pil. Altro che reddito di cittadinanza, altro che scostamento. L’agenda resta più vaga sull’immigrazione. Si capisce la direzione di marcia, ma i contrasti interni tra i partiti che hanno sostenuto il governo sono troppo laceranti. Anche le elezioni svedesi hanno dimostrato come questa sia la issue dirimente in Europa (e non solo), quella che sposta voti verso una destra estrema o comunque poco appetibile anche per gli stomaci forti.

 

Tuttavia se l’integrazione degli stranieri viene collegata al lavoro, al fabbisogno non solo di manodopera, ma di cervelli, non solo di braccianti, ma di ingegneri, allora l’intera questione assume un connotato diverso. È questa l’ispirazione draghiana. Il grido di battaglia “prima gli italiani” è destinato a cadere nel vuoto se gli italiani non rispondono all’appello, a cominciare dai giovani. Sarà colpa della società ludica, di una cultura assistenzialista, di una generazione che vuole il reddito senza lavoro, riguarda la scuola, la famiglia, l’etica collettiva. Ma c’è un dato materiale di fondo: la crisi demografica che inaridisce il capitale umano. Draghi ha più volte sottolineato come questo sia diventato uno dei principali limiti allo sviluppo. 

 

Altro punto fermo dell’agenda riguarda un criterio che mette insieme più fattori: privilegiare il merito, la competenza, la capacità, sull’amicizia, il familismo, il clientelismo. Ciò favorisce l’efficienza del paese, rafforza la sua dimensione morale, aumenta l’autonomia dalla politica nella gestione delle aziende e dell’amministrazione pubblica. Le nomine sono state un plus del governo Draghi che non ha seguito né il tipico risiko di poltrone né il manuale Cencelli. Pur attento com’è alla realtà fattuale, senza proclami astratti, il presidente del Consiglio ha mostrato grande determinazione. Ha cominciato subito scegliendo il generale degli alpini Francesco Paolo Figliuolo al posto del discusso e inconsistente Domenico Arcuri come commissario straordinario per l’emergenza Covid.

 

Un salto di qualità che ha consentito di gestire molto bene la campagna vaccinale, nonostante l’opposizione esterna di Fratelli d’Italia e quella interna della Lega che hanno persino cavalcato i No vax. Dalla Cassa depositi e prestiti alla Rai, Draghi ha rifiutato lo spoils system soprattutto nella sua versione italiana. Si può discutere su questa o quella figura, naturalmente. Ma il metodo seguito s’ ispira anch’esso a un’idea di quel che l’Italia è, con le sue risorse umane, e di quello che può essere. Nella prossima primavera scadono posizioni importanti (Eni, Enel, Leonardo i principali gruppi a partecipazione statale). Come si muoverà il nuovo governo diventa una prova decisiva per capire cosa ci attende, una spia importante per giudicare se l’Italia andrà davvero verso l’Ungheria di Orbán. 

 

Il quarto lascito ereditario è l’europeismo inteso come ispirazione di fondo, come prosecuzione di un cammino cominciato nel 1948 e nel 1956 con il Trattato di Roma. Ma non solo. Draghi non si limita a difendere l’Unione europea come ha fatto quando guidava la Bce, la vuole rafforzare. In questi mesi ha proposto due grandi cambiamenti: la riforma della governance con la fine del voto all’unanimità e la riforma del patto di stabilità tenendo conto soprattutto del primato degli investimenti produttivi, senza i quali il vasto progetto della triplice transizione (digitale, energetica ed ecologica) diventa un sogno nel cassetto.

 

La destra ha mostrato alcune contraddizioni di fondo. I sovranisti vorrebbero tornare a una Europa delle nazioni, sempre più confederale e questo spinge di fatto verso decisioni che debbono essere unanimi per dare lo stesso peso a tutti. La sovranità europea, dunque, s’arresta ai confini nazionali. Nello stesso tempo sia Giorgia Meloni sia Matteo Salvini chiedono alla Ue interventi e politiche che presuppongono passi avanti d’impronta federalista come il ricorso al debito europeo per affrontare la crisi energetica, il tetto al prezzo del gas e il disallineamento con il prezzo dell’elettricità, un nuovo fondo per compensare le vittime dell’inflazione. La stessa riforma del patto di stabilità nella versione draghiana è d’ispirazione federalista perché limita lo spazio di manovra dei singoli governi a favore di una impostazione comune. I paesi che si oppongono sventolano la bandiera nazionale e i sovranisti alla fine vanno a braccetto con gli odiati “frugali”. 

 

L’Unione europea dell’agenda Draghi, insomma, è un punto fermo, il resto è un groviglio di incoerenze le stesse che si ripropongono quando si affronta la crisi del gas. Il governo uscente ha fatto una scelta di fondo: disincagliarsi dall’abbraccio mortale della Russia, sfidando i nostalgici di Gazprom che abbondano a destra (con importanti addentellati anche nel Pd e nella sinistra radicale). Finora la dipendenza è stata dimezzata: dal 40 al 20 per cento; si continuerà così fino a zero metano siberiano di qui a un anno, oppure comincerà una marcia indietro? I programmi elettorali sono ambigui, i proclami di piazza ancor di più.

 

E qui siamo arrivati all’altro pilastro: l’atlantismo. In pratica oggi significa sostegno aperto e leale all’Ucraina, in teoria è riaffermare una chiara adesione al modello liberal-democratico. Entriamo nel merito. L’Italia è pronta ad aderire a un progetto di difesa comune il che vuol dire aumentare le spese militari, condividere mezzi, uomini, strategie, comando, nell’ambito di una divisione del lavoro tra i compiti dell’Alleanza atlantica e dell’Unione europea? I Cinque stelle sono apertamente contrari. Una buona parte del Pd rinvia o si tira indietro. I leghisti ci stanno, ma a patto che la difesa non sia contro la Russia. I Fratelli d’Italia atlantisti (almeno a parole), ma non europeisti, ricadono nelle loro antinomie nazionaliste.

 

Eppure l’unico modo per difendere l’indipendenza del paese è restare partner attivo e importante nella duplice alleanza, atlantica ed europea. Altrimenti diventiamo il terreno di combattimento per eserciti stranieri, torna l’Italia del Cinquecento. Lo stesso vale per le scelte di civiltà. Anche chi come Silvio Berlusconi racconta l’ultima barzelletta su Putin che voleva piazzare al governo dell’Ucraina “gente perbene”, non arriva a mettere in discussione i “valori dell’Occidente”. E chi come Giorgia Meloni intende trasformare il sistema di governo in senso presidenzialista, non dichiara di voler cambiare i principi fondanti della Costituzione. Il gioco nazional-populista alla fine torna alla casella di partenza.

 

La prossima maggioranza parlamentare bloccherà la modernizzazione, farà debito cattivo, nominerà solo amici e clienti ai vertici delle aziende e dell’amministrazione pubblica, batterà i pugni a Bruxelles e affosserà le riforme, si inginocchierà di fronte a Gazprom, negherà le armi all’Ucraina e aprirà a Putin, taglierà le spese per la difesa e mostrerà il fianco scoperto della Nato, userà la marina contro i barconi e non contro gli incrociatori russi? Forse ci proverà, ci saranno spinte anche forti per deragliare, ma per guidare bene l’Italia ci vuole l’agenda Draghi: può essere letta con occhiali diversi, però non ha alternative.

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