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Così Giorgia Meloni ha fregato Matteo Salvini

Salvatore Merlo

Lui pensava di averla annientata già nel 2016, ma lei ha resistito, e poi è arrivato il Papeete che ha cambiato ogni cosa. Ecco tutta la storia d’una convivenza tramutata in condanna: il segretario leghista guarda la leader di Fratelli d'Italia e vede soltanto il fallimento della sua Opa sulla destra

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Si può persino immaginare che Matteo Salvini a Cernobbio la settimana scorsa l’abbia fatto apposta a parlare di Russia e delle sanzioni inique al caro vecchio Putin, a esporre così Giorgia Meloni e il centrodestra al sospetto e al sopracciglio sollevato d’una platea d’imprenditori e membri dell’establishment. A meno di un mese dalle elezioni. “E’ mosso da un’invidia puerile”, azzardano alcuni collaboratori della leader di Fratelli d’Italia. Ad ascoltare loro, e anche certi leghisti del Veneto e della Lombardia, viene fuori il ritratto di un Salvini spinto dal desiderio inconscio e affascinante, quasi da kamikaze, di chi gioca sfacciatamente a perdere pur di rovinare la festa a un nemico, a un avversario, a qualcuno che gli risulta insopportabile per ragioni che ormai forse travalicano i naturali confini della politica e si fanno quasi psicanalitiche. Non bisogna indulgere nelle spiegazioni psico-arzigogolate, è vero. Eppure sul serio raccontano che quando Salvini osserva Meloni con l’espressione di chi ha i peli dentro la bocca e non riesce a scacciarli, quando in privato ne parla mordendone quasi il nome, vede soltanto qualcuno che s’è infilato nelle sue scarpe, nel suo successo, e gli ha reso l’esistenza sballottata e difficile: la donna minuta che lui a lungo aveva tentato di far sparire dalla politica, anzi la ragazzina che lui considerava già una pratica archiviata,  e che invece adesso si è appropriata dei suoi voti, dei suoi applausi e del suo progetto politico. Per Salvini, Meloni sta infilata nella leadership della destra italiana come nel pastrano di un altro. Il suo. Com’è potuto accadere? 

  
Così, domenica 4 settembre, l’immagine di Giorgia Meloni che ascoltando Salvini sulla Russia si porta le mani ai capelli e poi le appoggia sugli occhi in un movimento insieme di stanchezza e di concentrazione, è inevitabilmente sembrata a chiunque non soltanto la rappresentazione teatrale d’un dissenso rivolto alle assai note inclinazioni filo putiniane del suo alleato, ma quasi il gesto rassegnato d’una consapevolezza ultima e ormai sedimentata, la certificazione di una convivenza tramutata in condanna. Lei quel giorno aveva bisogno di mandare un semplice messaggio di coesione a quanti nell’establishment economico e non solo la osservano chiedendosi se davvero potrà governare l’Italia. Ma dopo le parole di Salvini si è trovata invece costretta a dover sottolineare ancora una volta una distanza fin troppo avvertibile dalla Lega, dal partito con il quale ben presto potrebbe trovarsi a Palazzo Chigi. “La coalizione è compatta”. Questa bella favola è necessaria a tutti, fa parte delle mezze verità che tengono in piedi il centrodestra e anche il centrosinistra, come il buon vecchio motto “il delitto non paga”. Anche se basta osservare il consorzio umano per rendersi conto di come stiano davvero le cose. E allora lo ha fatto apposta Salvini a rovinarle la festa? Chissà. Se lo deve essere chiesto anche lei, e più di qualcuno intorno a lei pensa proprio che Salvini l’abbia fatto di proposito. Come quando cercò disperatamente di escluderla dalle nomine Rai, ma poi dovette cedere. O quando invece provò a tenersi la presidenza del Copasir, ma se la dovette vedere personalmente con Mario Draghi. O quando, ancora, non le rispondeva al telefono né ai messaggini su WhatsApp, ai tempi in cui si doveva eleggere il presidente della Repubblica. Vicenda semicomica, quella. Culminata con lui che alla fine le telefona, alla Camera, e le dice: “Sto salendo, ci vediamo nella tua stanza al sesto piano tra due minuti”. Ma lui al sesto piano non c’è mai arrivato. Sicché la Meloni dopo un paio d’ore, dopo aver visto che Salvini s’era accordato per far rieleggere Sergio Mattarella, inviava questo sms dal tono incredulo: “In effetti avevi detto che salivi, ma non avevo capito che salivi al Quirinale”. Ironica, anche se qua e là tesa come fil di ferro, intrisa di nicotina e tensione nervosa. Lui un po’ meno ironico, pare. 

  
Piccoli sgarbi, dispetti, frustrazioni, manifestazioni di impotenza e masochismo di fronte a un rovesciamento ormai insovvertibile degli equilibri e dei rapporti di forza. Fino all’autolesionismo di Cernobbio, probabilmente. Un divertimento nel quale Salvini si bea, come il lebbroso che si ficca le unghie nelle piaghe per sentirle meglio. Chi può dirlo? La ragione getta una luce insufficiente sul mondo. E nella penombra dei suoi confini si insedia tutto ciò che è paradossale, eppure plausibile. Salvini è capace di fare del male a sé stesso pur di fare del male anche a Meloni? Alla realtà si accede solo in parte con la logica.

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I sondaggi della Lega sono tutti in calo, costante. Senza appiglio apparente. E più Salvini si agita, più indossa la maschera del pacifista amico dei russi invasori, più precipita. Allora ecco le mani di Giorgia Meloni tra i capelli, e poi sugli occhi. Questa è l’immagine, questo il gesto: un gesto lampante che contiene molti gesti. In politica nulla è personale, almeno così si tende a credere, perché la politica è un teatro e nessuno può recitare in un teatro senza fingere ciò che non sente. L’abitudine alla vita pubblica fa acquisire all’uomo politico un perfetto controllo delle espressioni, dei muscoli del viso. Il leader si domina senza sforzo. Ma forse in questo caso Meloni ha mescolato la realtà con la sua rappresentazione, provando davvero ciò che sembrava recitare: l’incombere di una catastrofe piccola o grande, o piuttosto il presentimento dell’infortunio. Non solo il debito pubblico arrivato al 150 per cento in rapporto al pil, non solo l’inflazione da anni Ottanta, non solo i 433 decreti attuativi del Pnrr da approvare subito appena arrivati al governo, non solo la legge Finanziaria da fare di corsa a novembre senza avere avuto tempo di studiare il bilancio dello stato, non solo la crisi energetica e la guerra in Ucraina... ma pure Matteo Salvini, a fianco a lei. Animato da un bisogno incomprimibile di rivincita che ogni giorno gli porta una delusione e una pena crescenti, scandalizzato ma non rassegnato, anzi, pronto a una guerra impossibile contro l’ordine nuovo. Ma stando al governo. Forse con un ministero tra le mani. Il Viminale? “Meglio lì che in qualunque altro posto: fa meno danni”. Già c’è chi se lo immagina impegnato nel controcanto quotidiano, Salvini. Come faceva con i grillini nel mitologico governo del cambiamento. Ogni giorno un botto, un petardo, un salto nei cerchi di fuoco. Coinvolto nell’impresa disperata di recuperare i fasti d’un tempo elettoralmente scaduto. Inconsolabile per il giorno fatale in cui il mondo si spense di colpo in quel di Cervia, al Papeete del suo scontento, come se qualcuno avesse girato un interruttore: clic. Addio Lega nazionale, addio “prima gli italiani”, si ritorna al vecchio nord, alla Padania, al posto dove sono rimasti i voti evaporati al centro e al sud. Come dice Vittorio Feltri: “Salvini è riuscito a portare la Lega dal 4 al 34 per cento. E quando uno produce un miracolo così, pensa di essere Padre Pio. Ovviamente non è vero. Però lui non lo sa. Quindi pensa: come sono arrivato al 34 per cento una volta posso farlo di nuovo. Di conseguenza le prova tutte. E fa una minchiata dietro l’altra”. L’illuso che non riesce a divorare il mondo finisce per divorare se stesso. Un composto instabile che sfuggirebbe all’alambicco del più cauto dei tecnici di laboratorio. Come governarlo uno così?

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Ecco allora le mani tra i capelli e sugli occhi. La desolante certezza di un problema che sta tutto in un rapporto personale guasto, forse tragicamente irrecuperabile. Se fosse politica, sarebbe persino facile ricorrere all’arte morbida ed eterna della trattativa e del baratto, saggezza sperimentata, antica ginnastica andreottiana: “Matteo, che te serve?”. Ma forse non è più solo politica, purtroppo. Stavolta è come nel Padrino, come nel film di Francis Ford Coppola: sono questioni personali, non è mica soltanto business. Un intreccio di fatti che qui adesso si può tentare di ricostruire solo basandosi su testimonianze indirette, mezzi racconti dei protagonisti e dei comprimari, forzando i limiti del possibile fino a raggiungere il probabile e cercando di ritagliare la forma della verità ricorrendo al verosimile. Ogni evento, anche quelle mani tra i capelli e sugli occhi, ha infatti origine in un evento o in un fatto precedente. E quest’ultimo, a sua volta, ha origine in un altro fatto, e così via.

  
Non tutti sanno che Meloni in privato lo chiama “il situazionista” e che all’incirca considera Salvini un pasticcione abbastanza inaffidabile. Anche se non personalizza troppo, la leader di Fratelli d’Italia. Non lo detesta infatti, come fanno tanti altri suoi compagni di partito. Né tantomeno vuole distruggere la Lega e occuparne lo spazio politico. Non perché Giorgia Meloni sia buona d’animo, ma semplicemente perché sarebbe inutile e illogico fare guerra alla Lega. La parola d’ordine non è incassare tutto, ma dominare la situazione. Secondo un sondaggio pubblicato il 7 settembre da Demos, sul Gazzettino, Fratelli d’Italia avrebbe già doppiato la Lega in Veneto: 30,5 per cento contro 14,4 per cento. Eppure la strategia non è quella dell’annientamento o dell’annessione. E questo malgrado Salvini invece quand’era al massimo splendore, conquistata la vetta del 32 per cento alle elezioni europee, abbia tentato prima di assorbire (dal 2015) e poi di distruggere (dal 2018) sia Meloni sia Fratelli d’Italia, procedendo con la sicurezza di un elefante che svellendo alberi e calpestando tane avanza in linea retta non avvertendo neppure i graffi delle spine e i guaiti dei sopraffatti, impegnandosi a tappeto per svuotare consigli regionali e comunali, da Roma a Latina, saccheggiando simboli e santuari della destra ex missina come il sindacato Ugl, aiutato da seconde e terze linee della ex Alleanza nazionale come Claudio Durigon, gente fattasi da un giorno all’altro leghista di prima fila in tutto il centro e il sud. Il 30 gennaio 2018 il gruppo consiliare di Fratelli d’Italia in Campidoglio, a Roma, casa della Meloni, passava con la Lega e rendeva in una scintilla l’interezza di un tempo concluso. Un fatto enorme non solo dal punto di vista simbolico. “Salvini oggi è la destra italiana”, diceva al Foglio Maurizio Politi, trentenne consigliere comunale di Fratelli d’Italia, una vita nelle giovanili di Alleanza nazionale.

 

“Certo mi fa impressione la Lega a Roma, ma oggi la Lega è casa nostra: ha i nostri stessi valori, di noi che venivamo dalla tradizione del Msi. E’ qui che dobbiamo stare adesso”. Qualche mese dopo a Montecitorio, il 12 luglio, era scoppiata una mezza rissa tra deputati della Lega e di Fratelli d’Italia. Il leghista Eugenio Zoffili, che è amico di Salvini da vent’anni e gli ha pure fatto da segretario, si avvicina al meloniano Andea Delmastro. Lo provoca. Lo irride: “Voi di Fratelli d’Italia siete dei parassiti. Senza di noi non sareste nemmeno qua in Parlamento”. L’altro gli tira uno spintone. Quasi ogni mattina Giovanni Donzelli e Francesco Lollobrigida, due abili uomini-macchina in FdI, facevano il conto dei tradimenti e degli abbandoni. Uno stillicidio, un bollettino di guerra, roba da fare stringere il più arido dei cuori. Adesso invece in tanti cercano di ritornare in Fratelli d’Italia. Ma a quei tempi Salvini perseguiva un progetto di egemonia assoluta sulla destra tradizionale, con risvolti talvolta grotteschi, buffi, come quando pensava di recitare il ruolo di leader citando Mussolini a ogni tweet (“chi si ferma è perduto” o “si tiene duro e si dura”), ma comunque dando origine a una campagna apparentemente inarrestabile. Così facile da rasentare il sadismo di fronte a un avversario ridotto alla sussistenza del 4 per cento. La tracotanza del barbaro (celtico) Brenno che vincitore su Roma gettò la spada sulla bilancia chiedendo più oro e pronunciando quelle due famose parole che sono il contrario del senso della misura: “Vae victis”.

    
Un’efficientissima manovra di conquista che solo l’autoaffondamento del Papeete e la compromissione con il Movimento 5 stelle hanno poi interrotto, invertendola, mentre Meloni richiamava a sé tutte le forze rimanenti in un tentativo estremo di resistenza. Arrivò Raffaele Fitto, dalla Puglia. Vennero recuperati i rapporti con Andrea Augello, a Roma. E allora bisogna proprio immaginarselo cosa pensa, e cosa dice Salvini di Giorgia Meloni, oggi, vedendosela danzare di fronte al muso, più viva che mai, come un moscone che lui pensava di avere schiacciato sin da quando ne aveva voluto certificare il ruolo subalterno ai tempi in cui l’aveva costretta alla candidatura perdente a sindaco di Roma, quando le aveva promesso che lui avrebbe fatto il sindaco di Milano. “Il nostro è un proconsolato”. Come no. Era il 2016. Dopo averla convinta a candidarsi con il solo obiettivo di impedire la vittoria di Alfio Marchini, candidato da Berlusconi, Salvini s’impegnò ad alimentare una campagna elettorale in cui il protagonista era solo ed esclusivamente lui. Infine, addirittura, tirò fuori una vecchia battaglia settentional-leghista che per Meloni fu il colpo di grazia: far pagare ai romani il pedaggio sul Raccordo anulare. Figurarsi, ovviamente Fratelli d’Italia perse le elezioni. Fabio Rampelli, vecchio missino di esperienza, prese da qual momento a chiamarlo “er bugia”. Poi ci fu anche l’umiliazione del 2018, mentre si doveva comporre il primo governo Conte con Luigi Di Maio. Nelle ore decisive Meloni aveva chiuso un patto d’onore con Salvini. L’ennesimo. “Siamo d’accordo”, diceva lei. “Entriamo al governo. Parlane con Di Maio. Ma devi farmi una promessa solenne: o stiamo dentro insieme o stiamo fuori insieme”. E Salvini: “Te lo prometto“.

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Com’è andata a finire lo sanno tutti. Niente governo per Fratelli d’Italia. Ed è stata la fortuna di Meloni. Il leghista la voleva cancellare dalla faccia della terra, e invece l’ha salvata. Condannandosi. Anche per questo forse le parole, a Salvini, adesso gli escono fuori come sputi, con una foga insensata, mentre la osserva rediviva tra gli applausi degli imprenditori di Cernobbio, mentre la vede riscuotere non solo quella simpatia d’ufficio che i giornali di centrodestra tributano sempre a ogni loro beniamino (anche a lui) ma pure la curiosità di alcuni giornalisti e intellettuali che di destra non sono, quelli che a Salvini la curiosità l’hanno sempre negata, sul Corriere della Sera e persino talvolta su Repubblica. Per non dire dei riguardi di Emma Bonino che dice “non la penso come Meloni ma la rispetto” o della considerazione pubblica manifestata di recente da Hillary Clinton in un’intervista proprio sul Corriere. A lui non lo ha mai rispettato nessuno di questi, nemmeno quando era strapotente. O era Truce o erano quasi solo pernacchie. Le “ombre nere” di Carlo Verdelli e le imitazioni di Maurizio Crozza. Persino Trump dice ancora oggi di non conoscerlo (capitò pure nel 2016: “Salvini who?”) mentre invece fa domande sul suo amico Giuseppe Conte detto Giuseppi. E io? pensa Salvini. Tutto questo un tempo era mio. Me lo riprendo. La memoria vaneggiante non appena si ritrova sola con se stessa rivanga senza sosta il passato: come un meccanismo inceppato. La mente continua a tornare sull’occasione mancata, come la lingua su un dente malato. Ecco allora cosa non vuole vedere Meloni, a Cernobbio, ecco da cosa si protegge quando si mette le mani tra i capelli e sugli occhi. Ecco l’anatomia di un istante: lo straziante e minaccioso precipitare verso il nulla di un politico e alleato che non sa darsi pace, e che le imputa tutte le sue disgrazie perché lei rappresenta e incarna con la sua sola esistenza, con le sue parole e il suo respiro, il fallimento della Lega nazionale e del progetto che aveva animato la fierissima grandeur di un vispo ragazzo del Giambellino fattosi leader nazionale. E’ proprio per questo che Salvini ora diventa “un pericolo per gli altri e per sé stesso”, come pensa Meloni. 

  
Tuttavia per lei quest’uomo corroso resta malgrado tutto un fatto della politica da gestire e trattare pur nel marasma verso un approdo di stabilità e di ordine interno. Dissimulando, se possibile. Con distacco, se ci si riesce.  Getto vegetale di antica pianta missina, vecchia scuola, Meloni ha interesse a una Lega ridimensionata, ma non annientata: far vendetta degli sgarbi subiti non è politica, nella migliore delle ipotesi è un romanzo di Dumas. Nelle peggiori è un pollaio. Certo un pomeriggio di gennaio 2022, a casa di Belusconi, nella villa sull’Appia antica, Meloni lo ha quasi preso a male parole, Salvini, mentre si sentiva dire con un tono d’ipocrisia per lei insopportabile “beh, Giorgia, sei stata pur sempre tu a rompere l’unità della coalizione non entrando nel governo Draghi”. In quell’istante lei prese a fissarlo con il ghiaccio dei suoi occhi blu sgranati, come per volerlo schiacciare sotto il peso insopportabile di tutto quell’azzurro. Ma alla fine quello che conta, per lei, è che  i dati della sgangherata alleanza con la Lega e con Forza Italia quadrino tra loro, malgrado Salvini: lo schema berlusconiano del 1994 va tenuto in piedi a ogni costo, perché ancora funziona. E dunque Meloni pianifica e favorisce il ritorno della Lega alla sua dimensione classica, al nativismo settentrionale di Umberto Bossi e ai suoi insediamenti del nord, esattamente quello che predica ormai anche Giancarlo Giorgetti. Perché su questo agitato centrodestra, che tuttavia lei non ha ancora conquistato in realtà, Meloni vorrebbe esercitare una leadership persino strategica. Per questo discute spesso, preoccupata, non soltanto della Lega e di Salvini, ma anche del destino di Forza Italia, insomma del dopo Berlusconi: qualcuno anche dopo il Cavaliere dovrà pur continuare a rappresentare l’area di centro all’interno di questa alleanza trentennale di cui lei vagheggia altri trent’anni di futuro. Sono due o tre milioni di voti, quelli di Forza Italia, non tanti forse, ma servono a vincere proprio come quelli della Lega al nord, e di sicuro non li si può lasciare a Carlo Calenda. 

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Certo forse Meloni preferirebbe che il segretario della Lega fosse Massimiliano Fedriga, il quarantaduenne presidente del Friuli, un giovane politico quadrato: quando quello parla, lei lo capisce. Quando parla Salvini, no. Con Fedriga si ritrovano nel linguaggio, nella grammatica, in quelle cose che un tempo erano ovvie e poi però non lo sono state più: la politica come consequenzialità logica. Si parlano. Si consigliano. Una volta Meloni per spiegare la differenza tra lei e Salvini ha preso un foglio di carta, tratteggiandovi sopra a penna una linea retta: “Per andare dal punto A al punto C, io passo da B”. E Salvini? “Salvini è diverso”. A gennaio di quest’anno, quando il capo della Lega dava vita alla più sbagliata, inconsulta e a tratti contraddittoria girandola di possibili ed eventuali presidenti della Repubblica che l’Italia abbia mai visto in settantacinque anni di storia democratica, mentre insomma lanciava nomi per il Quirinale come fossero coriandoli, capitava che Enrico Letta telefonasse a Giorgia Meloni. Il segretario del Pd si abbandonava a pensose ricostruzioni sulle mosse di Salvini, sulle sue reali e imperscrutabili intenzioni, attribuendogli strategie complesse e persino machiavelliche. Altrimenti come spiegare le citofonate al campanello di Sabino Cassese, poi a quello di Giampiero Massolo, o l’idea di un giovedì mattina, quando Salvini pensò di  fotografarsi su Instagram con un mazzo di rose in mano: “Una donna al Quirinale”. La famosa candidatura di Maria Elisabetta Alberti Casellati. Lanciata alle 11, impallinata alle 17, sostituita alle 20. Troppo assurdo. “Deve avere un piano segreto”, diceva Letta. E Meloni: “Mi sa che non hai capito, quello un piano non ce l’ha mai”. Il situazionista.

  
Non tocca a Meloni farlo né proporlo, ma se nella Lega si liberassero del “situazionista” lei potrebbe anche dare una mano, per il bene di tutti s’intende. Nonché per il suo. Certo è preparata anche a tenerselo, Salvini. Con l’ottimismo della ragione. Il suo braccio destro, Giovanbattista Fazzolari, per esempio è sicuro che ministeri e sottosegretariati saranno più che sufficienti a ricondurre la Lega di Salvini a una dimensione gestibile. Il potere, anche in quantità omeopatiche, è la più efficace delle medicine. Ma “se posso fare qualcosa ditemelo”, aveva risposto Meloni scherzando (neanche troppo) mesi fa al telefono con Luca Zaia. E quello, lo strapotente presidente del Veneto: “Tienilo sulla corda”. E lei in effetti Salvini ce l’ha tenuto, sulla corda. Per mesi. Contribuendo in realtà a inacidirlo ancora di più. Ad agosto del 2021 sembrava intenzionata a inchiodare Salvini alla sua proverbiale incostanza, per così dire. Non gliene faceva passare una liscia. Lui cominciava a inveire contro il ministro della Salute Roberto Speranza, “deve cambiare marcia”. Allora lei annunciava una mozione di sfiducia contro Speranza. E lui che faceva, la votava? Ma no, si sarebbe messo a rischio il governo Draghi. Dunque si dimenticava di Speranza, e si metteva a urlare contro il green pass: “E’ una cagata pazzesca”.

   

Così arrivava lei, di nuovo, paziente come una torturatrice, e presentava decine di emendamenti in Parlamento contro il green pass. E lui che faceva? Cortocircuito. Con movimento meccanico della testa si guardava intorno, vedeva passare Luciana Lamorgese, si disinteressava del green pass e cominciava a twittare contro il ministro dell’Interno “incapace”. Sicché lei, sempre più crudele, presentava una mozione di sfiducia anche contro la Lamorgese. E allora Salvini veniva travolto dalla disperazione, covando fantasie velenose e sempre più vendicative sotto la fronte liscia. “Una volta al governo le farà vedere i sorci verdi”. Che strana vitalità, che energie insospettate e ben protette mette a nudo il più stupefacente dei sentimenti, l’odio, quando non è, come l’amore, un centone letterario. E allora eccolo il gesto, eccole quelle mani di Giorgia Meloni prima tra i capelli e poi sugli occhi mentre ascolta Matteo Salvini che parla di Vladimir Putin a Cernobbio. Ecco l’immagine densa di significati, il segno d’una consapevolezza ultima, la certificazione d’una convivenza impossibile tramutata in condanna, il presentimento di un infortunio. Sono proprio i grandi sconfitti coloro che turbano di più il sonno dei vincitori.
 

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