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L'analisi

Il liberalismo senza libertà individuale di Calenda lascia l’amaro in bocca

Sergio Belardinelli

Nel suo ultimo libro il leader di Azione disegna perfettamente la crisi dell'occidente. Ma qualche volta sovraccarica la politica di compiti etici che non le competono, non tutti almeno

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Di solito non leggo i libri dei politici, ma con l’ultimo di Carlo Calenda, “La libertà che non libera. Riscoprire il valore del limite” (La nave di Teseo) ho fatto un’eccezione, spinto dalla simpatia che gli ha manifestato Giuliano Ferrara sul Foglio di venerdì scorso. L’idea di un Calenda nei panni dell’“ateo devoto”, che nel mostrare i limiti di una libertà scardinata da qualsiasi legame fa venire in mente il famoso discorso dell’allora cardinale Ratzinger sull’“io e le sue voglie”, non poteva lasciarmi indifferente. Così mi sono procurato il libro e l’ho letto.

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Di solito non leggo i libri dei politici, ma con l’ultimo di Carlo Calenda, “La libertà che non libera. Riscoprire il valore del limite” (La nave di Teseo) ho fatto un’eccezione, spinto dalla simpatia che gli ha manifestato Giuliano Ferrara sul Foglio di venerdì scorso. L’idea di un Calenda nei panni dell’“ateo devoto”, che nel mostrare i limiti di una libertà scardinata da qualsiasi legame fa venire in mente il famoso discorso dell’allora cardinale Ratzinger sull’“io e le sue voglie”, non poteva lasciarmi indifferente. Così mi sono procurato il libro e l’ho letto.

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I sei capitoli della prima parte intitolata “Sradicamento” ci offrono una disamina letteralmente spietata della crisi dell’occidente. La cancellazione della storia e dell’identità, la cosiddetta cancel culture, la confusione tra i diritti e i desideri, l’occultamento del senso dei nostri doveri, la politica ridotta “a mutevole stile di consumo”, lo spaesamento crescente delle giovani generazioni, la solitudine diffusa, la crisi delle istituzioni educative, l’imperversare dei social e “la fine della realtà” sono grosso modo le patologie sulle quali viene richiamata l’attenzione del lettore, nella convinzione che proprio per il fatto di averle trascurate, soprattutto a sinistra, esse sono finite per diventare il propellente ideale delle pulsioni populiste e sovraniste oggi così diffuse a vantaggio della destra. Di qui l’urgenza culturale e politica di “ridare alla nostra società un collante etico comune, un ethos, diverso dalla sola ricerca di una illimitata libertà individuale”. La libertà individuale, infatti, non può prescindere dagli obblighi, i doveri, le responsabilità che abbiamo nei confronti degli altri e di ciò che è “comune”, anzi, è solo a queste condizioni che essa può diventare veramente una “libertà che libera”. Ma è precisamente di queste condizioni che la cultura occidentale, specialmente una parte di quella di sinistra, si è disinteressata negli ultimi quarant’anni. E questo è stato, secondo Calenda, un “errore fatale”. Volevamo che il nostro io fosse autonomo e libero e non ci raccapezziamo più, non sappiamo più chi siamo, né dove andare. Per farla breve, “dopo anni di slancio e forzatura dei limiti, abbiamo bisogno di rimettere al centro dell’azione umana il tema dei valori e dunque del limite”. Parole sante, almeno per me. A maggior ragione se penso che il discorso di Calenda non ha pressoché nulla a che vedere con il desiderio di uscire dal liberalismo, di proclamarne il superamento o di mettersi alla ricerca di un liberalismo che non c’è per far fronte efficacemente alle patologie che assillano il momento storico che stiamo attraversando. Ma allora perché nel suo insieme questo libro non mi ha convinto fino in fondo?


Per l’uomo politico Calenda ho molta stima; lo considero uno dei pochi leader credibili nel panorama politico del nostro paese; condivido in gran parte lo spirito che muove le sue critiche alla cultura dominante; molti degli autori di cui si serve, penso a Hannah Arendt, John Stuart Mill, Francis Fukuyama, Samuel Huntington, sono anche miei autori; il primo capitolo della seconda parte, il capitolo settimo dedicato a “Le virtù dei romani: un’esperienza personale di radicamento”, mi ha letteralmente emozionato come un’impareggiabile esortazione a ritrovare noi stessi, a radicarci “nella storia e nella bellezza” della nostra Italia; coraggiose le sue prese di posizione contro “l’idea che si debba insegnare che non esistono maschi e femmine” o contro la “gestazione per altri”; belle le pagine sull’“obbligo di dire la verità” o quelle sulla centralità dell’educazione. Ma allora, lo ripeto, che cos’è che non mi ha convinto di questo libro?  


Calenda non me ne abbia, ma credo che molto dell’amaro in bocca che mi ritrovo (poco in verità) sia dovuto alla sua insistenza eccessiva su alcuni temi, diciamo così, comunitari, lasciando sovente sullo sfondo il vero bene da tutelare in ogni comunità, ossia la dignità e la libertà delle persone. I legami sociali, gli obblighi, la patria, il bisogno di “eroi capaci di proteggere la comunità” sono indubbiamente condizioni importanti della libertà individuale, ma è pur vero che a sua volta la libertà individuale è ormai l’unico metodo attraverso il quale possiamo sperare di ricostruire vincoli civili capaci di rilanciare un senso di appartenenza compatibile con una comunità liberale. Calenda vorrebbe “riaccendere negli italiani una scintilla di patriottismo repubblicano” facendo tornare doveri e obblighi “al centro dell’azione politica”. Ha mille ragioni per dirlo. Il suo “partito della Repubblica” pragmatico, riformista, atlantista, europeista piace anche a me. Ma qualche volta ho la sensazione che nel suo libro la politica venga come sovraccaricata di compiti etici che non le competono, non tutti almeno. Quando si è convinti “che sia lo stato, in tutte le sue articolazioni e non solo attraverso la scuola, a dover assumere il compito di riportare l’istruzione e l’educazione civica, morale e istituzionale al centro della vita sociale”, c’è il rischio di accreditare concezioni “etiche” dello stato difficilmente compatibili con la cultura liberale. Nemmeno la scuola dovrebbe servire secondo me agli scopi che indica Calenda; potrebbe farlo semmai indirettamente. Ma qui il discorso ci porterebbe troppo lontano.  

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Ben venga dunque un liberalismo delle convinzioni e delle istituzioni forti, che proprio per questo non teme le libertà dei cittadini, anzi le promuove; ben venga il liberalismo dei doveri testimoniati con l’esempio, non proclamati a parole o fatti oggetto di insegnamento scolastico; ben venga il liberalismo per il quale la fedeltà alla realtà, e conseguentemente ai “limiti”, è un obbligo morale; ben venga infine il liberalismo che crede nella verità, nella libertà e nella dignità di tutti e per questo nelle questioni controverse si affida sempre al voto della maggioranza (sempre meglio un errore condiviso almeno dalla maggioranza che una qualsiasi verità imposta con la forza). Non so se e quanto questa idea di liberalismo sia condivisa da Calenda. Mi piace tuttavia pensare che siamo d’accordo sull’essenziale. 

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