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Le felpe e un cuscinotto Loro Piana tra i se e i ma della guerra

Giuliano Ferrara

La vanità dei leader e la psicologia della folla. Le ideuzze e i distinguo si apparentano perfettamente alla  compiacenza dei combat boots di Prada che scalpitano sotto il profilo del boia
 

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Guerra politica e vanità hanno uno strano rapporto tra loro, ma non del tutto incomprensibile. Noi siamo il paese italiano del “bibitaro” agli Esteri, della maggioranza relativa dei voti al comico da cabaret, dell’editore televisivo e performer fattosi iperstatista ventennale, non possiamo stupirci dell’attore medio hollywoodiano divenuto presidente della fine della Guerra fredda con la vittoria sul comunismo sovietico (“Mr Gorbaciov, tear down this wall”), dell’impostore arancione che ha sequestrato per cinque anni la dignità dell’America travestito da everyman, dell’attor comico ucraino che nel palinsesto efferato de La7 ora si duplica da eroe per caso della resistenza vera a candidato presidente per finta nella sua fortunata serie tv.

Però stupiscono la felpa delle forze speciali di Macron in barba non rasata tra gli stucchi dell’Eliseo, i Prada combat boots indossati da Ramzan Kadyrov nella foto bellica d’assalto, corpo e barbone da boia ceceno e vassallo che insiste pesante sul design a carro armato della casa milanese. 

E poi il bagno di folla allo stadio del flash-mob più o meno obbligatorio di un Putin avvolto nel cuscinotto stilizzato da 12.000 euro di Loro Piana (stupore nello stupore: esistono dunque cuscinotti da 12.000 euro? Le casacche militari di Stalin e di Mao o i completi neri di Andropov e Breznev sono outmoded?). Giustamente Jo Ellison nel Financial Times nota la differenza tra le sweatshirt e le giacchette verde oliva di Zelensky, un tributo ai fatti, e la posa scelta dalla fotografa personale di Macron, Soazig de La Moissonnière, che allude all’implicazione nella tragedia bellica ma nel suo risultato imbarazzante accenna a un misto comico tra Jason Bourne e l’Ispettor Clouseau della Pantera Rosa. Il look dei capi (leadership e abbigliamento) è l’ultima cosa in ordine d’importanza, specie durante una guerra europea d’impianto genocidario, ma è la prima che si vede, dalla chirurgia estetica alla vanità pervestita.

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Nella pace e nella guerra, nello scorrere dei fatti anche i più brutti, ci portiamo dietro le nostre bellurie, il peso insostenibile delle personalità. Il tempo della comunicazione, arma apparentemente invincibile, ma non sufficiente visto che si ricorre ai carri armati e ai missili, autorizza tutta una bolsa grammatica di inutili pensierini, i se, i ma, i però, genera in chi non sa semplicemente parteggiare, scegliendo il giusto o l’ingiusto, un ondeggiamento che apparenta la vanità dei leader alla psicologia della folla sempre in cerca di idee e interpretazioni a sostituire la gravità e il senso proprio di quello che accade sotto gli occhi.

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Tanti anni fa Gian Carlo Pajetta, un capo comunista passato dalla galera alla Repubblica con un carico di vanitoso e sprezzante senso della battuta e dell’umorismo, raccontò a casa nostra un episodio agghiacciante e rivelatore di pedagogia old fashion. Suo figlio era andato nell’Afghanistan in guerra per un viaggio esotico. Venutolo a sapere, il padre gli mandò un telegramma: “Non si va in un paese in guerra senza stare dalla parte dei fucilati o dei fucilatori”. Siamo pieni di pulsioni, anche molto imbarazzanti, e le riveliamo in ogni situazione, chi è senza peccato morale, politico e intellettuale scagli la prima pietra. Ma le ideuzze e i distinguo si apparentano perfettamente alla vanitosa compiacenza dei combat boots di Prada che scalpitano sotto il profilo del boia.

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