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Cosa pensano i nostri servizi segreti dell'Afghanistan e del rischio attentati

Valerio Valentini

La debolezza dei talebani, più che la loro forza, è ciò che preoccupa la nostra intelligence. L'italia esposta anche in virtù del fatto che guiderà la missione Nato in Iraq. Gli accordi tra Usa e i mullah, il rischio di una guerriglia interna ai jihadisti per la supremazia a Kabul. Lo scenario delineato da Gabrielli e Pontecorvo al Copasir

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Più che l’inaffidabilità di chi mente, l’incapacità di chi non riesce a mantenere le garanzie che ha offerto. E’ questo che i nostri servizi segreti temono, quando si parla del nuovo regime talebano e della situazione afghana. Con tutto ciò che, in termini di minaccia terroristica, ne può conseguire. Il quadro, nel complesso, è quello che si ricava dalle ricostruzioni offerte da Franco Gabrielli al Copasir, durante le due ore abbondanti di audizione di mercoledì scorso, e da alcuni dossier che lo stesso sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ha condiviso coi vertici dell’Aise e con la Farnesina.

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Più che l’inaffidabilità di chi mente, l’incapacità di chi non riesce a mantenere le garanzie che ha offerto. E’ questo che i nostri servizi segreti temono, quando si parla del nuovo regime talebano e della situazione afghana. Con tutto ciò che, in termini di minaccia terroristica, ne può conseguire. Il quadro, nel complesso, è quello che si ricava dalle ricostruzioni offerte da Franco Gabrielli al Copasir, durante le due ore abbondanti di audizione di mercoledì scorso, e da alcuni dossier che lo stesso sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ha condiviso coi vertici dell’Aise e con la Farnesina.

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Lo scenario che ne deriva è evidentemente la proiezione di una fotografia in movimento. Ma serve comunque a delineare le principali fonti di rischio per l’Italia e l’Europa in quanto a esposizione al terrorismo. E questo – a quanto è emerso anche dall’audizione al Copasir di giovedì di Stefano Pontecorvo, alto rappresentante della Nato in Afghanistan che ha sovrinteso fino all’ultimo alle operazioni di evacuazione dall’aeroporto della capitale – non a causa della volontà esplicita dei talebani di venire meno alle promesse fatte agli Americani. I quali, nella stipula degli accordi di Doha, si sono premurati proprio di ottenere questo impegno, dagli eredi del mullah Omar: e cioè che anzitutto cessassero gli attentati nei confronti dei contingenti Nato nei mesi residui di permanenza occidentale in Afghanistan,  e che in secondo luogo si scongiurasse qualsiasi sostegno da parte del nascituro governo a operazioni terroristiche dirette verso gli Usa e i suoi alleati. 

 

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E certo, pur tra non poche complicazioni, i talebani hanno mantenuto i patti sul primo punto. Nell’ultimo anno e mezzo gli agguati ai militari e ai cooperanti occidentali si sono quasi del tutto interrotti, nonostante proseguissero atti di guerriglia tra i vari clan locali. Ma è sulla seconda parte dell’accordo che incombono le incognite maggiori. Non perché, almeno nel breve periodo, i talebani abbiano interessi  nella pianificazione di attentati contro l’occidente, presi come saranno dalla necessità di garantire, banalmente, la sopravvivenza economica del loro regime (citofonare Pechino). Il problema, semmai, starà nella competizione interna. Gabrielli ha infatti spiegato che i servizi di intelligence europei si attendono, già nei prossimi mesi, un grosso attivismo di organizzazioni  ispirate al jihad per affermare la propria supremazia a Kabul. La dialettica ruoterà fondamentalmente intorno alla sfida che l’Iskp lancerà nei confronti dei talebani, accusandoli di eccessiva moderazione e vagheggiando la ripresa della guerra per il califfato mondiale. Ma, all’ombra di questo scontro, potrebbe fiorire un conflitto pulviscolare, coi vari clan pronti a sostenere la milizia a loro più vicina, e con l’interessamento neanche troppo discreto dei paesi più importanti dell’area: dal Pakistan all’Arabia Saudita, passando per Turchia e Russia. Ed è in quest’ottica che la presunta buona volontà dei talebani potrebbe non bastare. Un po’ perché potrebbe non reggere l’urto della sfida dell’Iskp, e un po’ perché questa potrebbe favorire l’ascesa, all’interno degli stessi talebani, di quelle fazioni che predicano una politica più aggressiva.  Il tutto, in un impasto di nazionalismo e islamismo, con un assetto istituzionale che subordina strettamente l’azione di governo all’osservanza della sharia, che potrebbe diventare non solo un elemento di richiamo per gli aspiranti jihadisti di mezzo mondo, ma anche un modello da replicare in paesi lontani dal golfo persico, e in particolare – per quanto riguarda le ansie europee – nel Sahel (una grossa preoccupazione, non a caso, continua a destarla l’instabilità del Mali). 

 

In questo quadro, l’esposizione italiana al rischio di attentati potrebbe aumentare anche in virtù del fatto che sarà proprio il nostro paese a guidare la missione Nato in Iraq, con un aumento di impegno e di responsabilità che porterà il nostro contingente a essere il più numeroso sul terreno. 

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