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verso il conte ter

Così il M5s diventa una minaccia per Conte alla vigilia della crisi

Le autocandidature per il rimpasto. Tofalo: "Torniamo alle graticole". Il caos sulla scuola e gli agguati alla Catalfo. E intanto l'8 gennaio, in piena crisi, ricomincia il rodeo per la scelta del nuovo capogruppo alla Camera

Valerio Valentini

La Azzolina colpita dal fuoco amico: "E' un'imboscata". La riunione dei veleni. Il viceministro Buffagni: "Non possiamo andare avanti così". Di Maio mischia le carte e schiera i suoi a difesa del premier, ma anche contro. Nel gioco al logoramento di Giuseppi, il caos grillino è l'alleato migliore di Renzi

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Confidandosi coi suoi collaboratori, alla fine lo sfogo se l’è lasciato scappare, Lucia Azzolina. “E’ stata un’imboscata”, ha detto la ministra dell’Istruzione. Si riferiva al Pd, e a quanto era appena avvenuto in Consiglio dei ministri. Dove, stravolgendo l’ordine dei lavori concordato, Dario Franceschini era arrivato paventando la minaccia che arrivava dalla regione Lazio. Regione amica, si direbbe, se la categoria dell’amicizia avesse un valore, in politica. “Se noi confermiamo la riapertura del sette gennaio, Zingaretti è pronto a emanare un’ordinanza per rimandare almeno a metà gennaio il ritorno in classe nelle superiori”. E tanto bastava per innescare una baruffa che s’è trascinata per un paio d’ore, fino a una mediazione un po’ raffazzonata (riapertura l’11 gennaio, salvo riacutizzarsi dei contagi) che valeva comunque a confermare la Azzolina nel suo sospetto: che il Pd, cioè, stia usando la trattativa sulle scuole solo per rosolare la titolare di Viale Trastevere, e riprendersi quel ministero che al Nazareno considerano “roba loro” nel rimpastone che verrà.

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Confidandosi coi suoi collaboratori, alla fine lo sfogo se l’è lasciato scappare, Lucia Azzolina. “E’ stata un’imboscata”, ha detto la ministra dell’Istruzione. Si riferiva al Pd, e a quanto era appena avvenuto in Consiglio dei ministri. Dove, stravolgendo l’ordine dei lavori concordato, Dario Franceschini era arrivato paventando la minaccia che arrivava dalla regione Lazio. Regione amica, si direbbe, se la categoria dell’amicizia avesse un valore, in politica. “Se noi confermiamo la riapertura del sette gennaio, Zingaretti è pronto a emanare un’ordinanza per rimandare almeno a metà gennaio il ritorno in classe nelle superiori”. E tanto bastava per innescare una baruffa che s’è trascinata per un paio d’ore, fino a una mediazione un po’ raffazzonata (riapertura l’11 gennaio, salvo riacutizzarsi dei contagi) che valeva comunque a confermare la Azzolina nel suo sospetto: che il Pd, cioè, stia usando la trattativa sulle scuole solo per rosolare la titolare di Viale Trastevere, e riprendersi quel ministero che al Nazareno considerano “roba loro” nel rimpastone che verrà.

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Quello che invece non sapeva, la Azzolina, è che in quelle stesse ore, mentre lei s’accalorava in Cdm, a predicare il suo siluramento  erano i suoi stessi compagni di partito e di governo: i quali contattavano i deputati del M5s riuniti in assemblea per informarli che “con Lucia non sappiamo più come fare”, raccontando addirittura di certe presunte telefonate al limite del minatorio che lei avrebbe fatto agli assessori regionali all’Istruzione per costringerli a cedere, per obbligarli a desistere dalla linea della chiusura a oltranza delle scuole.

 

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Istantanee di un partito allo sbando. Che, proprio per il suo stato di costante e scombiccherata entropia interna, rischia di diventare l’elemento di destabilizzazione maggiore, nelle giornate delicate che attendono Giuseppe Conte. Perché, per paradossale che possa sembrare a giudicare dai toni velenosi utilizzati dai grillini all’indirizzo di Matteo Renzi, è proprio il M5s che si candida a essere l’alleato migliore del leader di Iv nel percorso a ostacoli che dovrà portare il fu avvocato del popolo a saltare sul suo terzo esecutivo di fila. E qui si spiega anche il timore con cui il premier pensa all’idea di doversi dimettere per ottenere il reincarico. Conte sa che, in quella manciata di ore in cui non sarebbe più a capo del Conte bis e non sarebbe ancora alla guida del Conte ter, non dovrà guardarsi solo dalle insidie del senatore di Scandicci, ma anche dal caos del M5s.

 

Luigi Di Maio sa di essere l’osservato speciale, in questo gioco degli specchi. E così lunedì sera ha preteso che ad aprire il dibattito dell’assemblea dei deputati del M5s fosse un suo pretoriano. Quel Ciccio D’Uva già capogruppo, e ora questore di Montecitorio, che ha preso per primo la parola per dire che “Conte non si tocca”. “E’ il segnale di pace che Luigi manda a Giuseppe”, si sono detti in tanti. E non hanno fatto in tempo a dirselo, che subito sono arrivati gli interventi degli altri diamiani di ferro, che invece andavano in senso opposto. E allora ecco Azzurra Cancelleri a dire che il M5s deve farsi valere, deve pretendere di conquistare ministeri di peso come il Mit (dove, ma sarà una coincidenza, c’è suo fratello Giancarlo come viceministro). Ecco Luigi Iovino osservare che le critiche a Conte da parte di Renzi sono certamente strumentali, ma che pure Giuseppe ha sbagliato, perché “è diventato troppo autonomo” e “accentra troppo su di sé”. Ecco pure Cosimo Adelizzi sentenziare che “legare i destini del M5s e di questa legislatura ai destini di Conte sarebbe un grave errore”.

 

E chissà se in questa diversificazione delle voci ci sia della coordinazione dall’alto della Farnesina, o solo confusione. Di certo c’è che l’eventuale sostituzione della squadra di governo che s’imporrà nel trapasso da un Conte all’altro, per il M5s lascerà sul campo morti e feriti. Stefano Buffagni, ad esempio, coi deputati è stato lapidario: “Conte resta un punto fermo. Ma sul resto si possono e si devono fare sostituzioni, come in qualsiasi squadra. Specie se gli altri partiti modificheranno la loro rappresentanza nell’esecutivo”. E quando qualcuno ha obiettato che è proprio smuovendo le basi della piramide che si rischia di far cadere pure il vertice di Palazzo Chigi, lui ha ribattuto che questo non può essere un alibi per tenere al governo chi non è adeguato. “Così è troppo comodo”, ha detto il viceministro dello Sviluppo, che punta da tempo a un upgrade, magari come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, “ed è anche troppo sciocco”. E così ha finito per citare, con alcuni dei suoi confidenti che scherzando gli davano del folle, una vecchia massima di Einstein: “Follia è fare la stessa cosa aspettandosi risultati diversi”.

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E insomma il partito che dovrebbe compattarsi a difesa del suo premier, del suo avvocato del popolo, inizia in verità una schermaglia autolesionista, che mescola realismo e spregiudicatezza. “Perché dobbiamo aver paura di chiedere miglioramenti del Pnrr? Alcune delle critiche avanzate da Renzi nei 61 punti sono fondati”, ha spiegato Sergio Battelli, presidente della commissione Affari europei. E mentre il capogruppo Davide Crippa, nel corso dell’assemblea, spiegava che, nel riassetto che verrà, il M5s dovrà badare a non perdere la maggioranza numerica dentro il Cdm, subito seguito da Emanuela Corda e Rosa Menga, altri obiettavano che più che la quantità conta il peso, dei ministeri. “Ci serve l’Economia, e anche i Trasporti”, ha insistito la Cancelleri. Mentre già la titolare del Lavoro Nunzia Catalfo, e appunto la Azzolina, venivano considerate come delle vittime scontate da offrire sull’altare del rimpasto.

 

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Dinamiche inevitabili, si dirà, comuni a tutti i partiti. E in parte è vero. Se non fosse, però, che ne gli altri partiti c’è una grammatica politica che riesce a regolare il traffico. “Qui invece noi non sappiamo neppure chi dovrà sedersi a trattare, al tavolo per il Conte ter”, sbuffano nel M5s. Perché Vito Crimi è perennemente dimissionario, e però resta sempre il vertice formale del Movimento. Perché Di Maio è solo il ministro degli Esteri, eppure tutti lo considerano il punto di riferimento. Perché Alfonso Bonafede è un capodelegazione, sì, “ma nel senso che sa solo delegare”, malignano nel gruppo grillino. Il risultato è che, alla fine, le proposte che arrivano devono suonare un poco strampalate, alle orecchi di Conte. “Torniamo alle graticole”, ha detto a n certo punto, lunedì sera, Angelo Tofalo. Che pure, da sottosegretario alla Difesa, dovrebbe rappresentare l’animo governista del M5s. E invece ha vagheggiato un sistema che prevede in sostanza delle autocandidature da vagliare a livello parlamentare (o, magari, col ricorso a Rousseau) con tanto di interrogatorio e votazione interna: roba da assemblea di istituto, più che da rimpasto di governo. Nel passaggio dal governo gialloverde a quello rosso giallo, si era già tentata questa strada: e si era finito con una quindicina di candidati nei ruoli di sottogoverno per ciascun ministero. Il risultato fu che alla fine scelse Di Maio insieme a pochi altri, e per ogni sottosegretario nominato rimasero cinque o sei deputati e senatori delusi e sconfitti, pronti dunque a fomentare il malumore interno.

 

Del resto, se le date hanno un valore, il M5s ha già fissato le sue priorità. E così per l’8 di gennaio, all’indomani cioè del Cdm della resa dei conti che probabilmente inaugurerà il sabba intorno a Conte, i vertici hanno fissato la scadenza per la presentazione delle candidature per il nuovo capogruppo della Camera. Sei persone per ogni squadra, votazioni previste a partire dal 12 gennaio. L’ultima volta, per arrivare a scegliere Crippa, ci vollero sei mesi di litigi e di votazioni andate a vuoto. Si iniziò a discuterne a luglio 2019, e c’era ancora il Conte uno. Si finì a dicembre dello stesso anno, e c’era già il Conte due. Chissà che anche stavolta…

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