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L'intervista

"I servizi segreti non sono lo scudo politico di singoli". Parla Minniti

La vittoria riformista di Biden e il destino dell'Europa nel Mediterraneo. I pescatori libici e i rapporti con l'Egitto. E poi la polemica sulla delega dei servizi che Conte non vuole cedere. L'analisi del deputato del Pd

Valerio Valentini

"L'intelligence è un patrimonio del paese, non l'asset di una parte", dice l'ex ministro del Pd. "Serve un Recovery plan per la Libia e sanzioni comunitarie sul caso Regeni". I pescatori libici? "Haftar ha ottenuto quel che voleva"

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Alla polemica contingente non è che si sottrae: e infatti sul finire della conversazione, cedendo all’insistenza di chi vuole trascinarlo nel pantano, dirà che “i servizi segreti sono un asset strategico del paese, non uno scudo politico che qualcuno possa usare per rafforzare la propria posizione nella contesa interna”. E’ piuttosto che, forse in ossequio a un’antica consuetudine di quella scuola comunista dentro cui s’è formato, alle baruffe di casa nostra vuole arrivarci dopo aver riflettuto su questioni più ampie. “Se mi è concesso - dice il deputato del Pd, già ministro dell’Interno - partirei da due questioni che solo apparentemente sembrano più lontane dai nostri interessi”. E dunque, onorevole Marco Minniti, da dov’è che partiamo? “Dalla vittoria di Joe Biden, un franco successo riformista negli Stati uniti, e da come questo evento possa avere ripercussioni sul Mediterraneo, un mare che è sempre meno nostrum e che proprio per questo diventa cruciale per gli assetti geopolitici italiani ed europei, e in certa misura dell’intero pianeta”. 

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Alla polemica contingente non è che si sottrae: e infatti sul finire della conversazione, cedendo all’insistenza di chi vuole trascinarlo nel pantano, dirà che “i servizi segreti sono un asset strategico del paese, non uno scudo politico che qualcuno possa usare per rafforzare la propria posizione nella contesa interna”. E’ piuttosto che, forse in ossequio a un’antica consuetudine di quella scuola comunista dentro cui s’è formato, alle baruffe di casa nostra vuole arrivarci dopo aver riflettuto su questioni più ampie. “Se mi è concesso - dice il deputato del Pd, già ministro dell’Interno - partirei da due questioni che solo apparentemente sembrano più lontane dai nostri interessi”. E dunque, onorevole Marco Minniti, da dov’è che partiamo? “Dalla vittoria di Joe Biden, un franco successo riformista negli Stati uniti, e da come questo evento possa avere ripercussioni sul Mediterraneo, un mare che è sempre meno nostrum e che proprio per questo diventa cruciale per gli assetti geopolitici italiani ed europei, e in certa misura dell’intero pianeta”. 

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E’ stato detto che grossa parte dell’instabilità nel bacino del Mediterraneo è dovuto al progressivo ripiegamento degli americani. Con Biden le cose cambieranno? “E’ interesse dell’Italia e dell’Europa che gli Usa tornino ad occuparsi di quest’area. Ma non illudiamoci che si possa tornare al passato. Trump ha estremizzato una tendenza al disimpegno in atto da tempo, e il suo successore dovrà anzitutto occuparsi di affari interni, anche perché l’“America first” non può certo essere liquidato nel giro di qualche mese. C’è la lotta al Covid, c’è un paese da riunificare dopo una spaccatura profonda, e c’è poi la sfida di primazia sul Pacifico che vede Washington in competizione con Pechino: saranno queste, inevitabilmente, le priorità di Biden”.

 

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E dunque qui, nella periferia dell’impero, cosa cambierà con l’avvicendamento alla Casa Bianca? “Gli Usa non passeranno dall’isolazionismo al multilateralismo spinto in modo repentino”, spiega Minniti. “Ma l’Unione europea deve fare un passo avanti sul piano geopolitico, e prendere atto che il suo futuro dei prossimi vent’anni si gioca proprio nel Mediterraneo, più che sul fronte orientale. Non foss’altro che per il fatto che l’est, è ormai scivolato dentro il Mediterraneo”.

 

Eccola evocata, la Libia. “L’Ue svolse un ruolo cruciale, nel rovesciamento di Gheddafi, solo nove anni fa. E ora, come per un’eterogenesi dei fini, ci ritroviamo coi russi in Cirenaica e i turchi in Tripolitania. Io non coltivo la minima nostalgia per le dittature del nordafrica, ma quando leggo della creazione di una base di Mig-29 ad Al Jufra mi chiedo cosa debba succedere, ancora, perché l’Europa si occupi della Libia davvero. Sono stati fatti dei progressi nel consolidamento del cessate il fuoco. Ma davvero pensiamo che questo basti?”.

 

Cosa manca, all’Ue? “Non è pensabile occuparsi del Mediterraneo senza una difesa comune europea che abbia una propria capacità di proiezione. Ed è velleitario immaginare di giocare un ruolo geopolitico senza parlare con una sola voce e con un unico linguaggio. L’inviato speciale dell’Onu in Libia si è dimesso a marzo. E’ passato quasi un anno, senza che le Nazioni Unite abbia saputo nominare un proprio successore”. Nel frattempo Russia e Turchia sono passate alle vie di fatto.  “Hanno guadagnato terreno con un uso spregiudicato e disinvolto delle proprie capacità belliche. E tuttavia Mosca ed Ankara hanno difficoltà a promuovere una ricostruzione unitaria della Libia. Bruxelles invece quella forza economica ce l’ha: la democrazia europea, vorrei dire, quella forza ce l’ha. E deve farla valere. Servirebbe un Recovery plan ad hoc, ovviamente in proporzioni ridotte rispetto a quello appena varato per gli stati membri. Questo convincerebbe quella vasta e influente parte dell’opinione pubblica libica che crede ancora nell’Europa. Ma è una corsa contro il tempo: l’inerzia europea favorisce una soluzione di divisione per aree d’influenza sul modello siriano, con una Cirenaica russo-emiratina e una Tripolitania turco-qatariota”.

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A proposito: come va giudicata la vicenda dei diciotto pescatori rapiti? “Prima di tutto, per un paese democratico, viene la vita e il benessere dei propri cittadini, la serenità delle loro famiglie. A tal punto è vero, questo, che in passato, nel 2016, non esitammo ad adottare misure eccezionali per liberare immediatamente dei nostri pescatori che rischiavano una sorte analoga a quella dei loro colleghi rapiti a settembre. Una volta di più, i nostri apparati d’intelligence hanno dimostrato influenza e una grande efficienza anche in scenari complessi. Di certo, il generale Haftar soffriva per la sua progressiva marginalizzazione. Di qui la sua iniziativa spregiudicata ai danni dei nostri pescatori: voleva dimostrare che senza di lui non si può controllare la Cirenaica. Temo che non sia andato molto lontano dall’esserci riuscito”.

 

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E poi, sempre a proposito di convulsioni europee nel Mediterraneo, c’è l’Egitto. “E qui nessun discorso può prescindere dalla tragedia di Giulio Regeni, da quel suo corpo straziato che ancora chiede verità e giustizia, né da una constatazione sul mancato rispetto dei diritti umani, come insegna anche l’ingiustificabile detenzione di Patrick Zaki. Ma ignorare l’altro corno del problema, e cioè il fatto che l’Egitto è un protagonista strategico nel Mediterraneo, non è un atto di coraggio: è negare la complessità della realtà. Una diplomazia esigente, qual è quella che l’Italia deve esercitare, dalla sua controparte pretende la verità. Questo non è negoziabile. Tuttavia un grande paese ha il compito di saper conciliare gli irrinunciabili principi alle visioni strategiche. E certo il fatto che per la prima volta un paese democratico ha chiesto il giudizio, tramite la procura di Roma, quattro agenti del servizi segreti di un altro paese, è un fatto rilevantissimo. Ma anche qui, serve l’Europa. Nel momento in cui i quattro agenti egiziani dovessero essere rinviati a giudizio, l’Ue deve immediatamente istituire sanzioni individuali nei loro confronti”. 

 

Ed ecco che insomma ci si arriva, alle questioni italiane. Perché a Minniti, che la delega ai servizi segreti, primo comunista della storia italiana, l’ha gestita già nel 1999, e che poi è tornato a occuparsene, come autorità delegata, coi governi Letta e Renzi, non si può non chiedere un commento sulla polemica in atto. “L’intelligence - dice lui - è un elemento fondamentale in questa competizione geopolitca a livello mondiale. Non è un asset interno, né lo scudo politico di singoli. L’Italia, negli anni bui del terrorismo e della deviazione degli apparati di sicurezza, seppe ragionare su questa materia superando gli steccati ideologici, con un’intesa tra Pci e Dc. Di lì in poi, le decisioni sull’intelligence sono sempre state prese con una larghissima maggioranza parlamentare. Compresa, in epoca recente, la riforma del 2007. Che ha, da un lato, aumentato i poteri della nostra intelligence, e dall’altro ha contestualmente rafforzato il controllo pubblico su chi questi poteri è chiamato a esercitare. E dunque ecco perché la presidenza del Copasir va assegnata, per legge e non per prassi, a un esponente dell’opposizione. Ed ecco perché il legislatore ha previsto un’autorità delegata che, su mandato fiduciario del presidente del Consiglio, vigili con competenza esclusiva”. E invece Giuseppe Conte ribadisce che non ha alcuna intenzione di cedere quella delega. “Non entro nella polemica. E’ un suo diritto. Dico solo che l’intelligence è un patrimonio dell’Italia. E non solo, in una democrazia, non può diventare l’asset di una parte. Ma non può neppure essere lontanamente investita dal sospetto che possa diventarlo”. 

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