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scenari transtlantici

L'ombra di Biden su Palazzo Chigi

Difesa comune europea e Nato. Brexit e Mediterraneo. "Ecco come evitare che l'anno di presidenza italiano al G20 passi invano". Parla Giampiero Massolo, presidente di Ispi e Fincantieri, grande tessitore di relazioni diplomatiche

Valerio Valentini

Cosa cambia con l'arrivo di Sleepy Joe alla Casa Bianca. Le relazioni tra Giuseppi e Trump, la grana dei servizi segreti. Il Pd e Renzi che scalpitano. Giampiero Massolo, homo diplomaticus per eccellenza, analizza la nuova stagione tra Roma e Washington

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A un certo punto, la chiacchierata che voleva provare a sprovincializzare la polemica in corso, rischia di diventare provincialissima. E allora Giampiero Massolo si ferma, come trattenendo un sospiro, e precisa: “Far dipendere i destini della politica italiana, o addirittura di singole figure della politica italiana, da un tweet d’elogio o da una telefonata arrivata in ritardo, credo sia un po’ eccessivo”. Lo dice, Massolo, per negare la validità di un sillogismo che parecchi, nei conciliaboli del Transatlantico di queste settimane, hanno proposto. Ché insomma se Giuseppe Conte deve la sua permanenza a Palazzo Chigi alla benedizione arrivata via social da Donald Trump nella tribolata estate del Papeete che vide il passaggio dal grilloleghismo al demogrillismo, ora che alla Casa Bianca è arrivato Joe Biden, il “very talented man” di Volturara Appula dovrebbe farsi da parte. “No, non mi pare che la si possa mettere in questi termini”, obietta Massolo, presidente dell’Ispi e di Fincantieri, che alle relazioni diplomatiche italiane ha sovrinteso per un paio di decenni buoni, con ruoli di vertice nelle strutture di Palazzo Chigi e della Farnesina, attraversando tetragono il trapasso tra Prima e Seconda Repubblica. Giulio Andreotti lo volle con sé tra i suoi consiglieri quand’era premier, e Berlusconi se ne ricordò dopo la sua discesa in campo. Fu poi il centrosinistra a nominarlo segretario generale degli Esteri. Francesco Cossiga, dicono, lo chiamava il “fascio-comunista”, per la sua capacità di essere trasversale, di farsi apprezzare e di saper collaborare con chi andasse al governo. E forse è anche per questo che Massolo, nato nel 1954 a Varsavia, diplomatico prima alla Santa Sede e poi a Mosca e quindi presso l’Unione Europea, è stato tirato in ballo alla vigilia della formazione di più di un esecutivo da molti anni a questa parte. Di certo è uno che insomma di rapporti internazionali e intrighi transatlantici ne avrebbe da raccontare, e non solo in virtù dei suoi attuali incarichi. “A Washington guardano da sempre agli sviluppi della politica interna italiana, che ha dinamiche tutte sue”, spiega. “Ma soprattutto hanno una preoccupazione: quella di avere nell’Italia un alleato stabile e affidabile. E dunque, più che dalle simpatie personali che pure contano, i governi e i presidenti del Consiglio vengono misurati proprio sulla base della garanzia di affidabilità che offrono”.

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A un certo punto, la chiacchierata che voleva provare a sprovincializzare la polemica in corso, rischia di diventare provincialissima. E allora Giampiero Massolo si ferma, come trattenendo un sospiro, e precisa: “Far dipendere i destini della politica italiana, o addirittura di singole figure della politica italiana, da un tweet d’elogio o da una telefonata arrivata in ritardo, credo sia un po’ eccessivo”. Lo dice, Massolo, per negare la validità di un sillogismo che parecchi, nei conciliaboli del Transatlantico di queste settimane, hanno proposto. Ché insomma se Giuseppe Conte deve la sua permanenza a Palazzo Chigi alla benedizione arrivata via social da Donald Trump nella tribolata estate del Papeete che vide il passaggio dal grilloleghismo al demogrillismo, ora che alla Casa Bianca è arrivato Joe Biden, il “very talented man” di Volturara Appula dovrebbe farsi da parte. “No, non mi pare che la si possa mettere in questi termini”, obietta Massolo, presidente dell’Ispi e di Fincantieri, che alle relazioni diplomatiche italiane ha sovrinteso per un paio di decenni buoni, con ruoli di vertice nelle strutture di Palazzo Chigi e della Farnesina, attraversando tetragono il trapasso tra Prima e Seconda Repubblica. Giulio Andreotti lo volle con sé tra i suoi consiglieri quand’era premier, e Berlusconi se ne ricordò dopo la sua discesa in campo. Fu poi il centrosinistra a nominarlo segretario generale degli Esteri. Francesco Cossiga, dicono, lo chiamava il “fascio-comunista”, per la sua capacità di essere trasversale, di farsi apprezzare e di saper collaborare con chi andasse al governo. E forse è anche per questo che Massolo, nato nel 1954 a Varsavia, diplomatico prima alla Santa Sede e poi a Mosca e quindi presso l’Unione Europea, è stato tirato in ballo alla vigilia della formazione di più di un esecutivo da molti anni a questa parte. Di certo è uno che insomma di rapporti internazionali e intrighi transatlantici ne avrebbe da raccontare, e non solo in virtù dei suoi attuali incarichi. “A Washington guardano da sempre agli sviluppi della politica interna italiana, che ha dinamiche tutte sue”, spiega. “Ma soprattutto hanno una preoccupazione: quella di avere nell’Italia un alleato stabile e affidabile. E dunque, più che dalle simpatie personali che pure contano, i governi e i presidenti del Consiglio vengono misurati proprio sulla base della garanzia di affidabilità che offrono”.

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E certo in questo discorso ci rientra anche la baruffa più indicibile e più raccontata delle ultime settimane: quella delega ai servizi segreti che Conte s’ostina a tenere per sé, nonostante Matteo Renzi e il Pd insistano nel chiedergli di cederla, anche qui adducendo ragioni di sopraggiunta incompatibilità del fu Giuseppi col nuovo corso democratico alla Casa Bianca. “Ma le deleghe non si danno per far piacere a qualcuno”, osserva Massolo, che anche di questo è titolato a parlare, avendo diretto per quattro anni il Dis, il Dipartimento a capo dell’intelligence italiana. “Le deleghe si affidano con l’obiettivo di garantire il corretto funzionamento di un sistema che è per sua natura complesso e delicato”. E che è stato spesso il filo più diretto tra Roma e Washington. “E’ certamente compito dell’intelligence lavorare con i servizi dei paesi alleati, perché la collaborazione internazionale e il perseguimento di obiettivi comuni rispondono al nostro interesse nazionale e in questo nessuno stato può ritenersi del tutto autonomo e indipendente, avulso da un contesto più ampio. E quindi, semmai, bisogna fare in modo di non apparire l’anello debole di una catena che lega tutti gli alleati”. Parla come se fosse proprio così, che veniamo percepiti dall’altra parte dell’Atlantico? “No, non direi affatto che corriamo questo rischio. Ma è bene che lo si tenga sempre presente”.

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E qui viene spontaneo alludere alla questione cinese, a quella sbandata sulla Via della seta che Massolo nell’èra gialloverde – quella che, secondo il totonomi della vigilia, avrebbe perfino potuto vederlo tra i papabili ministri, perfino come premier “terzo”, quando Giuseppe Conte non aveva ancora una pagina di Wikipedia – ha più volte, più o meno velatamente, criticato. “Uno dei successi dell’Amministrazione Trump è stato quello di aver riallineato l’Occidente su un fronte di maggiore cautela verso Pechino e di maggiore allerta verso la Russia. Ma è stato un ricompattamento in nome di un imperativo interdittivo, per così dire: quel che non bisognava fare, quel che non si doveva fare, insieme a certi paesi. Alla fine anche l’Italia lo ha capito. E ora semmai c’è da sperare che Biden sappia allestire la pars construens di questa alleanza: ritrovare cioè una comunione d’intenti euro atlantica sulle cose da fare, da promuovere, da rilanciare, per competere costruttivamente con la Cina. A questa sfida, io credo, dovremmo farci trovare pronti, nei prossimi mesi”.

 

Questioni di strategia, più che di tattica. E forse anche per questo, al netto dell’agitarsi di ciascuno nel sottoscala delle trattative di Palazzo, poi i vari leader sanno che non è nel pettegolezzo che si risolvono queste trattative. E così quando Renzi s’è sentito proporre da Conte un sostegno per la sua supposta ambizione di diventare segretario generale della Nato, ha subito alzato il sopracciglio, come fiutando puzza di bruciato. Dario Franceschini, cui non dispiacerebbe promuovere il senatore di Scandicci pure di togliersi di torno le sue continue trappole parlamentari, gli ha anche inviato dispacci d’amore, da parte dei suoi fedelissimi. “Matteo, se vuoi, una mano te la diamo”. Al che il leader di Italia viva ha fatto mostra di disincanto, ricordandosi di quando a Palazzo Chigi, a gestire quella pratica, c’era proprio lui. “E ci misi poco a capire che non era una pratica che dipendeva da me, quella”. E infatti nonostante si fosse attivato perfino Giorgio Napolitano, allora presidente della Repubblica, pur di sostenere la candidatura di Franco Frattini alla guida dell’Alleanza Atlantica, Renzì capì che di spazio di manovra ce n’era poco. “Mi chiamarono dalla Casa Bianca – ha raccontato a un gruppo di senatori, giorni fa, in un corridoio di Palazzo Madama – per dirmi che avevano deciso loro: e così al danese Rasmussen seguì il norvegese Stoltenberg”. Chiusa lì.

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Come a dire, insomma, che la buona frequentazione, le simpatie umane, contano: e certo quella tra Renzi e Obama, tra Renzi e Biden, era un qualcosa di vicino all’amicizia personale. E però non varrà certo a determinare, come suggerisce ai suoi interlocutori quel Giancarlo Giorgetti che pure su queste cose la sa lunga, una crisi di governo. “Anche perché, al di là delle analisi che si possono fare – dice Massolo – la democrazia ha una sua scorza dura, fortunatamente: e dunque la legittimazione politica viene innanzitutto dal consenso popolare, prima che da qualsiasi investitura straniera. E questo vale tanto più in quest’epoca in cui, al di là del cambio dei governi, la teoria della supplenza a Washington è passata di moda”. A prescindere da Trump? “A prescindere da Trump. Il quale, certo, aveva un modo alquanto unconventional di gestire le relazioni diplomatiche, con toni nuovi e piuttosto sconcertanti. Ma al di là di quelli, nella sostanza c’è una continuità che va da Obama, Trump e fino a Biden, e sta nel fatto che l’idea secondo cui gli Stati Uniti devono essere garanti supremi dell’ordine mondiale, sceriffi pronti a intervenire ben al di là dei propri confini, è via via passata di moda. E questa, per quel che è lecito immaginare, è una tendenza che non s’interromperà. Biden sarà verosimilmente interprete di una ripresa dei dialoghi garbati e della valorizzazione della diplomazia multilaterale, ma penserà innanzitutto agli interessi dei cittadini americani. Quanto all’amicizia tra i singoli leader, credo che l’intesa umana e la sintonia di caratteri sia importante, nelle relazioni diplomatiche, ma non possa mai supplire agli interessi tra gli stati. E più ancora dei singoli governi, dei presidenti o dei ministri che passano, le depositarie delle linee politiche che tendono a quegli interessi restano le amministrazioni”.

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Eccolo evocato, finalmente, il deep state. Ma a nominarglielo esplicitamente, a Massolo si strappa quasi un sorriso. Troppa narrativa d’invenzione, evidentemente, anche qui. “Diciamo che spesso si eccede, nelle ricostruzioni”. E però, lui che è stato “sherpa” del governo italiano nei G20 del 2008 e poi del 2009 (sì, quello di “Mister Obamaaaa!” e della cazziata della Regina Elisabetta), e che ha fatto da grand commis  nel G8 dell’Aquila quello stesso anno, indica un appuntamento che l’Italia non deve mancare. “Assumiamo la presidenza del G20 nel momento in cui alla Casa Bianca arriva un presidente che crede molto nel multilateralismo. E allora stimoliamolo. Senza velleità irrealistiche, sia chiaro, ma consapevoli che esiste la necessità di ricostruire un rapporto tra Occidente e Asia su basi nuove. E noi, senza certamente precluderci le relazioni con Pechino, possiamo avere un ruolo importante, nel contesto del G20, per far capire alle democrazie asiatiche che l’Occidente è un’alternativa credibile. E possiamo farlo su alcuni temi concreti. Il riconoscimento del vaccino come un bene pubblico primario a livello internazionale, cosa che non dappertutto nel mondo è così scontata come potrebbe sembrare. Una mediazione intelligente sulle questioni ambientali, utilizzando la particolare sensibilità europea su questo argomento per trovare una sintesi con Usa e Cina. Il diritto all’accesso a internet. La remissione del debito nei paesi più fragili”.

 

Vaste programme, insomma. Ma Massolo ci tiene a indicare altri due fronti da presidiare. “Il primo ha a che vedere con la Brexit, che fa sì che gli Usa perdano il loro aggancio più solido con l’Unione europea. E qui, con prudenza e senza arroganza, l’Italia ha un ruolo importante da poter giocare. Penso innanzitutto alla Difesa comune europea. Dobbiamo essere bravi a portarla avanti con convinzione, ma senza farne qualcosa di contundente verso la Nato”. Citofonare Macron, dunque. “Più semplicemente, direi che l’autonomia europea in campo militare va declinata in termini di collaborazione, e non di competizione, con l’Alleanza atlantica. Sinergia, non antagonismo”. E l’altro fronte? “Il Mediterraneo. Qui è bene non illudersi: il disimpegno americano proseguirà. E dobbiamo stare attenti affinché il progressivo ritiro americano non produca nuova destabilizzazione. Penso al Medio-Oriente, e anche alla Libia, che Washington vorrebbe lasciare in mani affidabili”.

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