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Così Conte è convinto di poter disinnescare la minaccia di Renzi sul Recovery

Le bozze del decreto sulla cabina di regia modificate dopo il vertice notturno. Palazzo Chigi prova a concedere senza cedere. "Non si può tornare indietro", dice il premier. Che però, pur senza entusiasmo, si rimetterà al Parlamento

Valerio Valentini

Il premier si lamenta dell'incoerenza del leader di Iv: "Mi accusa di decisionismo chi invocava il modello Genova e il Piano shock?". Ma poi chiede ai tecnici di concedere alcune modifiche al senatore di Rignano. "Vedrete che la risolviamo". Ma il vertice notturno tra i consulenti ministeriali diventa un rodeo 

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Sarà che, come dice lui,  “sono un inguaribile ottimista”; o sarà che, come gli rimprovera anche il dem Graziano Delrio, “certe volte ignora le regole basilari della politica”. Sta di fatto che Giuseppe Conte s’ostina a non volerla considerare per quel che a tutti appare, la minaccia di Matteo Renzi intorno alla gestione dei fondi del Recovery plan. “Quello vuole la crisi e basta, prendiamone atto”, dicono al premier i suoi ministri più fedeli, alludendo al leader di Iv. E lui, il giurista di Volturara che sa farsi leguleio, quando vuole, e cavillare su una mezza frase per delle ore, rifiuta quasi di prenderlo sul serio. “Di certo c’è che sulla struttura della governance non possiamo tornare indietro”, ripete Conte. Al quale l’idea di dover disfare il disegno della sua cabina di regia come se fosse una tela di Penelope inquieta forse per un puntiglio d’orgoglio, e forse per la paura che da Bruxelles possano non gradire che a Roma si parta col piede in fallo, quasi a voler convalidare tutti i pregiudizi che a nord delle Alpi nutrono verso la proverbiale inconcludenza italica. Solo che ormai, per come si è incattivito il confronto, il disfare tutto sembra essere l’unica soluzione che Renzi possa accettare

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Sarà che, come dice lui,  “sono un inguaribile ottimista”; o sarà che, come gli rimprovera anche il dem Graziano Delrio, “certe volte ignora le regole basilari della politica”. Sta di fatto che Giuseppe Conte s’ostina a non volerla considerare per quel che a tutti appare, la minaccia di Matteo Renzi intorno alla gestione dei fondi del Recovery plan. “Quello vuole la crisi e basta, prendiamone atto”, dicono al premier i suoi ministri più fedeli, alludendo al leader di Iv. E lui, il giurista di Volturara che sa farsi leguleio, quando vuole, e cavillare su una mezza frase per delle ore, rifiuta quasi di prenderlo sul serio. “Di certo c’è che sulla struttura della governance non possiamo tornare indietro”, ripete Conte. Al quale l’idea di dover disfare il disegno della sua cabina di regia come se fosse una tela di Penelope inquieta forse per un puntiglio d’orgoglio, e forse per la paura che da Bruxelles possano non gradire che a Roma si parta col piede in fallo, quasi a voler convalidare tutti i pregiudizi che a nord delle Alpi nutrono verso la proverbiale inconcludenza italica. Solo che ormai, per come si è incattivito il confronto, il disfare tutto sembra essere l’unica soluzione che Renzi possa accettare

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 E così, preso in questa strettoia, Conte pare aver deciso che la strategia da adottare è quella di togliere ogni pretesto al senatore di Scandicci, rendergli difficile trovare l’incidente propizio per aprire la crisi. Prenderlo per sfinimento, insomma: e, in caso, fargli assumere la responsabilità della rottura fino in fondo. Non si spiegano altrimenti, sennò, certe parziali concessioni che la struttura di Palazzo Chigi ha fatto, nei giorni scorsi, all’impianto della cabina di regia. Ed ecco allora l’ancoraggio del Comitato esecutivo, ovvero della triade che oltre a Conte vede i ministri Patuanelli e Gualtieri in prima linea, al Comitato interministeriale per gli Affari europei, e dunque al governo nel suo complesso. Ecco ad esempio la decisione di rafforzare il ruolo della Conferenza stato-regioni nei processi decisionali connessi alla realizzazione dei progetti del Next Generation Eu. E qui c’è un che di grottesco, o di perfido, nella scelta di Conte di voler replicare alle accuse piovutegli a proposito della sua ricerca dei “pieni poteri” valorizzando il più bizantino degli organi politici a disposizione, quello che già in questi mesi di eterna baruffa sui lockdown ha generato conflitti d’ogni tipo. Queste erano le modifiche offerte da Conte sull’altare del Cdm, lunedì pomeriggio. E tutti sapevano che Teresa Bellanova, dopo aver consultato il suo capo di partito, avrebbe detto che non sapeva che farsene, di quelle minuzie

 

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E così il pre-consiglio che ne è seguito poche ore dopo, col confronto tra le strutture tecniche dei vari ministeri, s’è trasformato in un rodeo. I capi di gabinetto e del legislativo delle due ministre renziane ci sono arrivati infatti col piglio di chi non ci sta, a compromessi al ribasso. E quindi hanno contestato la mancanza dei vincoli di formalità concessa al Comitato esecutivo: ciò che rende, cioè, quella triade Conte-Gualtieri-Patuanelli libera di agire senza  impacci burocratici, ma appunto forse troppo libera, agli occhi di chi in quel Comitato non ha alcun suo ministro. “Quando il Comitato dà indirizzi sui progetti, deve coinvolgere anche i ministri competenti”, hanno contestato i consiglieri di Bellanova e Bonetti. Che poi si sono concentrati su quel che più inquieta Renzi: e cioè quel comma 17 del testo del decreto sul Pnnr che conferisce ai sei manager che svolgeranno il ruolo di “responsabili di missione” un potere d’intervento che, a dirla in breve, ha come unico limite il codice penale. Senza contare, poi, che l’esercito di consulenti di cui i sei manager potranno disporre renderebbe la struttura di missione al loro servizio incomparabilmente più efficiente di qualsiasi ministero: ed ecco perché, quando lunedì notte si è arrivati alla richiesta di varare nei vari dicasteri delle segreterie tecniche speciali per il Recovery, l’ostilità dei responsabili legislativi renziani è stata condivisa anche dai loro colleghi, spingendo anche Palazzo Chigi a convenire che sì, una modifica in tal senso andrà prevista.

 

Poi, certo, Conte ha di che sorridere, quando evidenzia coi suoi confidenti il paradosso per cui “a contestare il decisionismo e la semplificazione è chi ha invocato per mesi il modello Genova e il piano shock”. Perché il premier è ben conscio che i poteri assegnati ai sei manager, quasi legibus soluti, sono enormi. Ma senza di quelli, basterebbe qualsiasi parere contrario di una soprintendenza  a bloccare tutto. Anche per questo Conte ha pensato a lungo che bastasse  offrirgli qualche poltrona nella cabina di regia, per ammorbidire le resistenze del senatore di Scandicci. Il quale, però, a questo gioco non vuole starci, come ha ribadito ieri nel suo discorso in Aula. Al termine del quale, consultandosi coi suoi ministri, Conte ha riconosciuto che sì, “bisognerà dire con chiarezza che il Parlamento avrà piena facoltà di modificare il decreto”. Ma piano, però, per piccoli passi, evitando di concedere alibi a chi vuole rompere e  senza cedere su tutta la linea. “La risolviamo”, dice il premier. Che è ottimista, e forse non ignora del tutto le astuzie della politica. 

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