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La versione di Carlo

Calenda spiega: "Il Pd vuole logorarmi e accordarsi col M5s. Perciò dico no alle primarie".

I contatti con Zingaretti, l'ostilità di Orlando, la diffidenza verso la conta interna al centrosinistra. "Sarebbe una sfida tra signori delle tessere". La strategia dell'ex ministro spiegata nei suoi incontri di queste ore

Valerio Valentini

La strada verso le elezioni a Roma. Il leader di Azione ragiona coi suoi: "Se accetto le primarie del Pd, Zingaretti non mi appoggerà comunque. Non posso aspettare cinque mesi".

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Ma allora perché non stare al gioco, perché non provare ad andare a scoprire il bluff del Nazareno? Carlo Calenda se l’è sentita ripetere più volte, nelle ultime ore, e da diversi interlocutori, questa esortazione all’audacia. E a tutti, consiglieri più o meno disinteressati, il leader di Azione ha datola stessa risposta: “E cioè che io a questo gioco non ci sto”. Perché, dice lui, di fronte a sé non ha qualcuno che vuole sfidarlo a viso aperto, misurarsi ad armi pari. Di là, secondo Calenda, “c’è solo chi vuole tirarla in lungo per logorarmi. Il Pd vuole che io vada a sbattere, e vedere intanto che succede, come evolve il quadro politico: sperando magari che nel frattempo anche Virginia Raggi si ritiri e a quel punto costruire le basi per un’alleanza giallorossa per il prossimo sindaco di Roma”.

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Ma allora perché non stare al gioco, perché non provare ad andare a scoprire il bluff del Nazareno? Carlo Calenda se l’è sentita ripetere più volte, nelle ultime ore, e da diversi interlocutori, questa esortazione all’audacia. E a tutti, consiglieri più o meno disinteressati, il leader di Azione ha datola stessa risposta: “E cioè che io a questo gioco non ci sto”. Perché, dice lui, di fronte a sé non ha qualcuno che vuole sfidarlo a viso aperto, misurarsi ad armi pari. Di là, secondo Calenda, “c’è solo chi vuole tirarla in lungo per logorarmi. Il Pd vuole che io vada a sbattere, e vedere intanto che succede, come evolve il quadro politico: sperando magari che nel frattempo anche Virginia Raggi si ritiri e a quel punto costruire le basi per un’alleanza giallorossa per il prossimo sindaco di Roma”.

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E dunque no, l’opzione di correre alle primarie del centrosinistra in vista delle amministrative della Capitale dell’estate prossima, proprio non vuole prenderla in considerazione. “Se io dico sì – ha ragionato l’europarlamentare insieme coi suoi colleghi di partito – loro le rimandano a febbraio, a marzo. E io per cinque mesi cosa faccio? Vado in giro per la città presentandomi come ‘il candidato alle primarie’? Suvvia”. Glielo hanno sconsigliato, pare, anche i sondaggisti che ha consultato nei giorni scorsi e che gli hanno spiegato che la sua credibilità sta nella "riconoscibilità": deve essere chiaro che corre per il Campidoglio, insomma, non per la sfida interna a una coalizione.

 

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E d’altronde Claudio Lubatti, la sua sentinella in terra sabauda, già assessore ai Trasporti con Piero Fassino, consigliere comunale in Sala Rossa, gli ha fatto notare come già a Torino le primarie sembravano una roba da Blitzkrieg, e si sono invece trasformate in una guerra di trincea: “I dirigenti locali del Pd volevano scongiurare un’intesa col M5s su un nome civico, e quindi avevano lanciato la consultazione interna per novembre. E invece, guarda caso, adesso è stato tutto rimandato a febbraio”. Si potrebbe pretendere un impegno ufficiale e solenne a svolgerle in tempi rapidi, le primarie. “Ma con la pandemia – ha obiettato Calenda in una riunione telefonica coi suoi più fidati amici lunedì pomeriggio – come facciamo? Se sciaguratamente due persone, anche solo due tra le migliaia che dovrebbe mettersi in coda ai gazebo, risultassero poi positivi, verremmo tutti asfaltati da Salvini e dalla Meloni. Ci darebbero degli untori”.

 

E insomma non si fida, Calenda. Sapendo peraltro che, se pure accettasse, si ritroverebbe a competere contro quasi tutto lo stato maggiore del Pd, locale e nazionale. E infatti quando si è confrontato a telefono con Nicola Zingaretti, giorni fa, il segretario gli ha posto come condizione irrinunciabile la partecipazione alle primarie. “Solo che quando gli ho chiesto se lui se la sentirebbe a quel punto di sostenermi, lui mi ha detto che non potrebbe, perché dovrebbe spendersi per il candidato espresso dal partito”.  Che peraltro, al momento non si capisce bene quale sarebbe. “Di fronte alla candidatura di David Sassoli, o di Enrico Letta, o di Paolo Gentiloni e di Zingaretti stesso, mi sarei tolto il cappello e avrei dato una mano: ma io di grandi nomi non ne vedo. Per questo ho detto, con una battuta magari infelice, che Nicola deve accontentarsi di me”.

 

Di qui, dunque, la sfiducia per lo strumento di per sé: il rischio che le primarie si riducano alla conta delle tessere tra i signori delle preferenze della Capitale, o si risolvano in un gioco di correnti interno al partito. Né migliori garanzie arriverebbero dalla eventuale soluzione digitale, che pure qualcuno nel Pd ha vagheggiato: “Ci mettiamo a rincorrere Rousseau, noi, proprio ora che Di Maio e soci vogliono liberarsene?”. D’altronde, l’affezione al feticcio delle primarie da poco riscoperta dai dirigenti del Pd a Calenda appare un po’ insincera. In quattro regioni su cinque, nell’ultima tornata, sono state evitate. E anche a Napoli, dove si voterà in contemporanea con Roma, il segretario dem provinciale, quel Marco Sarracino che è fedele scudiero di quell’Andrea Orlando accanito censore di Calenda nelle ultime ore, ha già fatto approvare all’unanimità dalla direzione locale un documento che chiede di procedere senza primarie all’individuazione di un candidato unico. Se a Napoli sì, perché a Roma no? “Io non mi tiro indietro, ormai ci sono”, dice l’ex ministro dello Sviluppo. Sapendo bene che, se una sintesi non la si troverà, la baruffa si risolverà con una sfida a tre – tra lui stesso, il candidato del Pd e la Raggi – per arrivare secondi, e giocarsela al ballottaggio con lo sfidante della destra. Sempre che a quel punto non sia troppo tardi.

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