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tatticismi e pandemia

Così Renzi scommette sul rimpasto. Ma col Covid è improbabile

Il leader di Iv è convinto che anche Di Maio e Zingaretti abbiano interesse a forzare. Ma Conte punta tutto sul troncare, sopire

Valerio Valentini

L'incidente parlamentare preparato dalla Boschi. Lo sfascio del M5s. Il Pd sbotta: "Ora Conte chiarisca". Franceschini avverte il premier: "E' un fatto politico". Ma sul Mes Zingaretti non forzerà (pare), e la pandemia rende complicata qualsiasi manovra di Palazzo

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La verità è che tutti, o quasi, lo andavano cercando, l’incidente. E di certo tutti se lo aspettavano. “Matteo Renzi ha acceso una scintilla in una stanza che era ormai satura di gas”, dice Enrico Borghi, deputato riformista del Pd. E insomma quando ieri sera, passate da poco le dieci, Maria Elena Boschi ha avviato il suo giro di telefonate per avvertire gli alleati dell’incombenza dello strappo, tutti hanno visto la palla iniziare a rotolare sul piano inclinato. Gli unici che hanno tentato di fermarla, chissà se più per spirito di servizio, per ingenuità o per timore delle conseguenze, sono stati i grillini. Il ministro per i Rapporti col Parlamento, Federico D’Incà, ha provato come ha potuto a ricomporre un puzzle che andava disgregandosi: ma è rimasto ben presto il solo a volerlo. Anche perché nel frattempo a Palazzo Chigi, dov’era in corso un vertice tra i capi delegazione sull’emergenza sanitaria, Dario Franceschini spegneva subito le residue illusioni di Giuseppe Conte e Alfonso Bonafede: “No, non è un inciampo. E’ un fatto politico”. 

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La verità è che tutti, o quasi, lo andavano cercando, l’incidente. E di certo tutti se lo aspettavano. “Matteo Renzi ha acceso una scintilla in una stanza che era ormai satura di gas”, dice Enrico Borghi, deputato riformista del Pd. E insomma quando ieri sera, passate da poco le dieci, Maria Elena Boschi ha avviato il suo giro di telefonate per avvertire gli alleati dell’incombenza dello strappo, tutti hanno visto la palla iniziare a rotolare sul piano inclinato. Gli unici che hanno tentato di fermarla, chissà se più per spirito di servizio, per ingenuità o per timore delle conseguenze, sono stati i grillini. Il ministro per i Rapporti col Parlamento, Federico D’Incà, ha provato come ha potuto a ricomporre un puzzle che andava disgregandosi: ma è rimasto ben presto il solo a volerlo. Anche perché nel frattempo a Palazzo Chigi, dov’era in corso un vertice tra i capi delegazione sull’emergenza sanitaria, Dario Franceschini spegneva subito le residue illusioni di Giuseppe Conte e Alfonso Bonafede: “No, non è un inciampo. E’ un fatto politico”. 

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Eccolo, il fatto. Dopo aver sostanzialmente sempre assecondato la riforma costituzionale che prevede l’estensione del diritto di voto ai diciottenni per il Senato (al momento per Palazzo Madama si vota solo dopo il venticinquesimo anno d’età, a differenza di quel che avviene per Montecitorio), Italia viva si sfila. “Ci asteniamo come abbiamo già fatto al Senato”, annuncia la Boschi. Marco Di Maio, capogruppo renziano nella commissione Affari costituzionali, prova a imbastire una giustificazione tecnica: “Nel passaggio a Palazzo Madama è stata rimossa la parte della riforma che prevedeva l’equiparazione dell’elettorato passivo, cosicché anche i venticinquenni possano essere eletti senatori, senza dover aspettare i quarant’anni”. Ma il fatto, appunto, è politico. E non a caso la Boschi prima, e Renzi stesso più tardi, torneranno a invocare quel che da giorni vanno chiedendo: e cioè un “tavolo di confronto” dove discuterle tutte insieme, le riforme. A partire, magari, dalla più controversa di tutte: e cioè il Mes.

 

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Tutto noto, ovviamente. Tutto, a suo modo scontato.  Di nuovo, semmai, c’è solo la tempistica. Perché ai suoi confidenti il senatore di Scandicci lo ha ripetuto più volte, nelle settimane passate: e cioè che a chiedere un rimpasto, a sparigliare, sarebbe stato anche Luigi Di Maio. “Ma lui vuole farlo dopo gli Stati generali del M5s, a metà novembre”, raccontavano i renziani di stretta osservanza. E allora il calendario della crisi prevedeva che fosse Renzi, il primo a forzare la mano, durante l’assemblea nazionale di Italia viva. Di lì a dieci giorni, sarebbe stata la volta del ministro degli Esteri, ansioso di smarcarsi dall’ombra di Giuseppe Conte. “E a quel punto anche Nicola Zingaretti si accoderà”. Solo che poi la pandemia, col suo bollettino quotidiano, rischiava di mettere tutto in naftalina, com’era già accaduto a marzo. E poi la sessione di Bilancio sarebbe entrata nel vivo, e ogni manovra di Palazzo sarebbe diventata impensabile. E allora, ecco l’accelerazione: l’incidente da propiziare subito. Sulla riforma costituzionale e, se non basta, sulla mozione di Forza Italia per il Ponte sullo Stretto a cui i grillini si oppongono, e che sarebbe andata al voto poche ore dopo? Basta la prima delle due, per far precipitare gli eventi.

 

Anche perché, nel frattempo, pure nel Pd la tensione è oltre il livello di guardia.  Del resto la sera prima erano stati i grillini, con le loro assenze ingiustificate a far traballare la tenuta della maggioranza sulla Nadef. “E noi non possiamo stare qui a cantare e portare la croce”, sbottano allora i dem. Graziano Delrio si scambia due messaggi con Zingaretti e poi, subito dopo la defezione di Iv, riunisce i suoi deputati in un’assemblea che ha la sola funzione di formalizzare l’indisponibilità del Nazareno a proseguire su questa via: “Se le fibrillazioni del M5s non si placano, e Renzi persegue in questa sua ansia di visibilità, noi non possiamo assumerci la responsabilità di sostenere un governo chiamato ad affrontare sfide decisive senza una adeguata forza”, sentenzia il mite Walter Verini. E insomma prima Delrio, poi il vicesegretario Andrea Orlando, ci mettono cinque minuti a tirare in ballo il premier: “Spetta lui, ora, arrivare a un chiarimento”. E’ anche il desiderio di Zingaretti, tirare in ballo Conte? “Non si possono ignorare le divergenze di vedute, non si possono lasciare incancrenire i problemi”, sbuffano al Nazareno. “E il presidente del Consiglio deve farsi carico di questo compito”.

 

Lui, il premier, nel frattempo è a Bruxelles per il Consiglio europeo. Sa che stavolta non potrà ignorare la baruffa, liquidarla a semplice accidente marginale. Ma sa anche che sull’unica questione dove davvero si dovrebbe porre una parola di verità dove il sì e sì e il no è no, e cioè il Mes, Zingaretti non lo metterà alle strette. Perché è arrivata anche a Palazzo Chigi l’eco delle raccomandazioni che il segretario dem ha rinnovato mercoledì ai due capigruppo perché non forzassero troppo, nei loro discorsi in Aula, sul Fondo salva stati. E anche quel certo fastidio per la nettezza dei toni con cui il presidente emiliano Stefano Bonaccini ha invocato l’attivazione dei prestiti, pure quello è noto a Conte. Che d’altronde, nell’arte del troncare e sopire, dell’incassare col sorriso e far finta di niente, insomma nel tirare a campare per non tirare le cuoia, è maestro. Se il sì è sì e il no è no, è nel di più instillato dal maligno che anche le ansie di rimpasto s’annacquano.

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