PUBBLICITÁ

carroccio senza bussola

Così Giorgetti minaccia le dimissioni se Salvini non asseconda la svolta verso il Ppe

Il vertice romano e le fibrillazioni a Bruxelles. L'incognita sul congresso della Cdu. E il dubbio che il Capitano non possa liquidare la fronda no-euro

Valerio Valentini

La riunione con gli europarlamentari dovrebbe essere il primo passo verso un riposizionamento a Bruxelles. Ma il leader della Lega non vuole far dispiacere a Borghi e Bagnai, più combattivi che mai. "Ma se non si cambia, io lascio il ruolo di responsabile Esteri", dice il vicesegretario

PUBBLICITÁ

Non che qualcuno si aspetti che sia oggi, il giorno della svolta. E però certo un segnale Matteo Salvini dovrebbe darlo, per indicare l’inizio di un percorso ancora lungo, che nella mente del capo della Lega è al momento tutt’altro che definito, tutt’altro che irreversibile. E che invece, stando ai ragionamenti che il suo vice e consigliere va facendo da tempo, è l’unico che impedirebbe al Carroccio la condanna all’irrilevanza imperitura. E se è vero che la riunione che oggi i due terranno con la pattuglia di europarlamentari non sarà risolutiva ai fini del riposizionamento del partito nello scacchiere europeo, è anche vero che Giancarlo Giorgetti si attende che sia significativa di un nuovo corso. Altrimenti nei giorni passati non si sarebbe sfogato coi suoi più storici confidenti con toni così categorici e sconfortati al tempo stesso, arrivando a paventare le dimissioni da responsabile del dipartimento Esteri della Lega. Un incarico che l’ex sottosegretario alla Presidenza è intenzionato a ricoprire solo nella misura in cui può davvero esercitarne i poteri che ne derivano, con pieno mandato, “ché non è certo di uno strapuntino che ho bisogno”. 

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Non che qualcuno si aspetti che sia oggi, il giorno della svolta. E però certo un segnale Matteo Salvini dovrebbe darlo, per indicare l’inizio di un percorso ancora lungo, che nella mente del capo della Lega è al momento tutt’altro che definito, tutt’altro che irreversibile. E che invece, stando ai ragionamenti che il suo vice e consigliere va facendo da tempo, è l’unico che impedirebbe al Carroccio la condanna all’irrilevanza imperitura. E se è vero che la riunione che oggi i due terranno con la pattuglia di europarlamentari non sarà risolutiva ai fini del riposizionamento del partito nello scacchiere europeo, è anche vero che Giancarlo Giorgetti si attende che sia significativa di un nuovo corso. Altrimenti nei giorni passati non si sarebbe sfogato coi suoi più storici confidenti con toni così categorici e sconfortati al tempo stesso, arrivando a paventare le dimissioni da responsabile del dipartimento Esteri della Lega. Un incarico che l’ex sottosegretario alla Presidenza è intenzionato a ricoprire solo nella misura in cui può davvero esercitarne i poteri che ne derivano, con pieno mandato, “ché non è certo di uno strapuntino che ho bisogno”. 

PUBBLICITÁ

 

Insomma sente che è prossima l’ora delle decisioni irrevocabili, Giorgetti: e anche per questo s’è lamentato con parole d’insolita veemenza rispetto all’eccessiva accondiscendenza di Salvini nei confronti di Claudio Borghi e Alberto Bagnai, i due paladini dell’euroscetticismo nei confronti dei quali il segretario della Lega avverte come una sorta d’indelebile debito di riconoscenza (“Ché se non era per l’intuizione anti-euro di Borghi alle europee del 2014, non saremmo rimasti a galla”, ha ricordato Salvini a chi gli intimava di liquidare la premiata ditta del ritorno alla lira), e forse anche un inconfessato timore per quel che potrebbero combinare, e rivelare, nel caso di un siluramento troppo brusco. Solo che in questo apparente democristianesimo trucista, il Capitano tentenna troppo, asseconda i capricci e le intemperanze di B&B fino al punto di smentire, o delegittimare, gli sforzi in senso opposto di Giorgetti. Il quale sbuffa, mugugna, e talvolta minaccia. “Ma le dimissioni Giancarlo le mette sul tavolo da sempre”, dice chi lo conosce, raccontando di quando, tra giugno e luglio 2019, nelle settimane del grande pantano gialloverde, arrivò a meditare perfino di mollare Palazzo Chigi. 

 

PUBBLICITÁ

Sarà. Però stavolta davvero si percepisce la gravità del momento, tra i leghisti, se perfino i colonnelli che a Salvini hanno sempre rinnovato fedeltà incondizionata si pongono il dubbio sulla sua “permanenza in sella”. E devono sentirlo anche i grandi sovrintendenti alla comunicazione del partito, questo scricchiolio, se a ora di pranzo i parlamentari si vedono richiamati all’obbligo del silenzio dalla generalessa Iva Garibaldi: “Vista la delicatezza del momento se vi dovessero chiamare per interviste o dichiarazioni in vista della riunione di domani, meglio un profilo basso e no interviste”. Riunione a cui del resto gli stessi europarlamentari arrivano senza grandi aspettative, e ancor meno certezze, dopo un paio di settimane trascorse tra liti e fibrillazioni interne, con Giorgetti che si ritrovava a fare da frate confessore degli eletti di più lungo corso, che da Bruxelles gli scrivevano per lamentarsi dell’insostenibile irrilevanza a cui l’appartenenza al gruppo ultrasovranista di Identità e azione li condanna. E però non sarà una strambata intempestiva, a raddrizzare la rotta. Semmai, una complicata sostituzione della bussola. Innanzitutto nel metodo: Giorgetti chiede che la sua qualifica di responsabile degli Esteri sia effettiva, e dunque sia sulla base delle sue indicazioni che il gruppo prenda decisioni più o meno strategiche al Parlamento europeo. Verrà discussa anche la riconferma di Marco Campomenosi a capodelegazione: il leghista genovese, che pur senza entusiasmi ha condiviso nei mesi scorsi le escandescenze più euroscettiche di Marco Zanni e di Antonio Rinaldi, ha già annunciato di aver rimesso il suo mandato nelle mani di Salvini.

 

Ma più in generale, quello che negli auspici di Giorgetti dovrà delinearsi, a partire da oggi, è un percorso volto ad allontanare la Lega dal girone degli appestati, da quella chiassosa partecipazione al gruppo di Id che, dice l’ex sottosegretario a Palazzo Chigi, “ha senso solo se non vogliamo mai più andare al governo”. E siccome non è questo l’auspicio del vicesegretario della Lega, lui consiglierà di seguire con attenzione l’evoluzione del dibattito in seno alla Cdu in Germania: perché dagli esiti del congresso di quel partito, chiamato a scegliere il successore di Angela Merkel a dicembre, dipenderà molto del destino del Carroccio. Né se vincerà Friedrich Merz, candidato ultrarigorista, né se a spuntarla sarà Armin Laschet, più in sintonia con la svolta innovatrice dell’ultima Merkel, ci saranno reali possibilità per la Lega di intessere un dialogo col Ppe. Per questo Giorgetti tifa per Markus Söder, il presidente bavarese e leader della Csu: l’unico che, da riferimento dei popolari europei, potrebbe riscattare il destino del Carroccio. 

 

Che certo, però, nell’attesa che gli eventi si compiano in Germania, deve pure trovare una sua stabilità di vedute d’azione a Roma e dintorni. E infatti ieri, mentre nelle riunioni di retrobottega i capigruppo Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo lasciavano intendere ai loro omologhi del Pd che erano pronti a non votare contro sulle linee guida per il Recovery fund in vista della risoluzione di oggi, al tempo stesso veniva assegnato al prode Borghi il compito di esplicitare la dichiarazione di voto sul decreto “agosto” nell’Aula di Montecitorio. E lui ci teneva a ribadire che, siccome la Bce crea denaro dal nulla, il debito pubblico dei singoli paesi non è un problema: “E allora a cosa serve il Mes?”, tuonava. “A cosa ci serve il Recovery fund, che ci porterà forse qualche spicciolo, l’anno prossimo, se ci sarà la benevolenza degli olandesi”. Non proprio il massimo, come nuovo inizio.

PUBBLICITÁ
Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ