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Il retroscena

M5s e gli Stati generali: "I quesiti? Già scritti". E non si voterà sul terzo mandato

La difficile trattativa tra le anime grilline in guerra. Il figlio di Gianroberto per una volta non deciderà il testo su cui interrogare la base. Sul tavolo: la leadership e il rapporto con il Pd.

Simone Canettieri e Luciano Capone

La democrazia diretta si basa sulle domande e non sulle risposte. E a scriverle non sarà più Casaleggio. Ma Rousseau rimarrà centrale

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Una vocina rimbalza sui cellulari: “Tanto i quesiti sono stati già scritti. Ci saranno la domanda su capo politico o gestione collegiale e poi il tema dell’alleanza organica con il Pd. E’ tutto già deciso, altro che Stati generali e coinvolgimento degli attivisti”. Davide Casaleggio, e il mondo che ruota intorno al presidente di Rousseau, sembra essere rassegnato. A ventiquattro ore dall’annuncio di Vito Crimi c’è un pezzo di M5s che smonta il grande evento, il primo congresso dei grillini. Nonostante la guerra sia ancora in corso, c’è un accordo di massima: l’ultima parola passerà dagli iscritti, ma non si metterà ai voti la deroga del secondo mandato né il divorzio da Rousseau. Questi sono i patti e le concessioni delle ultime ore per evitare il big bang. Reggerà l’intesa? Allo stesso tempo, i cosiddetti governisti sarebbero riusciti a imporre i testi dei quesiti: la chiave della tanto decantata democrazia diretta. Il problema infatti è proprio questo, e la storia di Rousseau lo insegna: dipende tutto da come vengono scritte le domande e il voto degli iscritti è una banale conseguenza. Una pratica evidente, che è stata candidamente confermata proprio dal capo politico Vito Crimi costretto ad ammettere in una recente intervista che “in passato” i quesiti, scritti sempre dopo un confronto con Casaleggio, erano spesso posti in modo “suggestivo”.

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Una vocina rimbalza sui cellulari: “Tanto i quesiti sono stati già scritti. Ci saranno la domanda su capo politico o gestione collegiale e poi il tema dell’alleanza organica con il Pd. E’ tutto già deciso, altro che Stati generali e coinvolgimento degli attivisti”. Davide Casaleggio, e il mondo che ruota intorno al presidente di Rousseau, sembra essere rassegnato. A ventiquattro ore dall’annuncio di Vito Crimi c’è un pezzo di M5s che smonta il grande evento, il primo congresso dei grillini. Nonostante la guerra sia ancora in corso, c’è un accordo di massima: l’ultima parola passerà dagli iscritti, ma non si metterà ai voti la deroga del secondo mandato né il divorzio da Rousseau. Questi sono i patti e le concessioni delle ultime ore per evitare il big bang. Reggerà l’intesa? Allo stesso tempo, i cosiddetti governisti sarebbero riusciti a imporre i testi dei quesiti: la chiave della tanto decantata democrazia diretta. Il problema infatti è proprio questo, e la storia di Rousseau lo insegna: dipende tutto da come vengono scritte le domande e il voto degli iscritti è una banale conseguenza. Una pratica evidente, che è stata candidamente confermata proprio dal capo politico Vito Crimi costretto ad ammettere in una recente intervista che “in passato” i quesiti, scritti sempre dopo un confronto con Casaleggio, erano spesso posti in modo “suggestivo”.

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Alla fine la disputa su chi abbia il diritto di decidere cosa chiedere è un punto fondamentale nella dinamica del partito, perché in questa concezione di “democrazia diretta” il potere non ce l’ha tanto chi risponde (gli iscritti) ma chi fa le domande (il capo politico o di Rousseau): i primi perlopiù ratificano, mentre i secondi stabiliscono cosa, come e quando far deliberare. Fu così anche quando si chiese alla piattaforma di ratificare l’accordo con il Pd per far nascere il Conte 2. Stesso discorso quando si compulsò la base sull’autorizzazione a procedere nei confronti Matteo Salvini per il caso Diciotti. Nella storia del Movimento l’indirizzo scelto dal vertice è sempre stato ratificato dal popolo certificato grillino, grosse sorprese non ce ne sono mai state. E, in ogni caso, per escludere questa evenienza lo statuto del partito prevede che, nel caso la decisione presa dalla base degli iscritti non piaccia, il vertice può annullare la votazione e farla ripetere: “Entro cinque giorni, decorrenti dal giorno della pubblicazione dei risultati sul sito dell’Associazione – c’è scritto all’articolo 4 – il Garante o il Capo Politico possono chiedere la ripetizione della consultazione, che in tal caso s’intenderà confermata solo qualora abbia partecipato alla votazione almeno la maggioranza assoluta degli iscritti ammessi al voto”.

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Accade con Marika Cassimatis, candidata a Genova e poi scalzata dopo un intervento a gamba tesa di Beppe Grillo. Siccome l’affluenza superiore al 50 per cento è rarissima, una decisione contraria alla volontà del vertice è difficile da far passare. Lo scontro di potere, quindi, si gioca in gran parte attorno a queste questioni procedurali: chi dirige la “democrazia diretta”. In teoria, la faccenda dovrebbe essere già stabilita da tempo. Perché sia il M5s sia Casaleggio hanno sempre detto pubblicamente che il capo assoluto di Rousseau era un semplice “tecnico”, uno che “dà una mano”. Ciò che la dirigenza (e soprattutto la pancia parlamentare) del M5s vuole imporre a Casaleggio e ciò che lui non vuole accettare è proprio questo ruolo marginale, quello che entrambi ipocritamente da sempre declamano in pubblico, pur sapendo che il figlio di Gianroberto ha un ruolo determinante nella vita del partito. Ora nel movimento, principalmente tra i parlamentari stanchi dello strapotere e della scarsa trasparenza del capo di Rousseau, in tanti vogliono costringerlo a sottoscrivere un contratto di servizio. Proprio come si farebbe con un “tecnico informatico”: il partito paga per un servizio e il fornitore esegue.

 

Ma è esattamente ciò che Casaleggio non può permettersi di accettare. Sarebbe la fine del suo ruolo nel movimento, al momento blindato dall’intreccio di statuti tra l’Associazione Rousseau e M5s di cui lui stesso è autore. L’anticamera di un vaffa che il “tecnico informatico” scongiura e contro cui è pronto a combattere con le unghie e con i denti. Alla fine anche dalle parti di Luigi Di Maio ammettono che “si troverà un’intesa con Davide”. E dunque altro che scissioni con strascichi in tribunale, altro che migrazioni degli iscritti (custoditi da Rousseau) verso nuove piattaforme similari. Niente di tutto questo, niente di più difficile. Meglio trovare un’intesa, che in fin dei conti non piace a nessuno dei litiganti ma che tiene unito il partito, costretto finché dura la legislatura a vivere insieme. In questo film mancano però ancora le parti che reciteranno Alessandro Di Battista e tutti gli altri difensori dell’ortodossia (da Max Bugani a Barbara Lezzi). Per il momento tacciono. E in privato, dopo le telefonate con Casaleggio, sbuffano, ma forse sanno solo una parte della storia: “I quesiti sono stati già decisi”. Un modo, forse, per iniziare a raffreddare il conflitto. Ma manca ancora un mese a novembre. E soprattutto latitano le regole d’ingaggio della partita. Particolari della democrazia diretta dove contano le domande e non le risposte.

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