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la stabilità dell'immobilismo

La fretta di Zingaretti sul Mes s'impiglia nella trama di Conte e Franceschini

La riunione dei ministri del Pd ha creato tensioni al Nazareno. Così Gualtieri s'è ritrovato stretto tra il segretario e il premier: “Col Mes risparmiamo 4 miliardi, ma non c’è fretta”, dice

Valerio Valentini

Il segretario del Pd vorrebbe forzare, ma i suoi ministri frenano. "Non ci accaniamo", dice il capodelegazione dem. La fronda dei 5s al Senato. La contropartita sulle riforme costituzionali

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Chi lo ha visto trattenere un sospiro, lunedì mattina, fare buon viso a cattivo gioco mentre Roberto Gualtieri predicava cautela sul Mes, dice che Nicola Zingaretti ha evitato ogni polemica. E però subito dopo, terminata la riunione in videoconferenza con i suoi ministri e i suoi capigruppo, nel privato delle conversazioni con alcuni di loro, coi più scettici tra loro sull’esercizio di prudenza in cui s’era appena provato il capo del Mef, non ha trattenuto un accesso di nervosismo. E a chi bollava il ragionamento di Gualtieri come “allucinante”, o “demenziale”, ha predicato una calma un po’ inacidita: “Non posso mica mettermi a polemizzare con Roberto, ora”. 

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Chi lo ha visto trattenere un sospiro, lunedì mattina, fare buon viso a cattivo gioco mentre Roberto Gualtieri predicava cautela sul Mes, dice che Nicola Zingaretti ha evitato ogni polemica. E però subito dopo, terminata la riunione in videoconferenza con i suoi ministri e i suoi capigruppo, nel privato delle conversazioni con alcuni di loro, coi più scettici tra loro sull’esercizio di prudenza in cui s’era appena provato il capo del Mef, non ha trattenuto un accesso di nervosismo. E a chi bollava il ragionamento di Gualtieri come “allucinante”, o “demenziale”, ha predicato una calma un po’ inacidita: “Non posso mica mettermi a polemizzare con Roberto, ora”. 

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E sì che forse ne avrebbe voglia, il segretario. Un po’ perché i tentennamenti del titolare di Via XX Settembre sull’attivazione del Mes arrivano a scombinare una narrazione che voleva il Pd, rinfrancato dal successo delle regionali, finalmente risoluto nel dettare l’agenda di governo. E un po’ perché, in quelle parole di Gualtieri, Zingaretti non deve avere faticato a scorgerci una trama dell’attendismo intessuta tra il ministro dell’Economia e il premier Giuseppe Conte, con la mediazione del solito Dario Franceschini, stabilizzatore per vocazione, che non a caso va ripetendo che, “se otteniamo la modifica dei ‘decreti Sicurezza’, non possiamo accanirci anche sul Mes”. Perché poi, in fin dei conti, è questo il punto: la tenuta del M5s. 

 

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Certo, ci sono anche scrupoli di natura tecnica. E infatti Maria Cecilia Guerra, sottosegretario al Mef in quota Leu, pur ribadendo come sia “fondamentale stabilire le priorità di rilancio del nostro sistema sanitario investendo in ricerca e territorialità”, spiega che “sarebbe sbagliato pensare che il Mes semplicemente ci consentirebbe di aggiungere 36 miliardi di debito ai 127 miliardi di prestiti che attiveremo col Recovery plan”. E insomma dà voce, la Guerra, a perplessità diffuse tra le stanze del ministero, dove certi toni barricaderi dal fronte del “Sì Mes” sono parse un po’ preoccupanti, per ciò che riguarda la tenuta dei conti. E però, al netto degli eccessi d’entusiasmo, la convenienza c’è tuttora. E infatti lo stesso Gualtieri, nel summit di governo dem, ha ribadito che sì, non essendoci problemi di cassa si può anche rimandare l’attivazione del Mes, ma che comunque il risparmio stimato rispetto alle forme tradizionali di finanziamento s’aggira  intorno ai 400 milioni all’anno. Sull’intero arco della durata dei prestiti, fanno quasi quattro miliardi.  

 

Insomma, si capisce che le preoccupazioni di Gualtieri hanno una sostanza tutta politica. Che ha a che vedere con la pattuglia d’irriducibili del M5s al Senato: quelli guidati, tra gli altri, dall’indomita Barbara Lezzi. La quale, in sintonia con Alessandro Di Battista, ha fatto sapere che “sul Mes sarà un bagno di sangue”. E forse c’è della millanteria, nella sua asserita capacità di controllare “almeno sette o otto voti”, ma la paura di chi, nel Pd, non vuole forzare la mano, legittima in fondo la spavalderia dell’ex ministra. E così, anche se nel gruppo dei senatori dem c’è chi, come il presidente della commissione Affari europei Dario Stefano, morde il freno (“Saranno le regioni a ricordarci che il Mes è irrinunciabile”, ci dice), al Nazareno hanno deciso di evitare prove muscolari. E non solo perché quella pattuglia di oltranzisti grillini – eccitata peraltro anche dalle manovre in corso per la scelta del nuovo capogruppo – potrebbe bastare per far mancare i numeri della maggioranza, costringendo a un’affannosa apertura a Forza Italia; ma anche perché, nell’ottica di tanti ministri del Pd, l’egemonia del riformismo sul populismo va affermata senza imposizioni né umiliazioni nei confronti di un alleato con cui bisogna mantenere un dialogo sereno, oltreché un Cdm.

 

Semmai, la richiesta di accelerazione al M5s è stata avanzata sul terreno delle riforme costituzionali e dei correttivi al taglio dei parlamentari. Anche per questo, ieri mattina, il ministro grillino Federico D’Incà ha riunito i suoi deputati della commissione Affari costituzionali: per fare un punto della situazione sulle riforme già incardinate, e per accennare anche a quella che il Pd ha preso a invocare, e cioè il superamento del bicameralismo.  Del resto, se la politica ha una logica, questo  vitalismo zingarettiano dovrà pure trovare uno sfogo, in attesa che arrivi dicembre. “Perché a dicembre lo chiediamo davvero, il Mes”, dicevano ieri gli uomini del segretario. “Già nei documenti preliminari della legge di Bilancio dovrà esserci l’apertura al Mes”, precisava Andrea Orlando. Ma dicembre, visto dall’agriturismo romano in cui i ministri grillini lunedì si sono rintanati in cerca della loro bussola smarrita, doveva sembrare lontanissimo.
 

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