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Così Conte sferza Bonafede sui servizi segreti: "I capi delegazione sapevano"

Il premier, al Copasir, risponde alle critiche grilline sul presunto blitz agostano per il rinnovo dei vertici dell'intelligence

Valerio Valentini

In audizione al Copasir, il premier replica ai grillini arrabbiati per non essere stati avvisati della riforma dei vertici dell'intelligence. Immagine di un Movimento allo sbando su cui Conte, seppur inamovibile, deve fare affidamento per non restare immobile

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La battuta l’ha lasciata cadere un po’ così, quasi inconsapevole, forse, dell’effetto che avrebbe prodotto, tanto più se pronunciata in una sede dove le parole hanno un peso diverso che altrove. “I capi delegazione sapevano, con loro avevo condiviso la scelta”, ha detto Giuseppe Conte durante la sua audizione al Copasir. E la frecciata era rivolta al suo allievo prediletto, da cui di fatto è stato accompagnato sul proscenio della politica romana e di lì a Palazzo Chigi, quell’Alfonso Bonafede che del resto a buona parte dei deputati e dei senatori appare come un’entità astratta, presenza impalpabile.

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La battuta l’ha lasciata cadere un po’ così, quasi inconsapevole, forse, dell’effetto che avrebbe prodotto, tanto più se pronunciata in una sede dove le parole hanno un peso diverso che altrove. “I capi delegazione sapevano, con loro avevo condiviso la scelta”, ha detto Giuseppe Conte durante la sua audizione al Copasir. E la frecciata era rivolta al suo allievo prediletto, da cui di fatto è stato accompagnato sul proscenio della politica romana e di lì a Palazzo Chigi, quell’Alfonso Bonafede che del resto a buona parte dei deputati e dei senatori appare come un’entità astratta, presenza impalpabile.

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Impalpabilissima, poi, risulta agli occhi di Federica Dieni, che da tempo ha ribattezzato Bonafede “il capo delegazione che delega”. E insomma in quel momento, al cospetto del premier, la capogruppo grillina al Copasir s’è sentita un po’ cadere le braccia. Perché proprio lei, a inizio settembre, ha capeggiato la sedizione che ha portato una cinquantina dei deputati del M5s a firmare contro il blitz agostano di Giuseppe Conte, che ha inserito la modifica dei termini di scadenza del rinnovo dei vertici dei servizi segreti in un decreto che parlava di tutt’altro. Roba da psicodramma a cinque stelle, nell’Aula di Montecitorio, e di cui però Conte aveva informato per tempo il Consiglio dei ministri. “I capi delegazione sapevano”, appunto. E spettava a loro comunicare ai rispettivi gruppi parlamentari. E così ha fatto Dario Franceschini, così hanno fatto Roberto Speranza e Teresa Bellanova. E Fofò, invece, che fa?

 

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Ecco, perfino in queste semplici trafile di messaggi, perfino su argomenti così delicati, nel M5s si creano delle falle. Immagine icastica di un partito allo sbando, dove la catena di comando, e pure quella della comunicazione, è un garbuglio di inconcludenze, di incapacità, di risentimenti personali. E così Conte, che proprio su quel partito dovrebbe fare affidamento, si ritrova costretto a dover camminare sul filo. Specie ora, che essendo diventato inamovibile, non può più permettersi di restare immobile. E glielo ha ricordato anche Nicola Zingaretti, indicando  con inedita perentorietà che l’agenda di governo (e forse non solo quella) va cambiata, a partire dal Mes e dai decreti “sicurezza”. E certo, dipendesse da Conte, figurarsi: todo modo para buscar il 2023. Solo che anche a Conte tocca lo stesso ingrato destino di tutti i supposti leader del M5s: e cioè che, da capi, finiscono col seguire i loro seguaci. E insomma lui ci prova, a condividere una linea con Di Maio: “Gliel’ho spiegato che non si può continuare a dire solo di No”, ha confessato il premier ai ministri del Pd che lo interrogavano sul tema. Ma quello, niente: fa spallucce, attende che sia Giuseppi ad aprire al Mes, così da potere, in caso, additarlo al linciaggio degli oltranzisti esagitati.

 

Tipo Dibba, per capirci: che ieri infatti è tornato, come da copione, a sparacchiare a casaccio contro tutti, perfino contro Di Maio, dicendo che pure quando c’era lui, si parva licet, “il Movimento ha dimezzato i suoi voti”. E dunque ora Dibba, che fino all’altro ieri era  il pretoriano di Casaleggio (e dunque di Rousseau), ora si ritrova a invocare, pur di imbonire i parlamentari furenti che possono tornare utili nella guerra contro Di Maio & co., gli Stati generali partecipati, modello congresso di partito, “senza blitz”. “Evidentemente si è convinto della bontà delle nostre tesi”, sorride Dalila Nesci, promotrice di un appello che ha già raccolto una quarantina di deputati e senatori arrabbiati e che fino a qualche settimana va veniva guardata come un’appestata. Ora che la sua dissidenza torna buona, invece, in tanti la cercano, in tanti la blandiscono. “Quel che è certo – dice lei, compiaciuta – è che non si potranno fare su Rousseau, gli Stati generali”. Per dire di come pure le faide, nel M5s, sono una fanfara scombiccherata di schieramenti che si rimescolano nello spazio di una diretta Facebook, tra una Paola Taverna che urla e una Barbara Lezzi che strepita, un Vito Crimi che predica calma e uno Stefano Patuanelli che mette fretta e un Roberto Fico che un po’ da presidente della Camera e un po’ da leader di partito invoca sia la calma sia la fretta, tra un Di Maio che apre alle alleanze territoriali e un Dibba che chiude alle alleanze territoriali, metti la cera togli la cera. E i capigruppo di Camera e Senato convocano per giovedì una riunione ufficiale, ma il deputato lombardo Currò organizza per martedì sera una riunione ufficiosa con una ventina di malpancisti. Così: ad abundantiam. E poi c’è Fofò, appunto. Il capo delegazione che sa, ma non dà le prove.
 

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