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giggino 'a marachella

Così Di Maio usa la partita sui Servizi segreti per tendere la trappola a Conte

Valerio Valentini

La proroga dei vertici dell'intelligence si trasforma in una contesa politica. Gli uomini del ministro degli Esteri trasformano la Camera in un Vietnam. Lo sconcerto di Palazzo Chigi. I giochi pericolosi a Piazza Dante

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Roma. Lei che per prima ha acceso la miccia, ora si schermisce: “La mia non era certo una mossa contro Giuseppe Conte”, dice Federica Dieni. E forse, chissà, è pure sincera. Solo che sulle sue supposte buone intenzioni, qualcuno nel M5s ha provato a speculare. Mani più abili, di quelle della deputata calabrese. Mani che si muovono dentro la Farnesina, imbeccate a loro volta da menti più raffinate, che usano l’ingenuità della truppa parlamentare per mandare un segnale a Palazzo Chigi, per tribolare ancora un poco l’umore già guasto del premier. 

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Roma. Lei che per prima ha acceso la miccia, ora si schermisce: “La mia non era certo una mossa contro Giuseppe Conte”, dice Federica Dieni. E forse, chissà, è pure sincera. Solo che sulle sue supposte buone intenzioni, qualcuno nel M5s ha provato a speculare. Mani più abili, di quelle della deputata calabrese. Mani che si muovono dentro la Farnesina, imbeccate a loro volta da menti più raffinate, che usano l’ingenuità della truppa parlamentare per mandare un segnale a Palazzo Chigi, per tribolare ancora un poco l’umore già guasto del premier. 

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D’altronde, il peccato originale da cui nasce questa intricata vicenda sta proprio in una mossa falsa di Conte, subito intercettata dai consiglieri di Luigi Di Maio: “Voler procedere alla riforma dei Servizi segreti così, inserendo la proroga del mandato dei vertici delle nostre intelligence in un emendamento estemporaneo nel decreto Agosto che affronta i problemi legati al Covid, è stato un azzardo”. E allora alla Farnesina, già a inizio agosto, certe mani cominciano a muoversi. Istigate, peraltro, da chi, ai piani alti dei nostri Servizi, intravede lo spazio per una partita più ardita. Perché, senza questa riforma che consente di rinnovare l’incarico ai capi delle agenzie oltre i quattro anni fissati per legge, la proroga di Mario Parente alla guida dell’Aisi non verrebbe sanata; e a quel punto gli equilibri politici dentro Piazza Dante verrebbero terremotati, e il Pd non potrebbe che opporsi alla riconferma di Gennaro Vecchione, il più fidato degli uomini di fiducia di Conte, a capo del Dis, prevista a fine novembre.

 

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Giochi pericolosi, che corrono sui fili dell’alta tensione, all’ombra dei quali si consuma una guerra più misera, tutta politicistica, tutta rattrappita nella tattica contingente, che vede Di Maio interessato a complicare la vita del premier in ogni modo possibile, sapendo che su quel terreno dell’intelligence, scivoloso quant’altri mai, qualsiasi passo falso può essere esiziale per un presidente del Consiglio che da tempo, contravvenendo ai suggerimenti dei ministri del Pd, s’ostina a mantenere la delega ai Servizi.

 

E allora quando Federica Dieni, rappresentante del M5s nel Copasir, s’impunta sulla questione di principio (“Su un tema così delicato, non si può aggirare il dibattito d’Aula”), gli uomini del ministro degli Esteri a Montecitorio s’attivano per orchestrare il blitz. Coi soliti noti in prima fila, a tessere la tela: Luigi Iovino, giovane rampante del grillismo campano, Michele Gubitosa, Cosimo Adelizzi. Insieme a loro si schierano i tanti animati dal risentimento per uno sgarbo subito: e allora ecco Marta Grande, rimossa poche settimane fa dalla presidenza della commissione Esteri, ecco Emilio Carelli, a cui ancora brucia la mancata nomina in AgCom. Inizia il martellamento in chat, già lunedì: “La nostra esperta di Servizi, la Dieni, dice che bisogna sostenere questo suo emendamento”. Emendamento che di fatto stralcia la riforma voluta da Conte. In poche ore sono cinquanta le firme dei deputati grillini: alcuni convinti, altri inconsapevoli (Battelli e Del Grosso, fiutata l’aria, si chiameranno fuori dalla conta), altri chissà.

 

Ma il senso politico dell’operazione, in ogni caso, è chiaro. E allora Vito Crimi, il reggente per caso, convoca nella mattinata di martedì una riunione in videocall: dovrebbe servire a far desistere i ribelli, e invece diventa un rodeo. La Dieni gli urla contro, Angelo Tofalo – sottosegretario alla Difesa, e uno dei referenti grillini di quei mondi che gravitano intorno a Piazza Dante – usa toni ancor più sprezzanti. Volano parole grosse, non esattamente ripetibili, contro il capo politico. Che si ritrova con le spalle al muro: “Noi quell’emendamento lo portiamo in Aula, Vito. Fate un po’ quel che volete”. 

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L’unica cosa da fare, però, è avvertire Conte. Che si sente col ministro dei Rapporti col Parlamento Federico D’Incà. “Presidente, qui andiamo sotto, non la reggiamo”, “Allora mettiamo la fiducia”. Che però è come gettare la benzina sul fuoco della protesta dei deputati grillini, che arrivano perfino a sondare gli ex alleati della Lega: “Ce la date una mano?”. A quel punto D’Incà si convince. Si vota la fiducia al decreto senza discutere gli emendamenti. La Dieni s’alza in Aula, esprime il suo dissenso. Metà gruppo del M5s la applaude, applaude cioè chi voleva fare lo sgambetto a Conte. “Quì è sempre la solita storia”, si lamenta Emanuela Corda. “Cosa fa il nostro capogruppo”, insiste Mattia Fantinati. E poi anche la Grande, la Siragusa, la Martinciglio: tutti a sfogarsi in chat contro la tagliola della fiducia. “Se passa così – chiosa la Dieni – in futuro sarà anche peggio. Zittire 50 persone in questo modo non ha precedenti”. Ma non ce l’ha neppure un partito di maggioranza relativa che decide di minare il terreno del suo premier. A meno che, alla Farnesina, quelle mani operose non abbiano già deciso che a settembre, dopo le regionali, ci dovrà essere la resa dei conti.

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