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No, il riformismo non può accontentarsi del “menopeggismo”

Enrico Morando

Dopo un anno di governo Conte, il Pd ha il dovere di trovare un’alternativa vera a un’identità costruita contro qualcuno

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Si sta facendo una gran confusione tra riformismo e pragmatismo. Fino al punto di ridurre il primo alla ricerca del “meno peggio”. Vorrei provare a discuterne, partendo dai dati reali della situazione italiana e da una serie di spunti offerti anche su questo giornale da Goffredo Bettini. Per rendere produttivo l’esercizio, sarà bene uscire preliminarmente da un equivoco: un atteggiamento pragmatico – l’attitudine a guardare con il massimo di distacco possibile ai dati della realtà, al fine di approfittare di ogni occasione si presenti per il perseguimento del proprio scopo – può essere proprio sia dei riformisti sia degli estremisti massimalisti. Così come lo è stato dei comunisti: Togliatti era un convinto sostenitore dell’alternativa di sistema al capitalismo, ma è difficile trovare nella vicenda italiana del novecento un leader politico altrettanto realista e capace di adattare pragmaticamente la propria iniziativa al mutare del contesto e dei rapporti di forza, nella società e nelle relazioni tra le forze politiche. 

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Si sta facendo una gran confusione tra riformismo e pragmatismo. Fino al punto di ridurre il primo alla ricerca del “meno peggio”. Vorrei provare a discuterne, partendo dai dati reali della situazione italiana e da una serie di spunti offerti anche su questo giornale da Goffredo Bettini. Per rendere produttivo l’esercizio, sarà bene uscire preliminarmente da un equivoco: un atteggiamento pragmatico – l’attitudine a guardare con il massimo di distacco possibile ai dati della realtà, al fine di approfittare di ogni occasione si presenti per il perseguimento del proprio scopo – può essere proprio sia dei riformisti sia degli estremisti massimalisti. Così come lo è stato dei comunisti: Togliatti era un convinto sostenitore dell’alternativa di sistema al capitalismo, ma è difficile trovare nella vicenda italiana del novecento un leader politico altrettanto realista e capace di adattare pragmaticamente la propria iniziativa al mutare del contesto e dei rapporti di forza, nella società e nelle relazioni tra le forze politiche. 

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E, già che ci siamo, lasciamo perdere anche le reciproche accuse di ideologismo: le ideologie ben intese hanno avuto e conservano grande fecondità, perché forniscono a chi ne assuma criticamente un proprio riferimento e un punto di vista sulla realtà, senza il quale l’iniziativa politica finisce per ridursi a movimentismo sconclusionato; e una chiave interpretativa utile anche per lo sviluppo del confronto/conflitto politico-culturale tra e nei partiti (un esempio per tutti: le attuali correnti interne al Pd, che nascono e muoiono sulle carriere di capi e capetti, sono assolutamente imprevedibili nel loro comporsi e scomporsi, proprio perché prive di qualsiasi riferimento ideologico).

 

Detto questo, guardiamola in faccia questa realtà italiana: da quasi trent’anni la nostra economia perde terreno rispetto alla media dell’area Euro (ne ho lungamente scritto nel libro curato da Claudia Mancina per la Fondazione PER “Il futuro è della sinistra liberale”). Poiché all’origine di queste difficoltà economiche – a loro volta causa ed effetto di diffuse sofferenze sociali e di crescente disuguaglianza – c’è il cattivo andamento della produttività (in buona sostanza, la capacità del sistema di produrre cose e servizi che siano appetiti dai consumatori, combinando capitale, lavoro e materie prime)… E poiché a determinare questo deficit di produttività contribuiscono in modo determinante la decrescita demografica, l’arretratezza tecnologica di larga parte delle nostre imprese, le insufficienti performance delle infrastrutture materiali (reti stradali, energetiche, delle telecomunicazioni) e immateriali (giustizia, istruzione, istituzioni pubbliche), non abbiamo alternative: o il cambiamento radicale, in tutti questi campi, o il declino (a questo punto, neppure troppo lento). La pandemia aggrava ognuno di questi problemi. Ma nessuno di essi si è creato a causa della pandemia stessa.


E’ stato giusto dar vita al governo giallorosso. Ma l’Italia può tornare a crescere solo se Pd e Iv non si priveranno di un progetto che collochi l’attuale esperienza in un nuovo orizzonte. Nella consapevolezza che la pandemia aggrava i problemi italiani. Ma nessuno di essi si è creato a causa della pandemia stessa 


Il compito dei riformisti discende da questa difficile “realtà”. Esattamente come in questa realtà – anche a causa della storica debolezza e delle divisioni dei riformisti italiani – affonda solide radici il populismo. Quello di destra e quello di sinistra. Diversi per motivazioni, radicamento e obiettivi – diversità che sarebbe stupido, da parte dei riformisti, ignorare o addirittura nascondere – essi sono tuttavia simili (uniti? A volte) su di un punto fondamentale: perennemente alla ricerca di “colpevoli” cui imputare gli aspetti sgradevoli della realtà, essi privilegiano il brevissimo termine, e rifiutano il tempo lungo delle soluzioni “strutturali”: Quota 100, la revoca delle concessioni autostradali… Ecco le loro risposte “giuste”, non la legge Fornero, l’APE social e la “gronda” di Genova. Non è vero che – negli anni che ci stanno immediatamente alle spalle, dal primo governo Prodi fino ai governi di Letta, Renzi e Gentiloni – non si siano realizzate riforme “vere”, in campi anche rilevanti. E’ vero però che i riformisti italiani non sono mai stati in grado di dar vita ad una lunga e stabile stagione di governo riformista, secondo la sequenza: progetto di cambiamento, costruzione sullo stesso di attivo consenso popolare, vittoria elettorale, governo per l’attuazione del progetto, ricandidatura, nuova vittoria elettorale… Ed è vero che, alla fine, fuori da questa sequenza, sono sempre stati i conservatori a prevalere: sia perché il cambiamento necessario mobilità, subito e massicciamente, quanti si sentono minacciati nelle loro piccole o grandi rendite di posizione, mentre resta a lungo passiva la grande maggioranza dei cittadini, che potranno un domani lontano godere dei buoni frutti della riforma. Sia, soprattutto, perché le riforme una ad una, senza una visione – e una leadership individuale e collettiva (il partito riformista a vocazione maggioritaria), che la elaborino e la incarnino in un continuo confronto coi cittadini, per suscitarne l’impegno – possono magari incontrare un diffuso consenso (lo hanno fatto il Jobs Act e la riduzione strutturale dell’Irpef sul lavoro dipendente a reddito basso), ma non “scaldano i cuori” e non indicano una meta per cui valga la pena spendersi.

 

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Per innescare la sequenza virtuosa, non ci sono scorciatoie: partito riformista a vocazione maggioritaria, che seleziona la leadership e la linea con l’intervento di milioni di elettori (si sceglie il leader del Paese, non solo del partito) e che si dà una chiara “visione” del suo futuro, un coerente progetto per il governo, da conquistare in una dura competizione con i conservatori e i populisti. “Liberalismo massimalista appeso al nulla”, si direbbe, che metterebbe i riformisti, “fuori dal corso dell’odierna fase storica”, perché nel 2008, con Veltroni “si impiantò nella società italiana un grande partito a vocazione maggioritaria…”, mentre “oggi non è così”? Sinceramente, penso sia vero il contrario: se il Pd – l’unico partito riformista che può credibilmente nutrire l’ambizione ad essere partito a vocazione maggioritaria – trasforma il contingente stato di necessità (un governo col M5S, diretto dal capo del governo Salvini-Di Maio, per impedire il precipizio verso i “pieni poteri” di Salvini), in una scelta strategica, e progetta di delegare ad altri la “rappresentanza dell’elettorato riformista e moderato, oggi disperso e senza guida…”, c’è il rischio che l’esigenza di cambiamento del paese resti per lungo tempo senza un interprete credibile. Vorrei essere chiaro: penso che sia stato giusto dar vita al governo giallorosso e che sia indispensabile l’impegno dei riformisti per far sì che esso completi la sua esperienza e ottenga i migliori risultati per l’Italia. Ma penso che questi risultati saranno molto al di sotto del minimo indispensabile se il PD e IV si priveranno (e priveranno gli italiani) di un progetto politico che collochi l’attuale esperienza in un orizzonte strategico che la superi, anche attraverso un riequilibrio degli attuali rapporti di forza parlamentari ed elettorali, tra M5S e Pd.

 

Che le cose stiano così, è dimostrato proprio dalla cocciuta realtà… dei fatti. Dov’è che, nel passaggio tra Conte uno e Conte due, si è ottenuta una svolta netta, compresa come tale da tutti gli italiani (che la giudicassero positiva o negativa) e dagli osservatori di tutto il mondo? La risposta è facile e immediata: in tema di rapporto tra Italia e Unione Europea. Esattamente il tema sul quale il posizionamento del Pd e dei riformisti italiani è più netto e ha rilievo strategico: nessuna salvezza fuori dall’Europa. Che nel M5S le resistenze fossero formidabili, è reso ancora oggi evidente dalla imbarazzante vicenda della richiesta dei fondi MES per ristrutturare il sistema sanitario nazionale. Ma queste resistenze sono state vinte – e, alla fine, lo saranno anche sul MES – perché anche i dirigenti del M5S sapevano che il Pd “non poteva” dar vita a un governo che contraddicesse la sua natura di partito europeista. Nessun altra delle questioni in campo – con l’eccezione del tema “prescrizione mai” – aveva e ha carattere altrettanto strategico. E’ stato dunque giusto, su altri temi, accontentarsi anche del “meno peggio”. Che non c’entra col riformismo, ma va tenuto in considerazione, quando non si ha il pallino del gioco in mano. Ma questo non può e non deve diventare l’orizzonte strategico dei riformisti. Non per compiacere se stessi e il loro “riformismo ideologico”, ma per non privare il paese anche della speranza.

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