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La capriola di Di Maio

Valerio Valentini

Ora Giggino si mette con Conte e Grillo contro Dibba e Casaleggio. Se non fosse l’M5s ci sarebbe anche un senso

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Se la politica davvero c’entrasse qualcosa, col M5s, allora si direbbe che da ieri Luigi Di Maio ha deciso di aderire alla linea di Giuseppe Conte, che è poi quella indicata tempo addietro da Beppe Grillo, e che insomma bisogna ancorare il grillismo nel campo progressista, avviare quel percorso che lo vedrebbe stringere nei prossimi mesi un’alleanza organica col Pd.

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Se la politica davvero c’entrasse qualcosa, col M5s, allora si direbbe che da ieri Luigi Di Maio ha deciso di aderire alla linea di Giuseppe Conte, che è poi quella indicata tempo addietro da Beppe Grillo, e che insomma bisogna ancorare il grillismo nel campo progressista, avviare quel percorso che lo vedrebbe stringere nei prossimi mesi un’alleanza organica col Pd.

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E dall’altro lato, nella corrente minoritaria del partito, ci sarebbero Davide Casaleggio e Alessandro Di Battista, con la recente aggiunta di Stefano Buffagni che alla vigilia del voto su Rousseau c’ha tenuto a far sapere che no, il vincolo dei due mandati non va toccato e gli accordi sul territorio col Pd neanche a parlarne.

 

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Solo che, nel M5s, la politica conta fino a un certo punto. E il resto sono capricci e gelosie, strambate improvvise dettate dalle folate di giornata del web, gli hashtag assurti a manifesto politico. E così Di Maio, mentre informa i suoi ministri che la sua presa di posizione in favore del Sì su Rousseau è dettata dall’ansia di non compromettere la vita del governo giallorosso (“Se l’anno prossimo regaliamo cinque capoluoghi di regione alla destra rifiutando di allearci col Pd, credete davvero che non ci sarebbero ripercussioni?”), viene guardato con gli occhi strabuzzati.

 

Perché tutti sanno che è l’umore del momento, quello, o che al massimo la sua innovata vena governista gli serve a convincere i maggiorenti del Pd che non c’è più bisogno di Conte, per garantire l’alleanza di governo, e dunque anche il premier è sacrificabile. Ma fino a quanto durerà? Chissà. Di certo c’è che Di Maio, aprendo il fuoco contro Casaleggio, prova a riconquistarsi quella simpatia che nei gruppi parlamentari – dove si guarda a Rousseau come al demonio, ormai – aveva perduto da tempo. 

 

Voleva un partito, Di Maio, che si comportasse come un partito. E per questo la supremazia morale di Rousseau, con le sue logiche e le sue esigenze di marketing, gli sembra ormai un impaccio insopportabile. Ma che questo serva poi davvero a federare il Pd e il M5s in un patto inviolabile, è tutto da stabilire.

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Anche perché, dal suo canto, Casaleggio non ci sta. E se deve ingoiare l’abiura dei sacri principi (“Due mandati e a casa!”, “Mai alleanze coi partiti!”), al tempo stesso rilancia, e convoca per il 4 ottobre – giorno di fondazione del M5s, con tutto il richiamo alle origini duropuriste che ne consegue – un evento ancora tutto da definire, ma che serve nella sua ottica a ristabilire la centralità del suo giocattolo scassato, il tabù violato della democrazia diretta, quella piattaforma Rousseau a cui tutti i parlamentari grillini versano ancora 300 euro al mese.

 

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Il modello, dice il figlio padrone, deve essere quello usato “in passato per la legge elettorale e per indicare il nome del presidente della Repubblica”: quando appunto tutto passava dal suo software. “Obiettivamente, più che singoli eventi, serve una vera e propria rifondazione del Movimento”, ci dice Dalila Nesci, che mesi fa, quando lanciò la sua iniziativa “Parole guerriere”, sembrava l’animatrice di un drappello di ribelli scalmanati. E ora invece viene guardata da mezzo gruppo parlamentare con interesse e curiosità. “Non si può continuare – insiste la deputata calabrese – a mettere pezze in giro alla bisogna: prima annunciamo la ricandidatura della Raggi e due giorni dopo votiamo per ratificare il superamento dei due mandati. C’è da rifare uno statuto, dobbiamo diventare detentori del simbolo, con un patrimonio e una sede fisica”.

 

E se gli ortodossi diventano pragmatici, c’è anche chi si è costruito uno spazio nel M5s con la sua immagine da “grillino del fare” che ora inneggia alle antiche virtù degli esordi. “Ma io non voglio fare il capopolo”, si schermisce Buffagni quando gli si fa notare la sua strana parabola. E del resto neppure potrebbe permetterselo: perché nel 2023 la sua sola speranza di fare un altro giro di giostra sta proprio nel superamento del vincolo dei due mandati (contro cui lui ora si scaglia), magari con la scusante di poter dire che lui ne approfitta, certo, del nuovo privilegio, ma malgré soi, ché lui non voleva.

 

In mezzo al pandemonio, tra queste mosche che sbattono contro il vetro in cerca di un varco, Conte sembra un po’ il semaforo prodiano descritto da Guzzanti anni fa: sta fermo, insensibile ai mutamenti e agli accidenti che precipitano tutt’intorno, e per questo sembra rassicurante. Magari il prezzo che si paga, per questa stabilità, è l’immobilismo: ma forse, visto dal Colle, questa resta ancora il male minore. Almeno per ora.

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