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Cosa succederà al governo dopo il voto delle regionali? Scenari

Valerio Valentini

Il Pd tenta di far pesare la sconfitta emiliana al M5s con l’aiuto di Conte. Crimi balbetta e Di Maio detta

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Roma. “Noi siamo un po’ pazzi”, dice Gianluca Perilli. Parla, beninteso, di una “sana follia”, ma è difficile capire se ci sia più un avvertimento o un’autocritica, nella parole del capogruppo del M5s al Senato, che a metà pomeriggio si concede la pausa di una chiacchierata. “Ed essendo un po’ pazzi – spiega – potremmo anche compiere gesti apparentemente irragionevoli e ribaltare il tavolo, se le richieste del Pd fossero troppo alte”. Perché in fondo il problema è proprio questo. Con un partito normale, il copione sarebbe scritto. “Dopo il voto in Emilia ci sono tutte le condizioni per fare una verifica seria della volontà dei partiti di maggioranza di proseguire, e soprattutto di fare. Nessuno abbia la tentazione di pensare che ora basti tirare a campare”, rivendica, col tono di che mescola l’orgoglio con la preoccupazione, Salvatore Margiotta, sottosegretario ai Trasporti del Pd, che non a caso osa pronunciare ciò che fino a due giorni fa pareva impronunciabile: “Tra i vari nodi da sciogliere, c’è quello della revisione delle concessioni autostradali, che non si può più rinviare”. Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato, mette altra carne al fuoco: “C’è l’occasione giusta per ribadire alcuni concetti ai nostri partner. Innanzitutto la riforma Bonafede che va corretta, visto che Travaglio per fortuna non è al governo. E poi c’è la revisione, integrale, dei decreti sicurezza”. Perché, appunto, con un partito normale è così che si farebbe: dopo la batosta, lo si costringe a recedere dalle sue convinzioni più bislacche, inchiodandolo alla sua paura delle urne. Solo che il M5s non è un partito normale. E infatti Enzo Amendola, ministro per i Rapporti con l’Ue, di buon mattino spiega la cautela del Pd: “Nessuno farà richieste impossibili al M5s”. 

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Roma. “Noi siamo un po’ pazzi”, dice Gianluca Perilli. Parla, beninteso, di una “sana follia”, ma è difficile capire se ci sia più un avvertimento o un’autocritica, nella parole del capogruppo del M5s al Senato, che a metà pomeriggio si concede la pausa di una chiacchierata. “Ed essendo un po’ pazzi – spiega – potremmo anche compiere gesti apparentemente irragionevoli e ribaltare il tavolo, se le richieste del Pd fossero troppo alte”. Perché in fondo il problema è proprio questo. Con un partito normale, il copione sarebbe scritto. “Dopo il voto in Emilia ci sono tutte le condizioni per fare una verifica seria della volontà dei partiti di maggioranza di proseguire, e soprattutto di fare. Nessuno abbia la tentazione di pensare che ora basti tirare a campare”, rivendica, col tono di che mescola l’orgoglio con la preoccupazione, Salvatore Margiotta, sottosegretario ai Trasporti del Pd, che non a caso osa pronunciare ciò che fino a due giorni fa pareva impronunciabile: “Tra i vari nodi da sciogliere, c’è quello della revisione delle concessioni autostradali, che non si può più rinviare”. Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato, mette altra carne al fuoco: “C’è l’occasione giusta per ribadire alcuni concetti ai nostri partner. Innanzitutto la riforma Bonafede che va corretta, visto che Travaglio per fortuna non è al governo. E poi c’è la revisione, integrale, dei decreti sicurezza”. Perché, appunto, con un partito normale è così che si farebbe: dopo la batosta, lo si costringe a recedere dalle sue convinzioni più bislacche, inchiodandolo alla sua paura delle urne. Solo che il M5s non è un partito normale. E infatti Enzo Amendola, ministro per i Rapporti con l’Ue, di buon mattino spiega la cautela del Pd: “Nessuno farà richieste impossibili al M5s”. 

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“Noi non siamo come Salvini – prosegue Amendola – che all’indomani della vittoria delle europee iniziò a cercare un pretesto per rompere. Noi siamo professionisti della pazienza: ma il M5s deve smetterla coi suoi continui smarcamenti. Non gli chiediamo di diventare di sinistra, ma un posizionamento chiaro, definitivo”. Che poi è quello che Giuseppe Conte prova a imporre, con parole nette come non mai: “Mi auguro che si possa rafforzare un ampio fronte progressista, riformista, alternativo alle destre”. Al che Roberto Speranza, ministro della Sanità di Leu, da un lato si rallegra (“Ho sempre pensato che questa piattaforma di governo non sia una parentesi”), dall’altro si schermisce appena lo si interroga sulle intenzione degli alleati: “Se tutti i 5 stelle sono d’accordo con Conte? Chiedetelo a loro”. E loro rispondono, più o meno, per bocca del loro gerarca-reggente Vito Crimi, che arriva al Senato con l’aria di chi vorrebbe essere altrove, scortato da una pattuglia di portavoce che a un certo punto, vedendolo balbettare un po’ confuso (“La quinta stella del Movimento è ... è ...”; “Dobbiamo rilanciare con nuovi temi che non sono nuovi”) iniziano a smaniare per sottrarlo al fuoco delle domande. Ma alla fine una cosa la fa capire, e cioè che lui, con l’idea del premier non è affatto d’accordo. Fa insomma da ventriloquo di Luigi Di Maio. Il quale per tutta la giornata resta silente, lasciando che siano i suoi fedelissimi – una su tutti, Laura Castelli – a prendere posizione a favore della “terza via”. Il che, a più d’un parlamentare grillino, corrobora il sospetto che l’ex capo coltivi in segreto il piano di una rottura traumatica, una fuga dal M5s in nome del rifiuto alla subalternità al Pd.

 

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Nessuno sa davvero cosa farà Luigi agli stati generali”, ammette Sergio Battelli. Una scissione sarebbe sconsigliabile, certo, per chi non ha altra prospettiva di gloria che quella di conservare il suo ruolo da ministro. E però, si sa, i grillini sono “un po’ pazzi”. “Obiettivamente sì – conferma Perilli – sembra esserci una divaricazione di prospettiva in corso, nel leggere le parole di Conte e quelle della Castelli. Ma da noi nulla è così lineare, magari a quell’esito ci si arriverà ma al termine di un percorso caotico”. Sarà, ma sta di fatto che nel Pd c’è già chi, camminando per il Transatlantico, inizia a sussurrare “Ursula”. Come a dire, insomma, che se Di Maio dovesse pensare di portare via una parte dei suoi dalla maggioranza di governo verso il centrodestra, a quel punto li si rimpiazzerebbe con una parte di Forza Italia, magari quella vicina a Mara Carfagna. E forse, chissà, sarebbe meglio per tutti.

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