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piccola posta

Quei gandhiani o presunti realisti che si augurano la resa di Zelensky

Adriano Sofri

Ci è passato per la mente che se il presidente ucraino stesse attraversando la sua tempesta del dubbio, e fosse tentato di arrendersi, e decidesse di farlo per non sacrificare altre vite, una gran parte del suo paese lo maledirebbe come un traditore e sceglierebbe di continuare a battersi fino alla morte?

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Certo: preghiamo tutti insieme, ciascuno come sa, che si cessi il fuoco e si cominci un vero negoziato. Parlo di me, scusate. Di fronte a quelle che si chiamano pigramente o ingordamente guerre ho avuto a lungo un parziale riparo: andarci e capire meglio, capire diversamente, e soprattutto fare amicizie. Il giornalismo, cioè, più mediocremente, scrivere per i giornali, era il modo per concedermi quel privilegio, che oggi mi manca penosamente. La guerra cosiddetta porta con sé un’inevitabile esasperazione dei pensieri e dei sentimenti, e la distanza messa tra il proprio pezzo di mondo e il “teatro di guerra” (bella formula, svelatrice, se solo si riuscisse a pensarla assieme al suo complemento, il “teatro di pace”), se contribuisce all’esasperazione, insieme la attenua. In un teatro di cantina è difficile simpatizzare per un teatro del piano nobile e viceversa. I dissensi che discendono da partiti presi e ottusamente conservati sono inutilmente irritanti, e meritano d’essere ignorati.

Altro è il caso per i dissensi derivati dal luogo in cui succede di trovarsi: chi sta dentro “la guerra” e chi ne sta fuori – non importa nemmeno quanto fuori, alla distanza dello Yemen o alla portata di schioppo della Bosnia e di Kyiv, comunque fuori. Il pacifismo, un suo modo d’essere, vive di questa distanza: sonnecchia, o dorme del tutto, ma si ridesta con una sincera passione per pronunciare ogni volta di nuovo il suo No alla guerra e per argomentare la necessità di prevenirla: “Combattere le guerre prima che scoppino”, come intitola ieri sul Manifesto Luciana Castellina (cito solo un nome cui sono affezionato). Ma la guerra è scoppiata – è l’obiezione stupita di chi si trovi in quel momento nello Yemen o a Sarajevo o a Charkiv. “Il pacifismo non può essere più intermittente”, dice ancora il suo intervento. Non è solo intermittenza, è, o rischia di essere, una vera inversione: sommersa in tempo di “pace” (chiamiamo così i periodi in cui il frastuono delle armi arriva più attutito o affatto silenziato) la mobilitazione pacifista si riaccende quando il rumore e le vittime della guerra ci arrivano addosso, e il Che fare del destino degli umani sulla terra diventa angosciosamente il Che fare di questo rumore, di questi aggressori e di queste vittime. 

Questa divergenza trova subito appigli particolari sopra i quali inasprirsi ed escludersi. Così per la questione delle armi all’Ucraina. Ho sul punto una memoria pregiudicata, risale al golpe cileno del 1973, allora, aderendo a un nostro impulso e alla richiesta dei militanti del Mir di cui eravamo diventati intimi compagni e amici, indicemmo una sottoscrizione intitolata esplicitamente “Armi al Mir”, che ebbe una risonanza e un effetto pratico di gran lunga eccedenti il nostro seguito. Ci avvicinammo ai 100 milioni di lire, qualcosa, se non sbaglio, come 750 mila euro di oggi (quei nostri giovani compagni e amici fecero presto a morire, e Pinochet è morto di vecchiaia, nel suo letto). Oggi: ci si oppone, chi lo fa, a che siano i governi europei, il nostro governo, ad aiutare in armi e munizioni la difesa ucraina? O si dichiara che non lo si farebbe, ciascuno, per ragioni morali prima che pratiche? Perché “le guerre non si combattono con le guerre”, dando un solo nome all’aggressione e alla difesa, all’assedio e alla resistenza? Il presidente Zelensky continua a invocare una difesa del cielo ucraino che sa impossibile, per ricordare che era stata promessa, e per avvertire che la fine, quando verrà, non scalfirà il valore della resistenza.

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Nella posizione in cui è, Zelensky può in ogni momento fare un passo falso. Sono in tanti, troppi, ad augurarselo, ad augurarglielo, non ci piacciono esempi troppo solenni. Ci piace, in un empito supposto gandhiano o evangelico o kantiano, raccomandargli o intimargli la resa, per il bene del suo popolo, che distinguiamo meglio di lui – di Zelensky e del suo popolo. O confidiamo, più modestamente, nel nostro realismo. Ci è passato per la mente che se Zelensky stesse attraversando la sua tempesta del dubbio, e fosse tentato di arrendersi, e decidesse di farlo per non sacrificare altre vite di fronte all’evidente sproporzione di forze fra la Russia e il suo paese, una gran parte del suo paese lo maledirebbe come un disertore o un traditore e sceglierebbe, in una condizione di caos, di demoralizzazione e di divisione, di continuare a battersi fino alla morte? O pensiamo che Zelensky possa organizzare un referendum sul tema? Abbiamo visto che cosa furono capaci di fare gli ucraini – quella volta contro altri ucraini, il governo e il Parlamento infeudati alla Russia di Putin, polizia, truppe speciali e delinquenti arruolati al loro soldo, nella Kyiv di Maidan nel 2013-2014. O crediamo davvero che la tenacia di quella ribellione di studenti, di giovani e di popolo, pur mista alla partecipazione violenta di forze ultranazionaliste e antisemite, fosse il frutto della cospirazione occidentale? E che se Zelensky decidesse sinceramente di sacrificarsi per la salvezza del suo paese e si consegnasse ai russi di Putin in cambio del cessate il fuoco, la conseguenza non sarebbe altrettanto caotica e disastrosa e penosa?

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(Immaginate per un momento – è assurdo, s’intende – che Allende, il buffo Allende con l’elmetto il giubbotto e il mitra di Fidel, avesse avuto qualche minuto in più, il tempo di invocare l’aiuto del mondo contro il golpe dei generali felloni e della Cia).

Ecco, e ora preghiamo tutti insieme, ciascuno come sa, che si cessi il fuoco e si cominci un vero negoziato.

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