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Lettere

Il voto delle città, l’agenda Draghi e lo strumento che manca al centro

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

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Al direttore - Addio a Raffaele La Capria, grande scrittore del ‘900. Lo incontrai la prima volta una trentina d’anni fa alla presentazione di un libro sulla storia di Israele e mi colpì la difesa appassionata e lucida dello Stato ebraico. Numerose furono poi le occasioni di incontri e discussioni. Apparteneva a quella generazione di giovani intellettuali napoletani che si ritrovarono nella Napoli del Dopoguerra, da Antonio Ghirelli a Francesco Rosi, da Massimo Caprara a Maurizio Barendson, da Giuseppe Patroni Griffi a Giorgio Napolitano, amico fraterno di La Capria. Mi chiedo sempre quale sia il legame misterioso tra il protagonista di un romanzo e il suo creatore. Nel caso di “Ferito a morte”, premio Strega del 1961, in cui si narra delle difficoltà e delle rinunce del vivere a Napoli, il legame forse è nel fascino misterioso del barocco di Palazzo Donn’Anna, adagiato nello splendido arco di mare di Posillipo, dove La Capria nacque quasi un secolo fa. Palazzo Donn’Anna, emblema di una Napoli “nobile e accidiosa, seducente e incompiuta”. Straordinario mi apparve “L’armonia perduta”, del 1986, dedicato da La Capria al suo caro amico Antonio Ghirelli, dove “Napoli è la città in cui la storia si è arrestata. Si è arrestata con la fine della Repubblica napoletana del 1799” e la “napoletanità” diventa “napoletaneria”. Questa coesiste con quella ma ne costituisce la forma degradata. Vorrei salutare La Capria che ci lascia ricordando il passo di “Ferito a morte” che forse meglio esprime il suo sguardo civile e critico verso un certo modo di rappresentare e rappresentarsi dei napoletani: “E’ una città di gente simpatica la nostra. Io la gente simpatica non la posso sopportare”. Addio caro La Capria.
Umberto Ranieri



Al direttore - Per vincere non bisogna aver paura di perdere. Come è appena accaduto lì dove si pensava che la destra fosse inespugnabile: a Verona come a Piacenza, a Catanzaro come a Monza. Per non parlare della splendida affermazione di Guerra (sostenuto dal sindaco uscente Pizzarotti) a Parma. Le persone contano più delle formule, ci dicono le urne. Invece, nella irreale arena dei commenti ci siamo troppo abituati a sequenze interminabili di retroscena, di evocazioni di un indistinto “centro”, di geometrie variabili. Sono esercizi di debolezze, più che ambizioni per il futuro dell’Italia. E’ arrivato il momento di dire “basta”, e lo diciamo a noi stessi prima che ad altri. A meno di un anno dalle prossime cruciali elezioni politiche bisogna scegliere le priorità, offrendo agli elettori un quadro semplice e chiaro: volete che a governare sia la coalizione sovranista guidata da Giorgia Meloni e Matteo Salvini (con quel che resta di FI a reggere il moccolo) o volete che a farlo sia una coalizione riformista ed europeista, che tenga l’Italia saldamente ancorata alla liberaldemocrazia, allo spazio delle libertà civili e sociali, alla rivoluzione ecologica? In sostanza, abbiamo il coraggio di superare litigi, incomprensioni e veti incrociati e offrire agli elettori un progetto di governo? Non abbiamo bisogno di dieci piccoli leader, ne basta uno che sia il nostro candidato premier. Come fu Prodi per l’Ulivo nel 1996. Da qui potremmo partire per costruire programma e coalizione, denunciando i trucchetti di chi vuol stare in coalizione solo per guadagnare opportunisticamente qualche seggio (o vuol starne fuori, per la stessa ragione opportunistica). Sarebbe anche un modo, questo, per stanare i moderati di centrodestra e porli di fronte alle loro responsabilità: mettersi in scia di Meloni o collaborare con noi a un vero “fronte repubblicano”. Per noi la figura ideale dovrebbe assomigliare al premier in carica Mario Draghi, ma non intendiamo tirarlo per la giacca. Certamente ne dovrebbe condividere l’agenda politica interna e internazionale. Altri possibili candidati e candidate ci sono, tra i leader di partito, tra gli amministratori locali di maggiore rilievo, nel campo aperto della società civile. Potremmo anche convergere sul nome di un outsider (gli Emmanuel Macron o le Sanna Marin non nascono già leader). Mettiamo “al centro” il programma di governo per il paese e non il destino dei singoli raggruppamenti. Tutti, arrivati a questo punto, si dovrebbero misurare con questa sfida e chi non ci sta dovrà spiegarlo agli elettori. Si può tornare a vincere, con qualunque legge elettorale. Ma per farlo dobbiamo costruire una nuova speranza.
Piercamillo Falasca e Gennaro Migliore

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Le amministrative valgono quello che valgono ma qualcosa hanno permesso di evidenziarlo. Per esempio, che il tocco magico di Giorgia Meloni non si vede (Sboarina, a Verona, era l’unico sindaco di Fratelli d’Italia in carica in una grande città). Per esempio, che il tocco non magico di Salvini si vede, eccome (è dalle europee che Salvini non vince più un’elezione). Per esempio, che il ricordo lasciato dai gialloverdi nel paese si sente ancora (Lega e M5s sono stati i partiti più puniti). E per esempio, che l’identificazione con l’agenda Draghi ha reso il Pd più forte e più trasversale (ha ragione Di Maio quando dice che alle amministrative hanno vinto i sostenitori più convinti del governo e hanno perso coloro che il governo lo sostengono senza crederci davvero, ma è anche vero che il Pd vince quando gli avversari si dividono e grazie a un sistema elettorale che esiste solo nelle città). Quanto al resto, tutto giusto, con un’osservazione. Una grande federazione centrale capace di mettere insieme tutti i soggetti politici che si riconoscono nell’agenda Draghi avrebbe bisogno, per coinvolgere gli elettori e per fare scouting nella classe dirigente, di un vecchio e formidabile strumento, utilizzabile con qualunque legge elettorale: le primarie, oh yes.

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Al direttore - Gentile direttore, l’editoriale pubblicato a pagina tre del Foglio di sabato “Fare scuola di ius scholae” ha offerto con toni garbati e costruttivi alcune riflessioni sulla proposta di legge all’esame della commissione. Se il dibattito parlamentare fino a oggi ha stentato a decollare a causa di ore e ore di ostruzionismo, merita attenzione qualsiasi segnale di interesse e stimolo al confronto fuori dalle istituzioni. Del resto, già le società scientifiche di pedagogia e pediatria con due distinte iniziative hanno apertamente sostenuto la bontà di questa legge. I dubbi dell’editoriale ricordano le discussioni vaghe e poco promettenti sulla differenza dei voti alla maturità tra nord e sud. Chi sostiene questa legge crede che l’adesione alla cultura da parte dei figli di cittadini stranieri cresca e si alimenti proprio a scuola, in classe, tra pari, e che non servano test o altri atti dimostrativi. D’altronde, se non basta la scuola per essere italiani, basta forse il “sangue”? O dobbiamo chiedere solo gesti spettacolari e simbolici come nel caso del 2019 di Adam e Ramy? Lo ius scholae guarda principalmente alle seconde generazioni, bambini e ragazzi nati in Italia che magari non hanno mai visto il paese d’origine dei loro genitori. Rappresentano i 2/3 degli studenti con cittadinanza non italiana e nel cammino di vita non hanno nulla di concretamente diverso dai nostri figli. Con lo ius scholae il legislatore trova un equilibrio tra le due concezioni tradizionali del diritto, bilanciando diritti e doveri e facendo sintesi tra lo ius quia iussum che contempla obblighi materiali e comandi autoritativi da rispettare e lo ius quia iustum che scaturisce dal basso per cercare equità. Non vogliamo dare fogli di carta all’italiana, ma riconoscere percorsi di inclusione, frutto anche del lavoro dei nostri insegnanti. 
Giuseppe Brescia
presidente della commissione Affari costituzionali della Camera e relatore della nuova legge sulla cittadinanza



Al direttore - Se il medico fin troppo intraprendente di “Knock, ovvero il trionfo della medicina” di Jules Romains, riesce a far sentire ammalati gli abitanti di un’intera cittadina prima in ottima salute è perché la medicina, nel suo sostituire stregoni e guaritori di vario genere, ha imposto le sue chiavi di lettura. Un romanzo al quale riporta la lettura dell’articolo di Corbellini e Mingardi “Ma non basta un’ansia per chiedere un bonus psicologico” pubblicato sul vostro giornale. Miscelando considerazioni valide e interessanti con altre approssimative o del tutto fuorvianti gli autori hanno mancato, a mio avviso, alcuni aspetti fondamentali. La tesi dell’articolo è che la società di oggi sia generatrice di grande complessità, di un vivere complicato e difficile dal punto di vista psicologico e relazionale. E che però lo smarrimento e il malessere che questo può determinare non siano patologia e non possano pretendere attenzione o l’investimento di soldi pubblici come nel caso del “bonus psicologico”. Vengono riportati dei dati attribuiti al Cnop, secondo i quali otto italiani su 10 hanno un “malessere psicologico strutturato” e i restanti due una malattia mentale in senso stretto. Si tratta di una citazione sbagliata perché otto più due fa dieci. Dieci su dieci, ovvero il 100 per cento della popolazione. Corretto invece è il rapporto percentuale tra le diverse forme di disagio psicologico e le malattie mentali in senso stretto: otto a due. Nel corso del tempo, la scienza ci ha mostrato come processi psichici, circuiti cerebrali, attività genica e regolazione fisiologica siano aspetti di una realtà profondamente integrata. Non si difendono i confini tra bene e male o tra verità e falsità ancorandoci a visioni riduzionistiche o parziali delle cose, ma accettando la complessità del reale e la relatività di ciò che la scienza ci aiuta, progressivamente, a capire. Altrimenti rischiamo di finire come il cardinale Bellarmino, che si rifiutò di guardare dentro il cannocchiale che Galileo gli mostrava. Qualcuno, invece, nel cannocchiale ci guarda ormai da anni. Il World Economic Forum nel suo Global Risk Report del 2019, quindi prima della pandemia, metteva il malessere psicologico tra i maggiori rischi per l’umanità, non solo per le sue ricadute sulla salute ma per l’impatto sulla convivenza sociale, sull’economia e sullo sviluppo del potenziale umano. La pandemia non ha creato un problema: ne ha amplificato uno già esistente e ha reso le persone più consapevoli. Quando nel 1994 l’Oms e l’Unicef raccomandavano di usare la psicologia nella scuola per sviluppare le competenze per la vita (life skills) di giovani imbottiti di informazioni ma sempre più disorientati dalla complessità del reale, cercava di usare la leva della prevenzione e della promozione delle risorse per rispondere a nuovi bisogni. Non possiamo, e non è l’ambizione di nessuno, considerare “malati” decine di milioni di persone che non stanno più bene psicologicamente ma neanche ignorare il ruolo di un disagio psicologico sempre più accentuato in attesa che la situazione si aggravi per “meritare” un’attenzione pubblica. Ecco quindi che l’idea che sia tutto un falso problema, un capriccio, una operazione di marketing assomiglia tanto a quella di chi sostiene che la sedentarietà sia solo un problema di pigrizia dilagante, l’obesità una mancanza di controllo, i cambiamenti climatici il frutto delle previsioni del tempo e così via. Viviamo in una società che sfrutta i nostri bisogni psicologici in tanti modi ma non investe nella promozione della psiche. Ci si occupa solo di cura e delle malattie mentali più gravi e lo si fa purtroppo in maniera quasi esclusivamente farmacologica. Niente prevenzione, promozione, ascolto e sostegno delle forme meno gravi: se i servizi psichiatrici sono insufficienti, quelli psicologici e psicoterapici sono semplicemente inesistenti. Se vuoi lo psicologo o lo psicoterapeuta te lo paghi, se hai i soldi per farlo. Servono iniziative strutturali. Il “bonus” è una risposta, un tassello, modesto sul piano del finanziamento, ma di immenso valore simbolico e culturale.
David Lazzari 
presidente nazionale Ordine psicologi, past president Società italiana psiconeuroendocrinoimmunologia

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