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La risposta di Cassese al ministro Fraccaro sulla democrazia diretta

Sul ricorso ai referendum per decidere ciò che il Parlamento non riesce a fare restano almeno tre questioni aperte

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Professor Sabino Cassese, si è arreso agli argomenti del ministro Riccardo Fraccaro sui referendum?

Il ministro ha chiarito [con una lettera pubblicata sul Foglio, ndr] che pensa si debba ricorrere ai referendum per decisioni “a cui la rappresentanza parlamentare non riesce a dare una risposta”. Mi sembra un punto di vista da condividere. La democrazia diretta viene in ausilio a quella rappresentativa. Con questa impostazione, risulta anche limitata la portata della proposta di legge da lui presentata nella passata legislatura. 

    

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Fraccaro ha anche risposto alla sua critica della rudimentalità dei referendum, con la loro logica binaria.

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Sì, ha scritto che pensa che i referendum debbano essere preparati da campagne dirette a informare e discutere e, quindi, debbano essere preceduti dal dibattito pubblico. Ottima idea. Bisognerebbe codificarla in legge.

  

Quindi è d’accordo con lui su tutta la linea?

Non proprio. Rimangono almeno tre questioni aperte. La prima riguarda il livello di governo nel quale tenere i referendum. Il ministro fa riferimenti che riguardano in larga prevalenza stati federati e cantoni, cioè livelli di governo inferiori a quello nazionale. Questo è un punto importante perché le osservazioni dei critici riguardano in prevalenza il livello nazionale.

  

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Il secondo punto di disaccordo o di distinzione?

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Quello della democrazia amministrativa. Qui il ministro non si pronuncia. Ma questo è il punto principale, perché a livello politico, quando si rimette al popolo una decisione diretta relativa a una legge nazionale o regionale, si oppongono democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Invece, dell’ascolto dell’opinione popolare c’è bisogno quando a decidere sono le amministrazioni.

  

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E sulla logica binaria. Sulle sue critiche?

Vorrei ricordare al ministro quello che mi ha scritto a seguito del mio precedente intervento il mio amico Pasquale Pasquino, ricordandomi che in Francia nel 1969 De Gaulle fu bocciato su una riforma tecnica marginale del Senato e nel 2005 Chirac, ormai mal visto dagli elettori, fece cadere il trattato costituzionale dell’Unione europea. Insomma, i referendum hanno dimostrato di essere armi equivoche, o ambigue, di prestarsi a interpretazioni late. Ancora Pasquino mi ha ricordato che per Erich Kaufmann, che ha scritto Zur Problematik des Volkswillens nel 1931, con la riduzione della volontà popolare al “Sì-No”, il popolo diventa bambino.

 

Rimangono i problemi sollevati dai referendum nei paesi dove vale il principio della “parliamentary sovereignty”.

Quelli posti dalla decisione detta Brexit nel Regno Unito, dove hanno dovuto adottare una legge dopo il referendum. Ricordi quel che scrisse Attlee a Churchill: “Non potrei consentire all’introduzione nella nostra vita nazionale di uno strumento così estraneo alla nostra tradizione, come il referendum, che è stato spesso uno strumento del fascismo e del nazismo”. Un quotidiano inglese si è divertito a “fare le bucce” a Attlee, osservando che il ricorso al referendum era stato proposto diverse volte in passato nel Regno Unito, persino dal grande Albert Venn Dicey, il maggiore teorico della sovranità del Parlamento, che aveva proposto di sottoporre a referendum la home rule per l’Irlanda, che egli osteggiava.

 

Insomma, lei è favorevole o contrario?

Non semplifichiamo. L’istituto esiste, è stato utilizzato. Ha precisi limiti, che possono anche esser ampliati. Non bisogna però abusarne. E principalmente non si può dare a credere all’opinione pubblica che il referendum possa risolvere problemi complessi, che richiedono spesso più di una decisione, messe a punto che la decisione binaria non consente, riflessioni che neppure una adeguata campagna referendaria permette.

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