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fanatismo giudiziario

Il caso Eni-Nigeria rivela lo spirito bellicista di certa magistratura

Ermes Antonucci

Il pm milanese De Pasquale depone a Brescia, dove è imputato per aver nascosto prove a favore dei vertici Eni, e si autorappresenta come un soldato, un magistrato che i processi non li istruisce, ma li combatte. Così la giustizia diventa una guerra, in cui non sono ammessi dubbi, incertezze, esitazioni

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“Ho avuto una vita professionale travagliata, anche per il tipo di processi combattuti”. Più che una deposizione, quella tenuta martedì dal pm milanese Fabio De Pasquale al tribunale di Brescia, dove è imputato insieme all’ex collega Sergio Spadaro con l’accusa di aver nascosto prove a favore dei vertici Eni (poi tutti assolti) nel processo Nigeria, è stata una descrizione emblematica del paradigma culturale che anima certi pubblici ministeri. In sei ore De Pasquale, uno dei simboli della procura meneghina, si è autorappresentato come un soldato, un magistrato che i processi non li istruisce, ma li combatte. Così la giustizia diventa una guerra, in cui non sono ammessi dubbi, incertezze, esitazioni.

 

Per questo quando il pm Paolo Storari nel febbraio 2021, a poche settimane dalla sentenza sul maxi processo contro Eni e Shell per corruzione internazionale in Nigeria, portò all’attenzione dei suoi colleghi De Pasquale e Spadaro diverse prove che dimostravano l’inattendibilità di Vincenzo Armanna, il supertestimone valorizzato dall’accusa, gli inquirenti – ora sotto processo – decisero di ignorare tutto. Quello di Storari, a detta di De Pasquale, era “solo un polverone”, “un’accozzaglia di congetture per distruggere la credibilità di Armanna a poche udienze dalla fine del processo”, “un minestrone” che conteneva “elementi non pertinenti”.

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Alla domanda del presidente del collegio Roberto Spanò se non dovesse spettare al tribunale di Milano valutare la pertinenza di quegli elementi, De Pasquale ha insistito, palesando sempre di più il fastidio che i dubbi avanzati da Storari avevano generato in lui, quasi costituissero una lesa maestà: “Era una polpetta avvelenata”. “Erano ciarpame prima e sono ciarpame oggi”. Fino al culmine: “Fu un atto ostile”. E da dove sarebbe derivata l’ostilità di Storari? “Evidentemente mi odiava”, risponde De Pasquale. 
D’altronde se i processi si combattono, come afferma lui stesso, chiunque cerchi di mettere in dubbio le tesi dell’accusa è da ritenersi ostile.

 

“Ritiene che lei sia arbitro esclusivo della rilevanza di una prova o che il giudizio sulla rilevanza debba essere condiviso con le parti processuali, la difesa, il tribunale?”, chiede Spanò  a De Pasquale, rincarando la dose: “Ci chiediamo come lei interpreti la funzione del pubblico ministero”. Ma è tutto inutile, dal cortocircuito non si esce: “Io non produco cose irrilevanti”, dice De Pasquale. Eppure parliamo di un video in cui Armanna minaccia di far cadere una “valanga di merda” e “avvisi di garanzia” su Eni, di messaggi in cui Armanna concordava il versamento di 50 mila dollari a due testimoni, di chat falsificate, di messaggi in cui Armanna indottrinava un testimone in vista del processo. “Erano elementi confusi e non pertinenti”, ripete De Pasquale, nonostante il tribunale di Milano nella sentenza di assoluzione abbia definito “incomprensibile” la scelta della procura di non depositare queste prove.

 

Al contrario,  vennero ritenute pertinenti le illazioni di Piero Amara su un presunto avvicinamento dei legali di Eni a Marco Tremolada, il presidente del collegio giudicante, tanto che queste vennero trasmesse ai magistrati di Brescia, competenti sui magistrati di Milano, i quali aprirono un’inchiesta, poi archiviata in virtù dell’inattendibilità di Amara. De Pasquale e Spadaro invece chiesero, senza successo, di ascoltare in aula Amara. Un atto gravissimo, poi censurato anche dallo stesso tribunale, che accusò la procura di aver tentato di mettere in dubbio “il carattere di terzietà” del collegio di giudici.

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Un doppiopesismo nel valutare la rilevanza degli elementi emersi nell’indagine di Storari che fa a pugni con la logica. Ma non con quella bellicista fatta propria dai pm milanesi, manifestata con chiarezza da De Pasquale: “Ho avuto una vita professionale travagliata, anche per il tipo di processi combattuti”, ha detto durante la deposizione. Come se un pubblico ministero dovesse combattere i processi, sulla base di tesi precostituite, e non affrontarli secondo le norme del codice di procedura penale, cercando anche di accogliere eventuali prove che vadano in senso contrario alle proprie ricostruzioni.

 

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Se a questo si aggiunge il tentativo della procura milanese di far fuori il presidente del collegio giudicante a pochi giorni dalla sentenza, nella speranza che la propria ipotesi accusatoria venisse accolta dal tribunale, si ha il quadro completo dello spirito che sembra animare una certa magistratura.

 

Inevitabile, infatti, andare oltre il caso Eni-Nigeria. Di fronte ai tanti flop giudiziari e ai tanti innocenti arrestati e poi assolti sarebbe curioso rivolgere alle toghe coinvolte la stessa domanda rivolta da Spanò a De Pasquale: “Ma lei come interpreta la sua funzione di magistrato?”.

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