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Dopo Gaspare Mutolo. I pentiti di mafia ancora da smascherare

Riccardo Lo Verso

In una intervista a Oggi, l'ottantenne collaboratore di giustizia ha mostrato il suo volto. Bene. Ma ora si affronti il malsano rapporto tra i pm e tutti quei pataccari sulle cui "rivelazioni" si sono costruiti processi dai piedi d'argilla

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Giù la maschera, saltimbanchi della giustizia di cui vi vantate di essere servitori e collaboratori. Di colpo tutto muterebbe aspetto, scriveva Erasmo da Rotterdam nel suo “Elogio della follia”. Apparirebbe un nuovo, e vero, volto degli uomini. Ma dissipare l’illusione significa togliere senso all’intero dramma. A tenere avvinti gli sguardi degli spettatori è proprio la finzione, il trucco.

 

Il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, durante una lunga intervista rilasciata al settimanale “Oggi”, si è tolto la maschera che per trent’anni ne ha protetto l’identità. Ad altri, la maschera, avrebbero dovuto strapparla nelle aule dei Tribunali. E invece ai pentiti di mafia è stato concesso di tutto. Anche, e soprattutto, di mentire. I processi nel silenzio (o quasi) generale sono diventati un orinatoio di verità fasulle, diventate forzosamente vere per il fatto di essere transitate nei resoconti giudiziari. Una parte della magistratura si è specchiata nelle bugie dei collaboratori, divenuti strumenti e attrezzi di scena utili a costruire le carriere di coloro ai quali non è bastato indossare la toga.

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Nella teatralità del suo gesto va riconosciuto che Mutolo, killer di mafia oggi ottantenne, oltre al volto ha mostrato anche coraggio. “Negli anni che mi restano – racconta nell’intervista – voglio scontare con la sofferenza il male che ho fatto e lasciare qualcosa di utile, attraverso le parole e i quadri” (oggi è un pittore).

 

Quante altre maschere ci sono da mettere giù? Utile, oltre che coraggioso, sarebbe interrogarsi su come siano stati gestiti i collaboratori di giustizia. Nel paese delle commissioni parlamentari d’inchiesta ne servirebbe una che aprisse uno squarcio di luce sulle malefatte dei pentiti.

 

Quante altre maschere da tirare giù? Nel paese delle commissioni parlamentari ne manca una che faccia luce sulle malefatte dei pentiti

 

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Si dovrebbe partire dal principio, da Salvatore Cancemi, il primo componente della Commissione di Cosa nostra a collaborare con i magistrati. A lui si deve la paternità del manifesto del pentitismo: “La mia mente è come una vite arrugginita che si svita lentamente”. I ricordi vanno centellinati per restare sulla scena il più a lungo possibile. Il paradosso è che Cancemi è stato silenziato quando poteva servire per mettere a tacere sul nascere le fantasie senza limiti di tal Vincenzo Scarantino, malacarne di borgata assurto per volontà dei pubblici ministeri a boss stragista. Detta così è già grave, ma leggendo il confronto Cancemi-Scarantino lo è ancora di più. “Guarda, guardami! Ti posso dare del tu? Perché io non ti conosco, non ti ho mai visto nella mia vita. Ma tu sei uomo d’onore? Tu sei un bugiardo. Chi te l’ha fatta questa lezione? Dicci la verità, devi dire la verità, ma chi ti conosce, ma chi sei?”.

 

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Era il 1995 e Cancemi sbugiardava Scarantino. Ancora oggi ci si interroga sul perché, dopo una dozzina di processi finiti al macero, non si conosca la verità sulle stragi di mafia del ’92. Basterebbe guardare nelle tasche della magistratura invece di ripetere, sempre e solo, il ritornello del “colossale depistaggio”.

 

La verità è che i pubblici ministeri si sono fatti guidare per mano dai pataccari verso il burrone.

 

Cancemi fece scuola nella dilatazione spazio-temporale dei ricordi. Francesco Di Carlo, oggi scomparso, lo seguì alla lettera terrorizzato dall’idea che, scaduto il termine dei 180 giorni entro cui per legge avrebbe dovuto raccontare tutto ciò che sapeva, sarebbe finito nel dimenticatoio. “Non ho detto ancora tutto? In ballo ci sono trent’anni di storia di mafia – ammise con un candore spudorato – se poi uno dice quello che ho detto io bisogna procedere per gradi. La verità non tutti vogliono conoscerla. A domanda rispondo, ma so anche che il sacco vuoto non si regge in piedi”.

 

Di Carlo smentì Gioacchino La Barbera, killer di Giovanni Falcone, che ha avuto la capacità di smentire se stesso. In un’intervista – i pentiti sono da sempre gettonatissimi – disse che dietro la strage di Capaci “non c’è solo la mafia”, ma anche “un uomo dei servizi segreti”. Eppure testimoniando al processo sulla strage del Rapido 904, mise a verbale che “ogni strage e ogni delitto eccellente, nell’ambiente di Cosa nostra si diceva sempre che erano stati i servizi segreti per deviare, ma sono solo dicerie. Anche per Capaci si disse che erano stati i servizi segreti. E invece eravamo stati noi”.

 

Le dichiarazioni cambiano a seconda dell’interlocutore che si ha di fronte. Il campione del pentitismo camaleontico e ruffiano è Giovanni Brusca, boia di San Giuseppe Jato, assassino del piccolo Di Matteo e killer in un numero indefinito di omicidi. Neppure lui ricorda quanti ne abbia commessi. Dopo 25 anni di carcere è tornato in libertà, ma già prima aveva goduto di una generosa premialità con un’ottantina di permessi, anche per trascorrere il Capodanno in allegria con i parenti.

 

Brusca è stato un calcolatore. Ha intuito dove andare a parare nel tentativo di lasciare un segno con le sue dichiarazioni. Di cose vere, e importanti, ne ha raccontato parecchie, ma ci sono pure i ricordi infiocchettati per assecondare il trend giudiziario. Non gli parve l’ora di essere assoldato al processo sulla trattativa stato-mafia, che per i giudici di Appello non c’è stata. Nel 2012 aveva di fronte il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, che del processo è stato l’ideologo. Era andato a interrogare Brusca per capire se fosse vera la storia di un’estorsione che il pentito aveva commesso mentre era detenuto.

  

Brusca saltò di palo in frasca. Disse che non era pronto a discutere dell’estorsione, ma… “Ci ho pensato tanto, prima di dire questa cosa. Proprio ci ho pensato, ripensato, è giusto, non è giusto, è giusto, non è giusto…”. Sfogliò la margherita e infine tirò fuori dal cilindro il nome di Marcello Dell’Utri, cucendo addosso all’ex senatore il ruolo di tramite del patto fra mafiosi, carabinieri e politici durante la stagione delle stragi. Persino Ingroia, che avrà sentito un brivido attraversargli la schiena udendo cotante rivelazioni, restò sul chi va là. Almeno in prima battuta.

 

Il campione del pentitismo camaleontico e ruffiano è Giovanni Brusca. Ha intuito dove andare a parare per lasciare un segno

 

Perché dire una cosa così importante dopo tanti anni? Agli atti è rimasta la messinscena di Brusca, pentito dal 1996, per giustificare quel ricordo tardivo. Spiegò che non era la prima volta che parlava di Dell’Utri. Disse di averne discusso con il cognato, “appassionato di criminologia”, come si parla di calcio al bar il lunedì mattina. Qualora non gli avessero creduto i magistrati avrebbero potuto controllare le intercettazioni. Lo fecero. Di quella conversazione non c’è traccia. Brusca tentò di parare il colpo, arrampicandosi sugli specchi deformanti di un labirinto. Mica c’era bisogno di fare in maniera esplicita il nome di Dell’Utri, con il cognato aveva “un’intesa tale che lui capiva al volo quello che volevo dire”. Si parlavano a gesti, con gli sguardi.

 

Anche questo gli è stato perdonato, come i ricordi confusi sul papello, la lista delle fantomatiche richieste presentate dai boss corleonesi allo stato per fermare le stragi di cui ha parlato – ma è stato ampiamente sbugiardato – Massimo Ciancimino. All’inizio Brusca disse che Totò Riina gliene parlò dopo la strage di via D’Amelio. Poi cambiò idea e chiese di essere riconvocato. Si era ricordato di avere appreso del ricatto a cavallo delle stragi, quindi dopo Capaci e prima di via D’Amelio. Che, guarda caso, era il canovaccio della pubblica accusa che vedeva nella Trattativa la causa dell’accelerazione della strage in cui furono trucidati Paolo Borsellino e gli agenti di scorta.

 

La sua giustificazione fu patetica. “Tornato in cella con questo dubbio da lì ho subito ricordato come sono andati i fatti”, ammise Brusca, che di vuoto di memoria ne ha avuto un altro. Anch’esso clamoroso. Per decenni negò di conoscere Calogero Mannino, l’ex ministro democristiano scagionato per sempre dall’accusa di aver dato il via alla Trattativa temendo di essere ammazzato. Nulla disse nel corso del processo in cui Mannino fu processato, e assolto, dall’accusa di mafia dopo una lunga carcerazione preventiva. Infine l’illuminazione di Brusca: Riina cercava Mannino per ricevere favori e aggiustare processi. Capì di averla sparata grossa e ammise che è “un mio difetto, molte volte cose che io non ho vissuto in prima persona le do per non importanti. Poi, quando arrivano alla mente, le racconto senza nessuna riserva”. Perdonato. Punto e a capo.

 

Chi non gliela fece passare fu Angelo Pellino, il presidente della Corte di appello che ha mandato in frantumi la Trattativa. Lo incalzò in aula durante la deposizione e Brusca arretrò sulla difensiva. Il suo fu un “ricordo tardivo, non successivamente suggestionato, assolutamente no”. In fin dei conti lo stava apertamente ammettendo.

 

Non tutti, per fortuna, si sono appiattiti sui ricordi del killer sanguinario. Anche a costo di subire gli attacchi dell’antimafia militante, indulgente con i pentiti seducenti e intransigente con chi osa sollevare legittimi dubbi. Mario Fontana, il giudice che aveva assolto il generale Mario Mori per la mancata cattura di Bernardo Provenzano, di Brusca stigmatizzò le “oscillazioni che suggeriscono una certa improvvisazione e mettono in seria crisi la possibilità di fare pieno affidamento sulle indicazioni di dettaglio da lui fornite”. In modo garbato sottolineò l’insorgere nel pentito di una “possibile sopravvenuta esigenza di assecondare alcune ipotesi accusatorie determinata dalla volontà di acquisire qualche benemerenza”. Brusca poteva avere voluto compiacere chi lo interrogava.

 

Siamo alla mistica del pentitismo. Brusca ha detto: “Era come se io vivessi in un’altra dimensione, in un altro mondo”

 

Meno diplomatica fu Marina Pitruzzella, motivando l’assoluzione di Mannino al processo stralcio sulla Trattativa. Il tempo le ha dato ragione, a partire dalla bordata contro il modello investigativo dei pubblici ministeri che spacciavano le “congetture” dei pentiti per certezze. Le interpretazioni di Giovanni Brusca sarebbero state “suggerite dalle molteplici sollecitazioni, ricevute nel corso di interrogatori, a volte anche molto sofisticati, degli inquirenti e dalle contestazioni fattegli durante i suoi esami”.

 

In un gioco di seduzioni Brusca iniziò “ad arricchire i suoi resoconti di elementi eclatanti, congetture e sintesi, anche confuse e di difficile comprensione, anche per gli stessi inquirenti che lo interrogavano”. Il “collaboratore subì un martellamento, sempre sugli stessi episodi” e i rappresentanti dell’accusa hanno finito per attribuirgli “cognizioni di fatti, facoltà interpretative e ricostruttive che all’atto pratico il collaboratore ha mostrato di non possedere”. Colpa “dell’eccesso di interrogatori” che in Brusca “determinò a un certo punto un inevitabile condizionamento mentale, accentuando la sua tendenza a reputarsi depositario di molte verità non rivelate”. 

 

Siamo alla mistica del pentitismo che si concretizza nella frase pronunciata da Brusca e riportata nell’ultimo libro di don Marcello Cozzi, che fa parte della commissione voluta da Papa Francesco per la scomunica alle mafie: “Era come se io vivessi in un’altra dimensione, in un altro mondo”. Ogni occasione torna utile a Brusca per ribadire che “la legge sui collaboratori di giustizia è una delle armi più vincenti che lo stato si ritrova in mano”. Vincente e necessaria nella stagione del terrore stragista. Nell’accordo con i pentiti, però, non era previsto che lo stato perdonasse anche le loro bugie. In nome dell’antimafia sono state distrutte vite senza spargere sangue. Con i processi o anche solo con lo sputtanamento. Bastava citare un rigurgito da verbale di un pentito per massacrare gli innocenti che per alcuni sono colpevoli fino a prova contraria. E’ un prezzo troppo alto che non era necessario pagare.

  

La legge sui pentiti ha dato fiato a personaggi come Pietro Riggio, l’ultimo pataccaro che si è affacciato sul palcoscenico della Trattativa. Paragonato a Tommaso Buscetta da Antonino Di Matteo per la possibilità di “fare il salto di qualità” nel racconto dei “rapporti osceni fra il potere e Cosa nostra”. Celebrato da Antonio Ingroia come il “pentito di stato” necessario per ricostruire la stagione delle stragi. E pazienza se ha tirato fuori certi argomenti dieci anni dopo l’inizio della sua collaborazione. Ci ha spiegato che i servizi segreti, italiani e libici, hanno partecipato alla strage di Capaci insieme a Cosa nostra. Si sono presi gioco dello stesso Brusca che, a suo dire, avrebbe un peccato mortale in meno da farsi perdonare. Ha creduto di avere schiacciato il telecomando dell’attentatuni di Capaci, ma in realtà non è stato lui.

 

Il giurista Giovanni Fiandaca: “Al centro delle contestazioni dopo la scarcerazione di Brusca non sembra esservi la credibilità dei collaboratori”

 

Nella smania di alzare il tiro Riggio ha aggiunto che un ruolo nella strage lo ebbe l’ex poliziotto Giovanni Peluso, un illustre sconosciuto incontrato in carcere. Riggio, un tempo agente della penitenziaria, ha raccontato di averlo visto giungere insieme a Giovanni Aiello, “faccia da mostro” e uomo dei misteri per tutte le stagioni, a bordo di una macchina di cui aveva annotato la targa. Solo che il numero apparteneva a un trattore. Non contento Riggio aggiunse di avere saputo in carcere da Vincenzo Ferrara, cognato del boss Piddu Madonia, che fu Dell’Utri a indicare i luoghi dove mettere le bombe per le stragi di Roma e Firenze. O il cognato gli è apparso in sogno oppure deve avere fatto confusione perché Madonia non ha un cognato che di cognome fa Ferrara.      

 

Nessuno si è scandalizzato. Non si è mai visto revocare il programma di protezione come collaboratore né per le dichiarazioni fuori tempo massimo, né per le bugie. Nessuno si è indignato per la gestione dei pentiti. La scarcerazione di Brusca è stata l’ennesima occasione mancata per aprire una seria riflessione pubblica sulla collaborazione giudiziaria. Ha ragione il giurista Giovanni Fiandaca quando dice che “al centro delle contestazioni non sembra esservi la credibilità dei collaboratori di giustizia”, la cui proliferazione crescente è alquanto sospetta. “Personaggi fantasmatici”, li ha definiti Fiandaca, “di presunta appartenenza all’oscuro e torbido sottosuolo dei soliti servizi segreti immancabilmente deviati, immessi a scoppio ritardato nella ribalta giudiziaria da pentiti vecchi o nuovi, pronti – guarda caso – a recuperare la memoria al momento processuale da loro ritenuto opportuno”. La libertà di Brusca ha scandalizzato perché la giustizia è apparsa ingiusta a fronte delle ferocia del boss. 

 

Sono le regole, possono piacere o meno. Possono essere messe in discussione e cambiate, soprattutto alla luce di un’emergenza mafiosa che per fortuna non è più quella degli anni Novanta. Semmai a Brusca qualcuno, non oggi ma da tempo, avrebbe dovuto contestare le acrobazie della memoria. Giù la maschera, allora. Forza e coraggio. Il gesto di Mutolo non sia isolato. Non si intravedono, però, all’orizzonte segnali per non essere pessimisti.

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