l'intervista alla festa del foglio

Cartabia: “Basta processi mediatici”

Claudio Cerasa

Contro le indagini trasformate in sentenze definitive. Contro la barbarizzazione delle carceri. Contro i negazionisti del sovraffollamento. La discontinuità sulla giustizia è possibile. Dialogo con Marta Cartabia  

Pubblichiamo l’intervista fatta dal direttore Claudio Cerasa, domenica scorsa alla Festa dell’ottimismo del Foglio, al ministro della Giustizia Marta Cartabia.

 

Ministro, noi, come sa, siamo ottimisti a volte anche in maniera un po’ irresponsabile, e cerchiamo di vedere opportunità ovunque, anche laddove è molto complicato vederne qualcuno. Quando parliamo di giustizia però un po’ ci blocchiamo e tendiamo a essere più preoccupati che ottimisti. E d’altronde, ministro, se si guarda a quella che è la situazione della giustizia in Italia in questo momento ci sono alcuni dati che colpiscono e che persino spaventano. L’Italia è il paese delle 1.202 condanne per durata irragionevole dei processi. L’Italia è il paese dei 3 milioni di procedimenti pendenti. L’Italia è il paese dove, in tribunale, un procedimento dura 348 giorni, 627 giorni in appello e due anni e quattro mesi se non ricordiamo male in Cassazione. Ministro, onestamente: come si fa a essere ottimisti sulla giustizia oggi in Italia?

“Come si fa a essere ottimisti in generale, io direi, perché l’ottimismo deve radicarsi in qualcosa di molto solido nel presente, per cui parlare con uno sguardo positivo all’ottimismo, uno sguardo positivo sul futuro, credo che sia ragionevole soltanto offrendo alla riflessione dei cittadini e degli osservatori qualche dato concreto di ciò che è frutto del lavoro di questi mesi e che ci fa recuperare un senso di fiducia simile a quello che io respiro quando visito le Corti d’appello. È un compito che mi sono data, quello di andare a vedere la situazione nelle varie realtà italiane. Quello che io vedo è non solo fiducia, ma anche una gran voglia di rinnovamento. Mi sembra che siano ingredienti sufficienti per guardare con positività verso il nostro futuro”.

 

   “Il Csm? L’indipendenza della magistratura deve essere esterna verso gli altri poteri ma anche interna”

 

Una delle caratteristiche di questo di questo governo è la discontinuità con il passato. E il tentativo di costruire una giustizia un po’ più garantista e un po’ meno giustizialista è senz’altro una discontinuità importante rispetto a stagioni precedenti. Può spiegarci perché introdurre una dose maggiore di garantismo in Italia potrebbe aiutare a rendere il paese più giusto e anche più attrattivo dal punto di vista economico?

“L’unico faro che io ho sempre in tutte le azioni e le proposte che abbiamo fatto è la Costituzione. La Costituzione è la mia cultura, io vengo da lì, sono una costituzionalista, ho avuto un’esperienza di nove anni alla Corte costituzionale. L’impostazione che naturalmente ho è ‘la Costituzione fondamento del potere e limite al potere’. Serve un potere giudiziario, è necessario, altrimenti avremmo la legge del più forte, che non ha argini, quindi il potere giudiziario fa parte di una delle funzioni fondamentali di ogni stato. Ma trattandosi di uno dei poteri come gli altri, anzi, forse più severo degli altri per la possibilità di incidenza che ha nella vita delle persone e degli attori economici, come tutti i poteri deve incontrare limiti e garanzie per i diritti dei cittadini, degli imputati ma anche delle vittime. Il lavoro che stiamo facendo è connotato da un obiettivo molto chiaro: è l’obiettivo che ci siamo presi con l’Europa, è l’obiettivo di ridurre i tempi dei processi. I dati che lei ha letto all’inizio sono dati che potrebbero essere ancora più corroborati: la situazione che abbiamo trovato era  molto grave, e per questo nel Pnrr ci siamo impegnati a ridurre del 40 per cento la durata del processo civile in cinque anni e del 25 per cento la durata del processo penale in cinque anni. Lo stiamo facendo con investimenti, interventi di organizzazione, di digitalizzazione e anche con tre riforme già messe in atto. Io credo che questo tipo di interventi non soltanto debba nutrire l’ottimismo, ma anche quella fiducia da parte degli investitori e degli operatori economici che mi auguro presto possano vedere un cambio di passo nel nostro paese. Devo dire, andando in giro per il mondo, che già lo vedono”.

 

Ci fa un esempio?

“Sono appena tornata da un viaggio negli Stati Uniti dove ho incontrato i vertici dell’amministrazione giudiziaria americana, sia l’Attorney general che il Chief Justice della Corte Suprema. In questo viaggio, a parte l’attenzione, abbiamo parlato proprio delle riforme. Volevano sapere, volevano conoscere. Ma questa stessa curiosità, piena di aspettative, l’ho incontrata anche in tanti operatori economici, sia a Washington che a New York. Abbiamo fatto diversi incontri, almeno tre, con operatori finanziari, imprenditori, professionisti, e il loro interesse è capire in che direzione ci stiamo muovendo, cosa stiamo facendo, quali sono le cose che sono in campo. Devo dire che c’è una grande ammirazione perché in nove mesi sono state approvate dal Parlamento tre riforme importanti: la riforma del processo penale, quella della crisi d’impresa e quella del processo civile, che si è conclusa proprio la scorsa settimana. Ma soprattutto il livello di trasformazione organizzativa della giustizia, questa strutturazione dell’ufficio del processo per cui la scorsa settimana abbiamo concluso già i concorsi (manca una sede che ha avuto un rallentamento per il maltempo) l’assunzione di 8.250 giovani giuristi che vanno ad affiancarsi ai quasi 10.000 giudici è un cambiamento importante, soprattutto per quanto riguarda il modo di lavorare. Il giudice non lavora più da solo, ma ha uno staff che dovrebbe aiutarlo ad abbattere gli arretrati, ad abbattere i tempi e, se possibile, garantire di aumentare la qualità della risposta della giustizia”.

 

In questi ultimi vent’anni qual è stato il grande tabù sulla giustizia con cui l’Italia deve finalmente fare i conti?

“Non saprei dirle qual è il tabù, forse lei ce l’ha in mente… mi dica lei qual è quello a cui sta pensando perché sinceramente non so quale sia”.

 

Ministro, io credo che il grande tabù di questi anni sia stata la non consapevolezza che vi è in Italia di un problema enorme che è quello della separazione dei poteri. Non oso pensare a cosa potrebbe scrivere oggi Montesquieu osservando l’Italia.

“Secondo me la nostra magistratura ha una forte indipendenza e autonomia dal potere politico. È diversa la situazione che si sta ponendo per esempio in paesi come l’Ungheria o la Polonia, dove invece c’è un problema serio di separazione dei poteri che l’Europa sta monitorando in modo molto attento e su cui sta intervenendo in un modo incisivo perché lì davvero c’è, come combatteva Montesquieu, un governo, una struttura politica che sta togliendo spazi di azione alla magistratura. Ciononostante, qual è il problema che si è creato nel nostro paese? È un problema della garanzia dell’indipendenza del singolo giudice all’interno della stessa magistratura. Da noi, sin dal primo anno delle lezioni di Giurisprudenza, si insegna che l’indipendenza della magistratura deve essere esterna verso gli altri poteri ma anche interna, di ciascun giudice, di ciascun ufficio giudiziario. È il lavoro che si sta cercando di fare, lo faremo con la prossima riforma del Csm, che ci è stata sollecitata anche in modo molto energico dal presidente della Repubblica”.

 

La mia domanda, ministro, non era legata a quanto la magistratura sia indipendente dalla politica, ma quanto la magistratura riuscirà nei prossimi anni a non cedere a una tentazione importante: quella di esercitare un ruolo di supplente della politica. Oggi in Italia credo che sia questo il tema: in che modo un piccolo pezzo della magistratura ha avuto talvolta la tentazione di esercitare in modo spregiudicato un potere di supplenza.

“Lei ha ragione a notare il fatto che c’è una grande corpo della magistratura che fa un lavoro straordinario. Non dobbiamo farci abbagliare da alcuni casi clamorosi. Teniamo ben distinti quelli che sono alcuni casi da stigmatizzare e che sono sotto gli occhi di tutti. Quello che io vedo andando in giro per gli uffici giudiziari è che non ci sono uno, due o tre nomi di magistrati, ma ci sono migliaia di persone che sono operosissime e secondo me la maggiore garanzia per la vera autonomia e indipendenza della magistratura è l’alta qualità professionale, perché più c’è amor proprio nel lavoro che si fa, meno attaccabili si è dal punto di vista di tentazioni di tipo diverso”.

 

  “Il processo se posto male dal punto di vista mediatico può arrecare un danno alla vita di una persona”

 

In diverse occasioni abbiamo colto nella sua azione di governo una sensibilità sul tema del processo mediatico, una volontà quasi di eliminare alcune circostanze che possono favorire il processo mediatico. Ci spiega perché questo, secondo lei, è un problema per l’Italia?

“C’è stato anche in questo caso uno spunto molto forte che è venuto da una direttiva europea che non era stata attuata in Italia, ed è una direttiva sulla presunzione di innocenza. Noi nella nostra Costituzione parliamo di presunzione di non colpevolezza. È interessante perché questa direttiva europea, alla quale noi abbiamo dato seguito con un decreto legislativo che è quello che ha suscitato l’attenzione nel dibattito pubblico, collega la garanzia di questo principio, che è un diritto storico, di quelli nati con l’inizio del costituzionalismo, proprio con il problema mediatico. All’inizio non era così. All’inizio la presunzione di non colpevolezza voleva dire che la persona non poteva avere sanzioni, non poteva essere punita giuridicamente fino alla fine del processo, fino alla sentenza definitiva. Perché c’è questo collegamento? Perché nonostante tutte le garanzie giuridiche siano lì da molto tempo, oggi è cambiato il contesto: il solo fatto di una notizia di indagini, oppure che siano stati aperti determinati filoni di inchiesta, se viene immediatamente proposto sulla stampa  come se si fosse già individuato l’esito di quel processo, può pregiudicare nei fatti quel principio che noi vogliamo garantire, cioè il fatto che la persona non è considerata colpevole fino alla fine della sentenza di condanna. Se posto male dal punto di vista mediatico, il processo può arrecare un danno alla reputazione – e quindi anche a tutta la vita professionale, alla vita di una persona o alle sue attività economiche – pressoché irreversibile. Questo non vuol dire che non serva parlare delle indagini: è importantissimo che si preservino spazi di riservatezza e spazi di trasparenza così come sono nel processo. Tutto il processo penale ha l’udienza pubblica che da sempre è aperta e deve poter essere raccontata, ma ha anche dei momenti di riservatezza che debbono rimanere tali. È cambiato il mondo mediatico, è cambiata la possibilità di far circolare informazioni: bisogna farlo con delle nuove garanzie per preservare questo che è un caposaldo del rapporto tra il cittadino e il potere giudiziario. Occorre un bilanciamento diverso, un equilibrio diverso”.

 

 “Se abbiamo tra i 4.000 e i 7.000 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare vuol dire che c’è un grave problema”

 

Lei, ancor prima di diventare ministro, ha dedicato molta attenzione al tema delle carceri. Durante la pandemia, se non ricordo male, ci sono stati 18-19 morti all’interno delle carceri: è una cosa che non è capitata in nessun paese occidentale in un numero così elevato. Che cosa dice oggi a chi nega che in Italia vi sia un problema di sovraffollamento delle carceri?

“L’unica cosa che vorrei dire è: leggete i dati. Il punto saldo da cui possiamo partire è il dato della realtà. Quanti sono i detenuti oggi? Circa 54.500. La capienza regolamentare delle carceri è di poco superiore a 50 mila posti per l’ospitalità, di cui circa 3.500 non sono attualmente disponibili per problemi di struttura, di inagibilità di determinati settori, di determinate carceri. Quindi il problema sussiste: se abbiamo tra i 4.000 e i 7.000 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare, evidentemente c’è un problema di sovraffollamento. Spesse volte si dice: ‘Sì, ma è un sovraffollamento calcolato sulla base di alcune indicazioni della Corte europea che, anni fa, nel caso Torreggiani, chiese di avere almeno a disposizione per ogni detenuto 3 metri quadrati’. Certo, è così, il sovraffollamento va calcolato alla luce degli standard europei. Quella sentenza ha messo in atto nel nostro ordinamento delle riforme, se non sbaglio fu proprio il governo Monti – e saluto il presidente Monti che vedo qui in prima fila – che dovette affrontare quella emergenza straordinaria insieme ad altre emergenze, proprio perché fino a quell’epoca non c’erano nemmeno 3 metri quadri disponibili per ogni detenuto. Il che significa che il problema del sovraffollamento carcerario c’è. Si sta lavorando tantissimo sul settore delle carceri, però il bisogno è immenso. Ci sono istituti che gridano vendetta. Ho promesso al sindaco Nardella che ci fermiamo un attimo dopo per prendere un accordo per una visita a Solliciano. Vorrei poter veramente andare a visitare quel carcere al più presto perché, lo dico sempre, bisogna aver visto. Come abbiamo visto con il presidente Draghi la situazione di Santa Maria Capua Vetere, quando si vede che cos’è la vita in un carcere poi ci si va piano a fare certi commenti”.

 

Qualche giorno fa, ministro, quando è stato dato l’ok alla riforma della giustizia civile, lei ha ringraziato il Parlamento per, così ha detto, “l’alto senso di responsabilità dimostrato”. Ora, il Parlamento avrà qualche mese di tempo per trasformare in realtà questa legge. Lei è ottimista sulla capacità che la politica, sulla giustizia, riesca a imparare dagli errori del passato?

“Io parlo con i fatti. Quando si parla soprattutto della giustizia penale, parliamo di un argomento che ha diviso, ha polarizzato in modo estremo il nostro dibattito politico. Con fatica, non neghiamolo, ai primi di agosto abbiamo approvato una riforma del processo penale. Abbiamo approvato una riforma del processo civile che aveva meno sensibilità politiche, ma tante divergenze di punti di vista, ci sono anche tante sensibilità dei vari stakeholders della giustizia, gli avvocati, i giudici pubblici ministeri, i tribunali dei minorenni… abbiamo fatto un pezzo di riforma importante della giustizia di famiglia, che è un terreno sensibilissimo per altre ragioni nel nostro paese. Certo, abbiamo fatto un lavoro di convergenza verso obiettivi possibili. Io non credo che queste riforme siano perfette, definitive, però le abbiamo fatte. Abbiamo fatto queste due grosse leggi delega della riforma del processo penale e del processo civile, il Parlamento, con uno sforzo anche quantitativo, ha assecondato diciamo così i tempi del governo che erano tempi imposti dall’Europa: se non finivano entro il 31 dicembre queste grosse riforme sarebbe stata compromessa l’erogazione dei fondi di tutto il Pnrr, non solo di quelli per la giustizia: i 209 miliardi sarebbero stati a rischio. C’è stato questo input dall’esterno che ci ha molto aiutati, ma alla fine, con un po’ di pazienza e, non lo nego, con una certa disponibilità alla mediazione perché forse io avrei voluto fare qualcosa di più in una certa direzione o in un’altra, si sono trovate l’energia e la  forza di arrivare a un consenso comune. Non era scontato: il clima politico sulla giustizia era forse il clima più infiammato di tutti. Eppure, devo dire che i fatti dicono che si può fare, perché è stato fatto. Quindi sì, sono fiduciosa. Adesso il compito è nostro, non è del Parlamento: i decreti legislativi sono del governo, sul penale abbiamo già all’opera vari gruppi di lavoro, abbiamo un anno di tempo per attuarli ma io spero di far prima, di metterci qualche mese”.

 

  “Il clima politico sulla giustizia era  il clima più infiammato di tutti. Eppure, i fatti dicono che molto si può fare”

 

Qual è, secondo lei, l’elemento più importante di discontinuità sulla giustizia portato avanti da questo governo nella sua azione quotidiana?

Poterne parlare e poter costruire trovando una strada condivisa. Io però non so se parlerei proprio di discontinuità: questo governo ha dentro di sé delle componenti politiche che sono anche dei governi precedenti, al plurale. I governi precedenti avevano visioni molto diverse sulla giustizia, l’uno dall’altro. L’elemento di cui io sento di dire sia il risultato politicamente più significativo è l’essere ritornati a parlare di giustizia e a parlarne per fare delle riforme condivise. Questo mi sembra l’elemento diverso rispetto al passato a breve termine, ma anche più a lungo termine. La storia che non si potevano fare le riforme della giustizia pesca lontano nella nostra storia. A me sembra il dato più significativo: un inizio di condivisione di un percorso”.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.