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L’impero del politicamente corretto

Catalogo dei nuovi eretici perseguitati dalla tirannia delle minoranze

Giulio Meotti

Colonialismo, clima, razzismo, gender. I quattro peccati capitali secondo il manierismo ideologico che avvelena con la censura le università e i media occidentali

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Il presidente dell’Associazione degli storici americani, James H. Sweet, blasonato studioso di Africa e schiavitù, aveva raccontato di una sua visita al castello di Elmina, sulla costa del Ghana. Costruita dai portoghesi nel 1480 per il commercio dell’oro, Elmina era un centro del mercato degli schiavi. Un luogo cupo e sinistro. Elmina è anche un luogo di pellegrinaggio per gli afroamericani. Ma Sweet ha identificato un problema. Gli schiavi trasportati negli Stati Uniti non passarono da Elmina. Elmina era un hub per i mercati di schiavi nei Caraibi e in Brasile. Ma ci sono pochi turisti dal Brasile e dai Caraibi e così Elmina ha adattato la sua storia per attrarre i visitatori americani. Quando fu costruita Elmina, e per molto tempo dopo, gli europei non si avventurarono mai nell’entroterra africano, ma operavano sulla costa, trattando con schiavisti africani che vendevano loro schiavi locali e prigionieri di guerra. Ma tutto questo non viene raccontato perché poco si adatta alla narrativa woke. E questa falsificazione della storia ha infastidito Sweet. Sweet ha usato un gioco di parole – “Is History History?” – per il titolo del suo saggio che ha fatto tremare e lo ha costretto a scuse umilianti e maoiste. Non è che la storia sia usata a scopi ideologici piuttosto che storici? Va da sé che Sweet non è più presidente.

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Il presidente dell’Associazione degli storici americani, James H. Sweet, blasonato studioso di Africa e schiavitù, aveva raccontato di una sua visita al castello di Elmina, sulla costa del Ghana. Costruita dai portoghesi nel 1480 per il commercio dell’oro, Elmina era un centro del mercato degli schiavi. Un luogo cupo e sinistro. Elmina è anche un luogo di pellegrinaggio per gli afroamericani. Ma Sweet ha identificato un problema. Gli schiavi trasportati negli Stati Uniti non passarono da Elmina. Elmina era un hub per i mercati di schiavi nei Caraibi e in Brasile. Ma ci sono pochi turisti dal Brasile e dai Caraibi e così Elmina ha adattato la sua storia per attrarre i visitatori americani. Quando fu costruita Elmina, e per molto tempo dopo, gli europei non si avventurarono mai nell’entroterra africano, ma operavano sulla costa, trattando con schiavisti africani che vendevano loro schiavi locali e prigionieri di guerra. Ma tutto questo non viene raccontato perché poco si adatta alla narrativa woke. E questa falsificazione della storia ha infastidito Sweet. Sweet ha usato un gioco di parole – “Is History History?” – per il titolo del suo saggio che ha fatto tremare e lo ha costretto a scuse umilianti e maoiste. Non è che la storia sia usata a scopi ideologici piuttosto che storici? Va da sé che Sweet non è più presidente.

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Intanto la casa editrice inglese Bloomsbury si era rivolta a Nigel Biggar, professore emerito di teologia a Oxford, per un libro sul colonialismo. I termini erano stati concordati e Biggar aveva consegnato il manoscritto, intitolato “Colonialism: A Moral Reckoning”, alla fine del 2020. Il libro sostiene che l’Impero britannico ha imparato dai suoi errori ed è stato sempre più spinto da ideali umanitari e liberali, in particolare attraverso l’abolizione della schiavitù. Biggar accusa gli storici di “esagerare” i peccati del colonialismo, concludendo che sono animati dal “disprezzo per l’occidente”. Dopo aver letto il manoscritto, l’editor di Biggar a Bloomsbury gli ha inviato un’email per dire che era “senza parole” per l’entusiasmo. “La tua ricerca è esaustiva. La tua argomentazione è trasmessa con cura e precisione. Questo è un libro importante”.

Tuttavia, tre mesi dopo, Biggar ha ricevuto un’altra email da Sarah Broadway, uno dei capi di Bloomsbury, in cui si diceva che “le condizioni non sono favorevoli alla pubblicazione”. Biggar le ha chiesto di chiarire cosa intendesse e la casa editrice ha risposto: “Riteniamo che il sentimento pubblico sull’argomento attualmente non supporti la pubblicazione del libro e lo rivaluteremo l’anno prossimo”. Poi ha spiegato che Bloomsbury voleva liberare Biggar dal suo contratto. Biggar, a cui è stato detto da una fonte a Bloomsbury che i dirigenti senior hanno scelto di non pubblicarlo perché il personale più giovane non amava il suo lavoro, ha risposto: “E’ abbastanza chiaro… la sinistra woke”. Ha aggiunto: “Piuttosto che pubblicare argomenti convincenti e verità importanti che attirerebbero l’aggressione di questi illiberali, avete scelto di allinearvi. In tal modo, avete dato il vostro contributo all’espansione dell’autoritarismo e al restringimento della diversità morale e politica”. In un’Inghilterra che ha tolto il nome di Sir Francis Drake dalle sue scuole per damnatio memoriae, il libro di Biggar aveva la colpa di non gettare abbastanza sale sulle ferite della storia. Di Biggar parla l’Economist: “Gli autori sono stati eliminati; i libri sono stati sepolti; le persone hanno perso il lavoro; lettori sensibili sono stati impiegati per garantire il rispetto della morale moderna. Un libro sul colonialismo di Nigel Biggar, professore emerito all’Università di Oxford, è stato accolto dal suo editore, Bloomsbury, come un’opera di ‘maggiore importanza’ e poi rimandato, apparentemente a tempo indeterminato, perché ‘l’opinione pubblica... pubblicazione del libro’. Ora è uscito sotto un altro editore”.

Ora il libro esce e, come scrive il Wall Street Journal, si capisce perché dava tanto fastidio. Una difesa misurata dell’eredità coloniale occidentale: Biggar sostiene che l’impero britannico ha fatto più bene che male. E così una preziosa polemica è stata salvata dalla morte sul nascere per mano dei nostri arbitri progressisti del gusto e del pensiero giusti, persone per le quali le domande sollevate da Biggar sono troppo imbarazzanti, troppo sbagliate per poter essere anche soltanto espresse sulla stampa, figuriamoci in un libro.

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Gli oppositori intellettuali di Biggar sono gli anticolonialisti che abbondano nel mondo accademico occidentale, “autoproclamati portavoce delle minoranze non bianche” che insistono sul fatto che il “razzismo sistemico” è “nutrito da una mentalità coloniale persistente”. Il loro scopo, scrive Biggar, è corrodere la fede nella civiltà occidentale denigrandone il passato. Elenca i mali del colonialismo britannico, “non solo illeciti o ingiustizie colpevoli, ma anche danni non intenzionali”. Questi includono la schiavitù “brutale”; la diffusione di malattie mortali; lo “spostamento ingiusto” dei nativi da parte dei coloni; aggressione militare ingiustificabile (come la prima guerra dell’oppio, 1839-42, quando l’Impero britannico dichiarò guerra alla dinastia cinese Qing); l’uso sproporzionato della forza (il massacro di Amritsar, in India, nel 1919).

Poi c’è il bene fatto dall’impero. L’arrivo del cristianesimo, spiega Biggar nel libro, ha eroso le culture locali, ma ha anche significato una guerra contro le mutilazioni genitali femminili in Africa. “In Kenya la mortalità infantile annuale tra gli africani è diminuita da 300-500 morti per mille nati vivi negli anni 20 a 145 negli anni 50”, osserva Biggar. La creazione di un “libero mercato mondiale” che ha offerto ai produttori e agli imprenditori nativi opportunità prima assenti; l’instaurazione della pace imponendo freni ai popoli in guerra, alcuni dei quali avrebbero annientato i loro avversari; l’istituzione di una funzione pubblica e di giudici “straordinariamente incorrotti” (soprattutto se paragonati ai loro successori postcoloniali); la realizzazione di infrastrutture essenziali (sì, le ferrovie: gli inglesi costruirono più binari in India di quanto ne fecero tutti gli altri colonialisti europei nei loro imperi); la diffusione della scienza e della medicina; e l’introduzione di riforme sociali che hanno innalzato il tenore di vita e alleviato la difficile situazione dei più oppressi.

Per quanto riguarda la schiavitù, vulnus ideologico contemporaneo, per la seconda metà dell’esistenza del suo impero, “la lotta alla schiavitù, non la schiavitù, era al centro della politica imperiale”, ovvero 150 anni di “penitenza imperiale” abolizionista. Contrariamente a “Orientalismo” di Edward Said (1978), Biggar scrive che le culture non occidentali furono “salvate dall’oblio, non cancellate, dagli orientalisti britannici”.

Biggar cita Tirthankar Roy, un professore di storia indiana alla London School of Economics, il quale ha scritto che la East India Co. “è arrivata a governare l’India perché molti indiani volevano che governasse l’India”. Biggar cita Manmohan Singh, ex primo ministro indiano, che a Oxford nel 2005, quando gli fu conferita una laurea ad honorem, affermò che la costituzione indiana “rimane una testimonianza della duratura interazione tra ciò che è essenzialmente indiano e ciò che è molto britannico nel nostro patrimonio intellettuale”. Ma sarebbe banale scrivere che l’Impero britannico “ha fatto del bene così come del male”. Biggar va oltre. L’Impero britannico, si chiede, “ha fatto più bene che male?”.

Questo è il tipo di domanda che oggi suscita sussulti censori, cancel culture e soffici roghi wokisti. Ma è solo una delle domande evase a forza dal conformismo sommato alla repressione attraverso cui si impone la tirannia delle minoranze per cui maschi e femmine non esistono, il nero è il colore dell’innocenza e il bianco del peccato, la terra soffre per i crimini da CO2 del maschio bianco capitalista e la civiltà occidentale deve espiare di esistere.
“Una delle nostre nuove derive ideologiche è il culto della vittima, non solo reale, ma autoproclamata” scrive il filosofo della Sorbona Rémi Brague nella prefazione a un nuovo libro, “Les illusions dangereuses”. Brague sostiene che le minoranze vogliono diventare i nuovi padroni. “Si pensi alla frase tanto celebre quanto enigmatica di Franz Kafka: ‘La bestia ruba la frusta al padrone e frusta se stessa per diventare padrone’” scrive Brague. “Rivela l’intenzione che governa le strategie di coloro che si presentano come vittime: per loro, che ne siano consapevoli o meno, non si tratta in alcun modo di porre fine ai rapporti basati sul dominio, ma semplicemente di invertire gli equilibri di potere e diventare a loro volta colui che domina”.

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Ne sa qualcosa Alex Byrne, professore di Filosofia al prestigioso Massachusetts Institute of Technology negli Stati Uniti, dove hanno insegnato filosofi come Hilary Putnam. Neanche i titolari di cattedra nelle università più importanti del mondo sono più al sicuro o possono vantare lasciapassare intellettuali. “La Oxford University Press (OUP) mi aveva offerto un contratto e come titolo abbiamo optato per ‘Trouble with Gender’” racconta Byrne. “Avevo già pubblicato con loro ed ero soddisfatto. Mi era stato detto da un editore che il libro ‘promette di essere importante’ e che OUP lo avrebbe promosso per un pubblico generale. Armato del contratto, ho iniziato a scrivere. Mentre mi occupavo di ‘Trouble with Gender’, ho ricevuto un invito a contribuire con un capitolo sui pronomi per l’Oxford Handbook of Applied Philosophy of Language. Gli accademici accettano questi inviti perché la pubblicazione è praticamente garantita e il processo di revisione superficiale. Mentre lavoravo al capitolo, mi sono reso conto che l’argomento era più ricco di quanto pensassi inizialmente. Mi sono consultato con filosofi, femministe, linguisti e persone trans. Mi sono ritrovato con una bozza di oltre 14.000 parole. Non ero sicuro di cosa aspettarmi. Ho saputo che un’altra collaboratrice del manuale, una filosofa, aveva detto che avrebbe ritirato il suo capitolo se il mio fosse stato pubblicato. In attesa di un verdetto sul capitolo dei pronomi, ho continuato a lavorare sul mio libro e ho presentato il manoscritto. Era strettamente conforme alla proposta iniziale, sia nello stile che nella sostanza. Poi ho ricevuto una risposta sui pronomi: il mio capitolo non sarebbe apparso e non erano ammesse revisioni. Così è stato commissionato un capitolo sostitutivo sui pronomi. E a differenza del mio ha ignorato qualsiasi eretica femminista. Un paio di settimane dopo, ho saputo che la Oxford University Press non avrebbe pubblicato neanche ‘Trouble with Gender’. Non sono stati individuati errori nel manoscritto e, come per il capitolo dei pronomi, non sono state consentite revisioni. Abbattuto dalle ore che avevo sprecato, non ho opposto resistenza. L’editore non voleva pubblicare il libro”.

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La cantante irlandese Róisín Murphy si è appena vista cancellare i concerti e interrompere la promozione discografica perché qualcuno ha fatto uno screenshot di un messaggio che aveva scritto sul suo account Facebook privato. Vi aveva espresso dubbi sui bloccanti della pubertà, affermando che i bambini vulnerabili dovrebbero essere protetti. Scrive Suzanne Moore sul Telegraph che “Murphy aveva infranto una regola non detta nelle arti, che è ‘tieni la testa bassa su qualsiasi questione che abbia a che fare con l’ideologia di genere’. C’è una linea e una sola linea altrimenti verrai cancellato. Metà delle persone che la attaccano non sembrano nemmeno sapere cosa ha detto, ma la pira è stata costruita, quindi la folla si riunisce per accendere la fiamma. E’ uno spettacolo terribile”.

Intanto si allestiva lo spettacolo del processo alla deputata finlandese Päivi Räsänen, che il 31 agosto si è presentata presso la Corte d’appello di Helsinki per aver condiviso pubblicamente le sue convinzioni cristiane sul matrimonio e sulla sessualità. Tutto è iniziato quando Räsänen ha saputo che i vertici della sua chiesa avevano deciso di sponsorizzare ufficialmente l’Helsinki Pride Parade. Si è rivolta a X (ex Twitter) per chiedere come la loro decisione potesse essere conciliata con gli insegnamenti biblici e ha allegato l’immagine di un versetto della Bibbia a sostegno della sua argomentazione. Sottoposta a tredici ore di interrogatori, alla fine l’ex ministro dell’Interno è stata accusata, in modo quasi incredibile, di “agitazione contro un gruppo minoritario”, che rientra fra i “crimini contro l’umanità”. Nell’aprile 2021, il procuratore generale finlandese ha formalmente accusato Räsänen di tre capi d’accusa. Sebbene sia stata assolta all’unanimità, l’accusa ha ostinatamente fatto appello contro la decisione, rifiutandosi di accettare che l’espressione delle convinzioni religiose di Räsänen sia protetta dalla libertà di parola. Il processo si è trascinato per oltre quattro anni e potrebbe continuare per molti altri, bloccando Räsänen in una battaglia legale estenuante e costosa. Un risultato agghiacciante di questo caso è che sempre più persone si autocensureranno per paura di ripercussioni legali.

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La giurista Almut Gadow a fine agosto aveva sollevato preoccupazioni sull’introduzione di diverse identità di genere nel curriculum e la richiesta agli studenti a usare i “pronomi preferiti”. A Gadow è stato detto che i suoi post relativi all’identità di genere equivalevano a “grave insubordinazione.” Così è stata licenziata per “cattiva condotta”. Gadow ha dichiarato: “Il mondo accademico è stato conquistato da un movimento politico, non è una questione di sinistra o di destra. E’ una questione di totalitarismo. Lo abbiamo visto sotto entrambi i regimi. Non pensavo che sarebbe successo così in Inghilterra”.
Nella sua pagina di raccolta fondi per la causa che ha deciso di intentare all’università, Gadow scrive: “Sono cresciuta in una famiglia di psicocriminali. Mio nonno era uno studente universitario quando i nazisti ripulirono il mondo accademico dai pensatori sbagliati e dalle loro idee. Piuttosto che continuare in un’università ideologicamente conforme, ha completato i suoi studi in un’istituzione clandestina. Fu processato per ‘reati linguistici’ e infine condannato a morte per impiccagione. Si è salvato scappando. Vedo la libertà di parola come una caratteristica distintiva tra democrazia e totalitarismo, non un campo di battaglia tra sinistra e destra. La mia famiglia ha visto entrambe le dittature tedesche, quella fascista e quella socialista, di destra e di sinistra, sopprimere la parola ed eliminare il mondo accademico dal dissenso e dai dissidenti. Spero che mia figlia possa un giorno andare in un’università che non elimini i pensatori sbagliati”. Intanto David Greig – uno dei drammaturghi più famosi della Scozia e le cui opere sono state rappresentate ovunque, dal National Theatre alla Royal Shakespeare Company – era costretto a ritrattare i suoi pensieri malvagi. Cosa ha fatto? Gli sono piaciuti due tweet pubblicati da femministe critiche del gender. Greig è stato definito un “transfobico”, che è per la cultura contemporanea è come comunista per la Hollywood degli anni 50. Un collega lo ha denunciato pubblicamente. La pressione su Greig è tale che si è sentito obbligato a scrivere una lettera di scuse allo staff del Royal Lyceum Theatre di Edimburgo, di cui è direttore. “Mi scuso che le mie affermazioni su Twitter siano state imprudenti e dannose”, ha detto. La denuncia di Greig da parte di un collega artista richiama alla mente la “cultura della denuncia” nella Ddr.

Katie Herzog, una giornalista freelance di Seattle, ha pubblicato un articolo sui transgender che ci ripensano. Due giorni dopo ha iniziato a ricevere messaggi di odio. Residenti di Seattle hanno bruciato pile del giornale che l’aveva pubblicata, The Stranger, e affisso adesivi che definivano Herzog una “transfobica”. Herzog ha perso “dozzine” di amici a causa dell’articolo e alla fine si è trasferita a Washington.

E mentre accademici riuniti per una conferenza all’Università di Parigi-Panthéon-Assas venivano colpiti con della vernice rosa e interrotti, fra cui il professor Xavier-Laurent Salvador, rei di criticare il gender, la firma del quotidiano “di qualità” di Melbourne, The Age, Julie Szego, veniva censurata e se ne andava perché non poteva scrivere di gender. Come la editor letteraria Sibyl Ruth, che stava lavorando per l’agenzia Cornerstones quando ha messo in dubbio su Twitter l’idea che “permanente, rossetto e borsetta con catene d’oro = donna.” Alla porta anche lei.

Non si deve dubitare che donna si diventa, non si nasce. Così come del cambiamento climatico: è solo colpa dell’uomo bianco occidentale. Sul clima vige oggi il “consenso” di cui scrive Patrick T. Brown, climatologo direttore del Climate and Energy Team presso il Breakthrough Institute, su The Free Press di Bari Weiss: “Non ho detto tutta la verità per pubblicare il mio paper sul cambiamento climatico. Sapevo di non dover cercare di quantificare aspetti chiave diversi dal cambiamento climatico nella mia ricerca perché avrebbe diluito la storia che riviste prestigiose come Nature e la sua rivale, Science, vogliono raccontare. Chi dirige queste riviste ha reso abbondantemente chiaro, sia con ciò che pubblicano sia con ciò che rifiutano, che vogliono paper sul clima che confermino alcune narrazioni pre-approvate, anche quando queste narrazioni vanno a scapito di una più ampia conoscenza per tutti dell’argomento. Gli autori non citano mai che il cambiamento climatico non è il motore principale di nessuno di questi impatti: le morti legate al caldo sono in calo e i raccolti sono in aumento da decenni, nonostante il cambiamento climatico”.

La cancellazione del discorso che il Premio Nobel per la fisica 2022 John Clauser doveva tenere sui modelli climatici al Fondo Monetario Internazionale lo dimostra. Brendan O’Neill, direttore di Spiked, in un lungo saggio lo chiama il “processo alle streghe climatiche”. Ne sa qualcosa David Malpass, che non è uno scienziato ma il presidente della Banca Mondiale, appena cacciato un anno prima della scadenza del suo mandato per “negazionismo climatico”. Il primo a farne le spese fu William Happer, professore emerito di Fisica atomica a Princeton cui si deve lo sviluppo dell’ottica adattiva sulla correzione della curvatura dello specchio di un telescopio per risolvere i difetti dell’immagine astronomica, che venne cacciato da Al Gore. Il professor Lennart Bengtsson – climatologo svedese tra i più famosi al mondo direttore dell’Istituto di meteorologia Max Planck di Amburgo – aveva detto che la pressione era così intensa perché si dimettesse dal consiglio accademico della Global Warming Policy Foundation da non essere più in grado di continuare a lavorare e che temeva anche per la propria salute. Una sorta di “fatwa verde” quella che gli è stata lanciata, fatta di intimidazioni professionali, colleghi che hanno ritirato l’appoggio a progetti condivisi e studi. Lo racconta lo stesso Bengtsson: “Non vedo altra soluzione se non dimettermi. Mi ricorda i tempi di McCarthy: non mi sarei mai aspettato nulla di simile da una comunità tanto pacifica in origine come la meteorologia”. Bengtsson aveva accettato di far parte della fondazione di scienziati scettici da tre settimane: “Ero sotto una pressione di gruppo così enorme che è diventato insopportabile”, ha scritto nella lettera di dimissioni.

Wolfgang Wagner, direttore della rivista Remote Sensing, si è dimesso dopo aver ammesso che un articolo che metteva in dubbio il cambiamento climatico provocato dall’uomo e secondo cui i modelli computerizzati del clima hanno gonfiato le proiezioni dell’aumento della temperatura non avrebbe dovuto essere pubblicato. E non si deve neanche dubitare che il “razzismo sistemico” spieghi tutto. Il direttore del Journal of the American Medical Association, Howard Bauchner, si è dimesso dopo che Edward Livingston, un redattore della prestigiosa rivista, aveva affermato che i “fattori socioeconomici”, non il “razzismo strutturale”, frenano le comunità di colore in America. Una petizione, firmata da più di 9.000 persone tra cui molti colleghi di Livingstone, ne chiedeva la testa. Grave colpa, sostenere che le minoranze in America soffrono non solo del razzismo dei bianchi, ma anche delle proprie mancanze.

Il direttore di una delle riviste di psicologia più prestigiose al mondo, Perspectives on Psychological Science, si è dimesso dopo che il consiglio di amministrazione dell’editore della rivista gli aveva chiesto di farsi da parte, o di essere licenziato. L’eminente psicologo tedesco Klaus Fiedler ha suscitato polemiche accettando di pubblicare critiche a un articolo di Steven Roberts, uno psicologo nero dell’Università di Stanford, che aveva sostenuto, tra le altre cose, che la “leadership daltonica” (che non privilegia la razza) promuove “disuguaglianza strutturale.” Ciò ha portato a una petizione, pubblicata il 2 dicembre e firmata da oltre 1.000 psicologi, che chiedeva il licenziamento di Fielder, sostenendo che il direttore aveva violato le “politiche di diversità e inclusione” del giornale.

Zac Kriegman aveva il curriculum ideale: laurea in economia, dottorato a Harvard e anni di lavoro fra startup e consulenze. L’ultimo alla Thomson Reuters Corporation, il conglomerato internazionale dei media che possiede la Reuters. Kriegman aveva assunto il titolo di “Director of Data Science”. Kriegman è stato denunciato dai colleghi e licenziato via email. Aveva commesso un reato imperdonabile: criticare Black Lives Matter nelle comunicazioni interne dell’azienda. Spinto da quello che ha definito un “obbligo morale” a parlare, Kriegman ha rifiutato di celebrare la narrativa suprematista e i programmi di “diversità e inclusione” della sua azienda; al contrario, ha sostenuto che Reuters stava esibendo un pregiudizio politico. Invitato a “riformare i suoi pensieri”, Kriegman ha rifiutato e lo hanno licenziato.

Storie di cui è piena la cronaca dei giornali anglosassoni. Storie di personalità pubbliche trasformate in psicocriminali. Storiacce di un tempo illiberale in cui, come ha detto Barack Obama, “anche mia figlia dice che la cancel culture è pericolosa”.

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