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Il punto geopolitico

Non è poi così compatto “il mondo multipolare” di Putin e Xi

Francesco Petronella

I paesi coinvolti in una retorica antioccidentale sono in realtà molto più divisi e diversi fra loro di quanto si voglia spesso far credere. Il ruolo degli Stati Uniti e la geografia politica futura spiegati al Foglio dagli analisti

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Un nuovo club di paesi, al seguito di Cina e Russia, sembra pronto a contestare il sistema internazionale a guida euro-americana e ormai, come evidente da fatti recenti, non lo si può più sottovalutare. Molti, in Italia e fuori, guardano con simpatia a questo nuovo blocco e lo ritengono in grado e legittimato a creare quello che Xi Jinping e Vladimir Putin chiamano “il mondo multipolare”. Però se ne sopravvaluta spesso la compattezza, perdendo di vista divisioni e differenze fra gli attori coinvolti, uniti da poco altro se non la retorica antiamericana e antioccidentale. Questo è evidente in alcuni scenari, come il medio oriente, dove Cina e Russia esercitano politiche di potenza difficilmente conciliabili. Il movimento dei “nuovi non allineati” trova oggi la sua cornice nei Brics, acronimo che indica Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica.

 

Questo club è tornato alla ribalta negli ultimi mesi dopo che altri paesi hanno chiesto di entrarvi: si tratta di Argentina, Algeria, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iran, Messico, Pakistan e Venezuela. La possibilità per i “nuovi non allineati” di costituire un sistema credibile e alternativo a quello a guida americana non riguarda solo l’economia, ma anche la capacità di incidere in scenari di crisi assumendosi le relative responsabilità. Gli Stati Uniti lo hanno fatto manu militari in scenari complessi come Iraq e Afghanistan, pagando lo scotto per come hanno gestito la situazione. La penetrazione di attori come Russia e Cina nei vuoti lasciati dagli Stati Uniti riguarda anche questo campo. E Pechino, da questo punto di vista, si è impegnata per la prima volta solo di recente, inserendosi in medio oriente e facendo da broker nel riavvio delle relazioni diplomatiche fra Iran e Arabia Saudita. È quindi possibile creare un medio oriente multipolare – prova generale per un riassetto globale – cogestito da Stati Uniti, Cina e Russia, o al contrario Pechino sta entrando nella regione per sostituirsi tout court agli altri attori?

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“Le cose per ora stanno andando bene, ma nel caso non improbabile che torni a guastarsi la situazione fra Riad e Teheran, è probabile che la Cina faccia molto poco”, spiega al Foglio Jacopo Scita, policy fellow della Bourse and Bazaar Foundation e ricercatore della Durham University. “Non credo che Pechino abbia accettato di essere investita del ruolo di garante tout court dell’accordo, in grado cioè di punire chi eventualmente non rispetterà l’intesa. Probabilmente la Cina eserciterà pressione sui due attori utilizzando l’influenza politica ed economica, ma Pechino si guarda bene dall’inserirsi come garante in senso formale”, dice Scita. In questo contesto “le dichiarazioni rese dalle autorità cinesi riprendono la narrazione di Pechino, secondo cui la regione non ha bisogno di ‘patriarchi esterni’ e che gli stati stessi sono responsabili della propria sicurezza”, prosegue l’esperto. La posizione di Pechino “evidentemente scarica le responsabilità cinesi per quello che riguarda il futuro, in una specie di exit strategy qualora le cose vadano male”.

 

“Non condivido l’opinione prevalente secondo cui il medio oriente multipolare può essere positivo e che si può imparare a convivere con Cina e Russia nella regione”, dice invece al Foglio Cinzia Bianco, analista e coautrice del libro “Le monarchie arabe del Golfo – nuovo centro di gravità in Medio Oriente” (ed. Il Mulino). “Sono convinta che la Cina stia utilizzando i rapporti con le monarchie del Golfo per arrivare più pronta all’inevitabile showdown che si avrà con l’invasione di Taiwan”, spiega la studiosa: “Ci arriveranno più forti avendo convinto le monarchie del Golfo a non allinearsi a quelle che saranno le sanzioni americane”. I cinesi hanno capito che “l’arma più letale contro di loro sarebbe costringere sauditi ed emiratini a smettere di esportare verso Pechino petrolio e gas: se si chiudono quei rubinetti, la Cina va in bancarotta da un giorno all’altro”, dice Bianco.

 

Sulla scia della normalizzazione tra Riad e Teheran, patrocinata da Pechino, si inserisce anche il rientro della Siria di Bashar el Assad nella Lega araba: il dittatore siriano ha preso parte al summit di Gedda, ma la sua presenza è stata “bilanciata” dall’invito al presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Gli Stati Uniti finora hanno protestato piuttosto timidamente, anche se al Congresso è in discussione una proposta di legge per sanzionare chi normalizza i rapporti con Damasco. Secondo Bianco, anche in questo dossier “c’è un evidente sonnambulismo americano”  che si concretizza in “una convinzione malriposta che il medio oriente, soprattutto le monarchie, continueranno a dipendere dagli Stati Uniti e che quando si arriverà alla resa dei conti (su Taiwan) faranno quello che dicono gli americani”. A Washington “si ritiene che l’influenza della Cina resti comunque non paragonabile a quella americana nella regione, in un completo rifiuto di accettare la realtà”, spiega l’esperta. Questa “amnesia” americana “è a tratti inspiegabile anche per quanto riguarda la Russia – prosegue – Nell’ottobre scorso, gli Stati Uniti avevano minacciato ritorsioni contro i sauditi per la loro decisione di allinearsi a Mosca sulla produzione petrolifera. Alla fine, non c’è stata alcuna ritorsione, cosa impensabile fino a dieci anni fa, e questo ha fatto passare un messaggio di debolezza agli attori del Golfo: è tutto un bluff, possiamo procedere speditamente”, aggiunge la studiosa.

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Ma gli attori locali cosa ci guadagnano avvicinandosi sempre più alla Cina? “Semplicemente, Pechino è una potenza in ascesa e il realismo spicciolo è la strada maestra per gli stati arabi. Anche la diversificazione, che soprattutto in Arabia Saudita è parola d’ordine da anni, è più una questione di comunicazione, una spiegazione dietro la quale si cela la transizione tra un allineamento, con gli Stati Uniti, a un altro, con la Cina”, sintetizza Bianco. Ma l’avanzare della Cina nell’area non la porta in attrito anche con la Russia, che fino a pochi anni fa sembrava poter fare il bello e il cattivo tempo nella regione? “Da quando Mosca ha attaccato l’Ucraina si è mostrata debolissima”, risponde l’esperta: “Gli Emirati, che annusano la debolezza, sono già pronti a tuffarsi sul cadavere della Russia in medio oriente e a dividersi le sue spoglie. A me sembra che Mosca e Pechino non abbiano granché da contendersi a livello paritario in medio oriente, perché c’è chiaramente un attore più potente e uno debolissimo”.

 

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Se il medio oriente è una prova generale del cosiddetto “mondo multipolare” del futuro, l’ipotesi che agli Stati Uniti vada bene “dividersi” l’area con Cina e Russia è comunque secondo Bianco da escludersi: “Non è pensabile che a Washington stia bene che emiratini e sauditi aiutino l’Iran a eludere le sanzioni americane, considerato che l’idea statunitense resta ancora – nella scia degli Accordi di Abramo – quella di far normalizzare le relazioni tra Israele e arabi proprio in funzione anti Iran. Di parere opposto è Andrea Ghiselli, della Fudan University di Shanghai, che in un’analisi per il Middle East Institute di Washington, ipotizza una possibile coesistenza sino-americana in medio oriente, che esclude invece la Russia, almeno nel breve-medio periodo. “Washington continuerà a concentrarsi sulle questioni di sicurezza e sulla cooperazione in materia di difesa, mentre Pechino si atterrà alla sua agenda, incentrata sul commercio e sugli investimenti”, spiega l’analista: “Questo non perché i leader cinesi e, soprattutto, americani non vogliano il cambiamento, ma perché fattori interni e internazionali rendono difficile produrre alternative all’attuale approccio perseguito da Washington e Pechino”.

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