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L'editoriale dell'elefantino

Netanyahu è degno di salvezza: il pericolo dei fanatismi in Israele

Giuliano Ferrara

Di fronte all’ondata di protesta, il presidente israeliano ha deciso di sospendere la riforma della giustizia (che non è tutta sbagliata). In gioco un modello di democrazia e la sua attuazione: urge mediare una soluzione accettabile

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Si salva da solo, se si salverà, ma è sicuramente degno di salvezza. Bibi Netanyahu in 14 anni ha dato parecchio al suo paese, e se anche avesse fumato sigari a scrocco e trafficato con i capitalisti dei media per il loro appoggio – direi – pazienza. Ha dato un’economia tecnologica fiorente contro tutto e tutti, ha dato sicurezza e ha impostato la controffensiva contro le pretese nucleari dell’Iran, ha patteggiato con il clown pericoloso della Casa Bianca per lo statuto di Gerusalemme capitale e altro di importanza non minore, compresi i patti con gli emirati, ha mantenuto e sviluppato una democrazia libertaria e fluida perfino esagerata, essendo un laico e un mangiatore di aragosta il venerdì, ha resistito per quattro volte in pochi anni al tentativo di seppellire lui stesso e la sua eredità politica, si è ripreso il governo dopo un anno di impossibile alternativa sperimentata con una coalizione maggioritaria scelta dagli elettori, piena di ceffi ultranazionalisti, baracconi e guasconi e tendenzialmente violenti, non proprio un esecutivo di gentiluomini.

 

Ora di fronte a un’ondata formidabile, molto emotiva ma anche di razionale protesta, che si fonda sulla paura o sul sospetto della tirannia, del colpo di stato costituzionale, e su una tavola dei valori sulla quale vale la pena di dire qualcosa, ha scelto una soluzione all’italiana: la sospensione della riforma della giustizia che castiga l’autonomia dei magistrati e rivaluta il privilegio della maggioranza, cioè del legislativo, tutto rinviato a dopo Pesach in un paese paralizzato da scioperi e manifestazioni, sull’orlo di uno scontro civile bestiale. La democrazia, e Israele quello è, ha i suoi costi. Non si può passare indenni da un assalto dell’establishment e di popolo, in cui metà del paese ti si rivolta contro, sospetta delle tue intenzioni, giudica pessima e antidemocratica una legge in gestazione alla Knesset, e di questa metà fanno parte un bel blocco di diplomatici, i servizi di sicurezza in certa misura, i sindacati uniti, i medici che rifiutano i servizi sanitari, l’high tech, la diaspora internazionale ebraica, una cospicua componente dell’esercito, capitalisti preoccupati per l’eventuale stallo della dinamica economica e tecnologica, numerosi notabili anche di governo del tuo stesso partito, pronti a rischiare il licenziamento e molto combattivi, gran parte dei media e naturalmente l’opposizione politica, compresa quella del capo dello stato, e degli intellettuali di spicco.

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Questo schieramento ha le sue ragioni, le sue bandiere, la sua pretesa di indisponibilità al cambiamento legislativo colpisce per la durezza adamantina, ovvio, ma Netanyahu non ha tutti i torti. In astratto non c’è miglior modello di stato democratico e liberale della separazione dei poteri. E’ dalla metà del Settecento che si conducono battaglie intellettuali e politiche coriacee su questo tema. Il limite agli abusi di potere è nel limite del potere, anche di quello legislativo, non solo dell’amministrazione e dell’esecutivo. La dittatura della maggioranza elettiva non è prevista in democrazia liberale, sebbene in ultima analisi la sovranità appartenga al popolo, che in molti sistemi demoliberali avanzati elegge direttamente i giudici o affida la delega al presidente eletto a suffragio universale. Esiste poi una cultura del rispetto del giudiziario e della sua autonomia, che non è assoluta ma funzionale in un sistema misto e di autorità separate. Tutte queste discriminanti di modello, perfette, che vengono direttamente dal barone di Montesquieu, nella realtà si mescolano e si opacizzano, dando luogo a pratiche pericolose nelle democrazie moderne, con il loro sistema di informazione, con i loro sindacalismi e ideologismi giudiziari, con la formazione politicizzata di parte dell’ordine o del potere togato.

 

La riforma della giustizia di Netanyahu è un po’ come l’articolo 68 inventato dai padri costituenti per impedire al giudiziario di prevaricare sul legislativo, mantenendo entro un limite accettabile la sua indipendenza, proteggendo il voto e l’eletto dalla supplenza di un potere per concorso, anche al costo previsto della autotutela viziosa dei legislatori che non vogliono sottomettersi all’eguaglianza per tutti della legge. Avere per pavidità abolito quell’articolo durante la frenesia delle inchieste sulla corruzione ci è costato una oscura turbolenza che ha avvelenato il sistema politico, i criteri di convivenza e l’immagine del paese per oltre tre decenni. In Israele c’è di più: la democrazia è una caratteristica di sostegno decisiva della battaglia esistenziale dello stato ebraico, circondato da dittature e fanatismi armati, e storicamente il sistema giudiziario, oltre a compiere errori e debordamenti, è stato importante per limitare gli abusi di uno stato guarnigione sempre in combattimento per la propria salvezza, e per legittimarlo agli occhi dei sionisti laici e consapevoli di tutto il mondo. Ora vediamo se questo governo molto mal combinato, in stato di necessità, che non è la cricca di Bibi ma un esecutivo legittimo uscito da una divisione paralizzante e da una grande crisi politica israeliana, riuscirà a mediare una soluzione accettabile. Alimentare fanatismi pro o contro non vuol dire difendere ma indebolire, invece, la democrazia che è unica e preziosa in quel mondo.

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