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nel regno unito

I Tory ripescheranno Boris Johnson?

Paola Peduzzi

Il mercato dei voti e il rancore inguaribile di un partito. Boris Johnson dovrebbe riprendersi ciò che è suo ma i conti interni non sono ancora stati fatti

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Quota cento è l’obiettivo per potersi candidare alla leadership del Partito conservatore britannico e diventare primo ministro, al posto di Liz Truss, che dopo poche ma disastrose settimane si è dimessa giovedì. Cento è il numero minimo di parlamentari a proprio favore che serviranno lunedì a chi ambisce ad andare a Downing Street: al momento nessuno ha questo sostegno, ma dopo corteggiamenti e posizionamenti qualcuno lo avrà. Se è solo uno, sarà premier, se è più di uno ci sarà un voto indicativo dei parlamentari e poi gli iscritti ai Tory faranno di nuovo la scelta: rappresentano lo 0,4 per cento della popolazione inglese, più che un’elezione è un voto in famiglia che cambia le sorti di un intero paese, e pure un po’ del resto del mondo. Ora i favoriti sembrano: l’ex premier Boris Johnson, l’ex cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak e l’attuale leader della Camera dei Comuni Penny Mordaunt.

 

Il primo è stato spodestato all’inizio dell’estate, il secondo ha appena perso la corsa alla leadership proprio con la Truss, la terza era stata eliminata da quest’ultima corsa prima di arrivare al ballottaggio.  Leader riciclati, insomma, che faranno promesse di unità pur essendo schiacciati da vendette e recriminazioni, le stesse che dal 2016 affliggono a tal punto il partito da averlo reso instabile nonostante il consenso popolare, che è forse il paradosso più complesso per una compagine politica: prendere voti ma non sapersi governare, consegnando ogni volta al proprio successore un paese più povero, più diviso, più insofferente. Oliver Wright del Times fotografa così le relazioni all’interno del partito: “I johnsoniani detestano i sunakiani. I sunakiani detestano i johnsoniani. I trussiani detestano i sunakiani ma alcuni anche i johnsoniani. Quanto alla Mordaunt: tutti concordano sul fatto che sarebbe una premier disastrosa”.

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Il ritorno di Boris Johnson è il più chiacchierato, perché il mandato popolare al momento esistente è stato dato a lui, in modo grandioso, nel dicembre del 2019. Dovrebbe riprendersi ciò che è suo, dicono i suoi sostenitori dentro e fuori il palazzo (sono più quelli fuori: sono giorni che le rilevazioni indicano il rimpianto di aver cacciato Johnson e di aver scelto la Truss invece che Sunak), ma i conti interni non sono ancora stati fatti. L’indagine sul partygate che ha determinato le riluttanti dimissioni di Johnson è ancora in corso e le probabilità che l’esito sia una conferma del fatto che l’ex premier avesse mentito al Parlamento sono alte. Quel che è più grave: se non ci fosse la conferma, buona parte del partito la troverebbe una cosa scandalosa perché appunto questa è una compagine che non riesce a trovare una tregua interna e rovescia sul paese i suoi umori. E’ per questo che il Labour, che al momento ha più del 50 per cento dei consensi nei sondaggi (ieri in una rilevazione i Tory erano al 17 per cento), chiede di andare alle elezioni anticipate: non solo perché pensa di avere la prima grande occasione da dodici anni per vincerle, ma perché ha molti elementi per mostrare che s’è rotto l’argine tra i guai dei Tory e il paese.  Ed è esattamente per lo stesso motivo che i Tory faranno di tutto per evitare il voto.

 

In queste ore, i negoziati sono in corso, con tutti i rivolgimenti possibili: c’è chi aveva votato contro Johnson che ora lo sostiene, chi aveva scartato Sunak ora lo riabilita (e sembra che i sunakiani abbiano offerto un ministero a Johnson per evitare che si candidi alla leadership), mentre l’unica candidata ufficiale, la Mordaunt, appare finora la più debole. Tutti sperano che la parentesi Truss sia dimenticata presto, lei che entrerà nella storia per tutte le ragioni sbagliate.

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