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a Washington

Raggiunto l'accordo sul New Deal di Biden. I dem centristi sono ancora l'ago della bilancia

Giulio Silvano

In un Senato diviso a metà, Joe Manchin della West Virginia è uno degli uomini più potenti: democratico moderato, ha spesso votato con i repubblicani. La sua apertura ha consentito l'approvazione del piano di investimenti del presidente contro l'inflazione e a favore dell'ambiente. Il più grande successo dem da quando sono al potere

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“Non ci credo! Joe Manchin ha acconsentito a votare per una proposta di legge? Questo vuol dire che i democratici allora potrebbero concludere qualcosa? Sto sognando? E se è questo il caso, che sogno noioso!”, ha detto Trevor Noah aprendo l’altro giorno il suo Daily Show. Da quando i democratici sono alla Casa Bianca Manchin è diventato, per la sinistra del partito più allergica ai compromessi –  Ocasio-Cortez & Co. – il simbolo del bastian contrario. È stato chiamato spesso “traditore”, più volte minacciato dagli attivisti, perché non approvava tutto quello che proponeva il presidente. Negli anni trumpiani poi, Manchin ha votato spesso dalla parte dei repubblicani, compresa l’approvazione di Brett Kavanaugh alla Corte Suprema – e per questo molti non l’hanno ancora perdonato. L’obiettivo di Manchin è stato anche quello di non inimicarsi troppo Wall Street, e soprattutto di recuperare un elettorato working-class del sud finito nella rete del GoP. È riuscito a restare senatore in uno stato, la West Virginia, dove addirittura il governatore, da democratico, è passato tra le fila di Trump.

 

Mancando in Congresso un dialogo bipartisan coi repubblicani, Manchin è diventato uno degli uomini più potenti a Washington: al Senato la divisione è 50 e 50, con un voto di vantaggio per i Dem che proviene per regolamento dalla VP Kamala Harris. Con questi numeri risicati, dove una persona può fare la differenza, il senatore della West Virginia è stato il principale ago della bilancia per l’ambizioso New New Deal bideniano, il Build Back Better, la grande promessa elettorale. Il principale negoziatore è stato il capogruppo del Senato, il democratico Chuck Schumer, che ha tirato un sospiro di sollievo la scorsa settimana quando Manchin ha mostrato spazio per un’apertura su una proposta che in parte sostituisce il progetto di rinascita di Biden, con un nuovo nome, Inflation Reduction Act. Anche se non arriva alle cifre del piano originario si tratta comunque di un grosso investimento per combattere l’inflazione, affrontare il cambiamento climatico con l’obiettivo di ridurre del 40 per cento le emissioni entro il 2030 e far pagare più tasse alle corporation, con una nuova  tassa minima al 15 per cento. Ci sono oltre 430 miliardi da spendere in diversi settori, tra cui un potenziamento dell’IRS, l’agenzia delle entrate, per controllare meglio che tutti paghino le tasse. È l’investimento più grosso mai fatto per l’ambiente, anche se non ambizioso come quello iniziale. Con le elezioni di metà mandato sempre più vicine, Biden e diversi leader del partito volevano, dovevano, ottenere qualcosa prima che Capitol Hill chiudesse per le vacanze estive. Si è arrivati all’accordo di domenica, appena in tempo, dopo lunghi mesi di negoziazione e sedici ore di discussione con più di 30 gradi, a Washington, e il terrore che qualcuno non si presentasse perché già in viaggio.

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Munchin non è stato il solo nei mesi ad aver messo dei freni a questa trattativa che dura da dicembre scorso; tra le file dei cosiddetti Dem più moderati, o centristi, a cercare di ammorbidire il pacchetto presidenziale c’è stata anche la senatrice Kyrsten Sinema, che venerdì ha deciso di accettare il deal dopo aver richiesto di togliere alcune tassazioni extra per manager di hedge fund e simili. Sinema ha sostituito Manchin come ago della bilancia per qualche giorno, ma era da tempo che dialogava con Schumer. Dopo che tutti i Dem si sono accordati bisognava confrontarsi con gli avversari, capitanati da Mitch McConnell. Dopo sedici ore di discussione sono riusciti a togliere la regolamentazione per l’abbassamento del prezzo dell’insulina, per chi si affida ad assicurazioni private – Bernie Sanders si è infuriato, il senatore Ron Wyden ha incolpato le lobby farmaceutiche. Alla fine i Dem hanno vinto 51 a 50.

 

È forse il più grande successo per i Dem da quando hanno il potere, un momento che si aspettava da quando Biden si è seduto nello Studio Ovale. Per quanto modificato rispetto all’originale, far passare dal Senato questo pacchetto è una delle grosse vittorie legislative ottenute nell’ultimo mese – dopo la legge bipartisan sul controllo delle armi e il "Chips and Science Act” (52 miliardi di investimento nell’industria dei microchip per competere con la Cina). Questi tre casi mostrano la rilevanza dei moderati a Washington, essendo in tutti e tre i casi dei Dem centristi ad aver portato avanti i disegni di legge, coinvolgendo in certi casi anche dei colleghi repubblicani. Questi Dem più pragmatici, più capaci al dialogo con le controparti, stanno andando piuttosto bene alle primarie, soprattutto negli swing state, Haley Stevens ha vinto in Michigan, Henry Cuellar – unico Dem pro-life alla Camera – in Texas, Shontel Brown e Tim Ryan in Ohio, Dina Titus in Nevada, Robert Garcia in California e Donna Edwards in Maryland.

 

Analizzando i sondaggi e queste vittorie negli stati chiave, ci si rende conto che per mantenere il controllo del Senato e della Camera e vincere le prossime presidenziali i Dem non possono spostarsi troppo verso sinistra, per non alienare una grossa fetta dell’elettorato. Circa metà dei Dem, soprattutto tra i Millennial e la Gen Z, si professa liberal, ma più dei numeri e delle percentuali bisogna guardare gli stati a rischio. Inoltre, contro un candidato trumpiano, diversi repubblicani sono disposti a votare un democratico, ma solo se moderato, è così che Manchin è rimasto senatore in West Virginia, ed è questa la chiave per poter garantire una maggioranza a novembre.

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