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compromessi

Il sostegno alla resistenza ucraina stride con la fiducia tradita dei curdi

Adriano Sofri

Il memorandum a tre tra Svezia, Finlandia e Turchia è una vittoria di Erdogan, partono le estradizioni dei dissidenti sgraditi al presidente turco. Il popolo curdo è ancora merce di scambio

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Odessa, dal nostro inviato. La Russia fa guerra all’Ucraina perché non ne sopporta l’indipendenza, sancita internazionalmente alla fine dell’Urss, nel 1991. La Turchia fa una guerra intestina ed esterna – nel Kurdistan iracheno, in particolare – per impedire al sud-est curdo di conquistare, se non l’indipendenza statale, cui la stessa leadership combattente curda ha da tempo dichiarato di rinunciare, un’autonomia all’interno di una democrazia confederale. Guerra di riconquista quella russa, guerra civile preventiva quella turca. Improvvisamente, la volontà di sostenere la giusta, e valorosa, difesa ucraina dall’invasione russa ha offerto alla Turchia l’occasione per estorcere il sostegno della Nato alla propria perenne guerra anticurda in casa, in Iraq e in Siria.

 

I curdi (“non abbiamo altri amici che le nostre montagne”) sono abituati a fare da merce di scambio e da capri espiatori delle contese dei più potenti vicini e lontani. Era appena successo di nuovo, quando la sconfitta dello Stato islamico (provvisoria, basta guardare all’Afghanistan o all’Africa o al terrorismo in Iraq) di cui erano state le attrici, gli attori, sul terreno, aveva prodotto un benservito pressoché platonico degli Stati Uniti e dell’occidente, e un’offensiva tracotante della Turchia in tutta la fascia di confine siriana. Ora, la lucidamente demenziale invasione dell’Ucraina ha persuaso le patrie scandinave limitrofe dalla proverbiale neutralità che dalla Russia di Putin e dei suoi ci si debba aspettare tutto, e le ha indotte a chiedere e ottenere di entrare nell’Alleanza atlantica. La Nato, come l’Ue, ha o finge di avere il vincolo dell’unanimità, ciò che permette al sultano Erdogan di ricattarla, come fa Orbán nella Ue. Erdogan aveva da regolare grossi affari militari con gli Stati Uniti, e, coi bravi finlandesi e svedesi, l’affaruccio dei curdi.

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Il memorandum sottoscritto non è chiarissimo quanto alla lettera – “Domanda importante: dovete chiedere a loro”, aveva risposto sibillinamente Draghi – è però chiaro nella sostanza. Finlandia, e soprattutto Svezia, non avranno rapporti col Pkk curdo-turco e non sosterranno le forze militari e politiche curde nel Rojava, Ypg e Pyd. Inoltre sbrigheranno “speditamente” le richieste turche di estradizione di 33 persone, militanti del Pkk o aderenti del movimento di Fethullah Gülen, imputato del fallito tentativo di colpo di stato del 2016: sei e sei in Finlandia, 10 e 11 in Svezia. Nemmeno due anni fa, la ministra degli Esteri svedese, Ann Linde, aveva ammonito il collega turco, Mevlüt  Çavusoglu, che il suo paese avrebbe dovuto abbandonare il Rojava.

 

Siamo riportati all’origine di questo spettacoloso rivolgimento internazionale: l’Ucraina, la sua invasione, la sua resistenza. La Norvegia del segretario Stoltenberg è nella Nato da sempre, senza appartenere all’Ue, e con un ruolo incomparabile con la sua popolazione: per i 196 km del suo estremo confine settentrionale con la Russia e il passaggio a nord-est, e poi per la sua esuberante ricchezza petrolifera e di gas. L’entrata nella Nato di Svezia e Finlandia è una svolta così radicale da rendere irrisorio, un piccolo incidente di percorso, il destino di 33 fra curdi e turchi, moscerini agli occhi del realista politico.

 

Ma viviamo tempi riluttanti. L’Ucraina inaspettata ha messo in auge valori e disvalori intempestivi e imbarazzanti: a cominciare dal valor militare – il coraggio, l’abnegazione, l’esaltazione, il risorgimentismo, il nazionalismo, la virilità, il virilismo... E tutti, valori e disvalori, e la loro spesso inestricabile mescolanza, a far da specchio al nostro quieto vivere. Alla nostra mescolanza, quella della distanza sorridente o del ripudio della retorica eroicista, delle medaglie alla memoria, dei versi degli inni – con la viltà, semplicemente. E’ questa congiuntura a rendere così stridente il sostegno proclamato alla resistenza di corpi e anime di ucraini e ucraine e la sbrigativa piccola infamia della pratica curda.

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Nelle ore scorse si sono avuti episodi temerari di denuncia del virilismo bellicoso russo da parte di leader maschi dell’occidente. Hanno spiritosamente minacciato di togliersi le camicie, già senza cravatte, per irridere al Putin a torso nudo alle sue battaglie del grano. Boris Johnson ha avvertito che “se Putin fosse stato una donna, non avrebbe mai invaso l’Ucraina, la sua folle guerra è un perfetto esempio di mascolinità̀ tossica” – l’altro gli ha rinfacciato la Thatcher. Ben Wallace, già militare e ministro della Difesa del Regno Unito, ha spiegato che Putin è mosso da una  sindrome di uomo basso deciso a sbandierare un’immagine da macho. (Ho controllato la sua statura: 2,6 per 113 kg, ma è un altro Ben Wallace, il “Big Ben” campione di basket americano).

 

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Quello vero, il ministro, si fece vedere in lacrime al momento dell’evacuazione fallimentare dell’Afghanistan. Grande esibizione di rinnegamento del machismo: ma tradire la fiducia di coloro cui si è promessa protezione e casa, a Kabul o a Stoccolma, è ancora una macchia irreparabile. I popoli e le persone fanno ogni volta un nuovo nodo al loro fazzoletto, e non se ne dimenticano più. Mentre scrivevo, mi girava per la testa un ricordo confuso, e ora si è fatto chiaro. Noi ci siamo macchiati di una viltà simile, e per molto meno. Si trattò, anche quella volta, di un curdo in fuga: Abdullah Öcalan, “Apo”. Era il 1998, lo buttammo fuori dall’Italia, dove aveva creduto di trovare rifugio. Ha 74 anni. Da 23 anni è chiuso, isolato, in una cella dell’isola di Imrali.

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