Le strategie degli autocrati

La “mentalità da mercante di bazar” di Erdogan e Orbán

David Carretta

Turchia e Ungheria indeboliscono la posizione occidentale di fronte a Putin nel nome della sicurezza. Ma dietro ci sono interessi più veniali

Bruxelles. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ieri ha detto di essere “determinato” a bloccare l’ingresso nella Nato di Finlandia e Svezia, accusando nuovamente i due paesi di proteggere “terroristi” delle organizzazioni Pkk e Ypg. Il premier ungherese, Viktor Orbán, deve decidere se mantenere o meno il veto sull’embargo del petrolio proveniente dalla Russia, la principale misura del sesto pacchetto di sanzioni dell’Unione europea, dopo che la Commissione di Ursula von der Leyen gli ha offerto un generoso aiuto per ristrutturare l’infrastruttura energetica del suo paese. A quasi tre mesi dall’inizio della guerra contro l’Ucraina, due leader con tendenze autocratiche, che hanno tessuto buoni rapporti con Mosca, stanno indebolendo la posizione occidentale di fronte a Vladimir Putin.
 

Per l’uno come per l’altro, la priorità torna a essere il rendiconto nazionale di breve periodo e l’opinione pubblica interna. La sicurezza – contro il terrorismo per la Turchia, energetica per l’Ungheria – è la bandiera che sventolano. Ma dietro ci sono interessi più veniali. Almeno questa è la convinzione degli altri membri della Nato e dell’Ue, che si dicono fiduciosi che il doppio stallo sarà superato nei prossimi giorni. “Abbiamo informato i nostri amici che diremo ‘no’ a Finlandia e Svezia, che vogliono entrare nella Nato, e persisteremo su questa strada”, ha detto Erdogan in un video per la Giornata della gioventù: “Questa Svezia e questa Finlandia sono paesi che ospitano i terroristi, il Pkk e l’Ypg”. Erdogan ha consigliato ai diplomatici svedesi e finlandesi di non “fare lo sforzo” di andare ad Ankara per una visita programmata per lunedì. 


I toni definitivi sulla questione curda servono a rilanciare la popolarità di Erdogan, che a un anno dalle elezioni annaspa nei sondaggi, e cerca di far dimenticare la crisi economica. In realtà, i diplomatici turchi non hanno chiuso definitivamente la porta a Finlandia e Svezia. Ankara ha chiesto l’estradizione di 30 curdi che accusa di terrorismo. Ma “non è la questione curda che preoccupa il presidente Erdogan”, ha spiegato il ministro degli Esteri del Lussemburgo, Jean Asselborn, in un’intervista alla Zdf: “La sua vera intenzione è di far salire la posta”. La Turchia aspetta il via libera degli Stati Uniti a due accordi di armamenti: il primo per la fornitura di tecnologia per rinnovare la vecchia flotta di F-16, il secondo per l’acquisto di altri quaranta F-16 nuovi. Erdogan vorrebbe anche rientrare nel programma F-35, dopo che la Turchia è stata esclusa per l’acquisto di un sistema di difesa antiaerea russo. Secondo Asselborn, quella di Erdogan è “mentalità da mercante di bazar”. 
 

La mentalità da bazar è quella che sta dimostrando anche Orbán sull’embargo dell’Ue contro il petrolio russo. Al premier ungherese sono state offerte diverse concessioni per togliere il veto al sesto pacchetto di sanzioni. Un anno di proroga non è bastato. Due anni nemmeno. Mercoledì la Commissione ha proposto un pacchetto da 800 milioni per ristrutturare gli oleodotti e le raffinerie ungheresi, che attualmente possono lavorare solo con il petrolio russo. Oggi si terrà una nuova riunione degli ambasciatori dei ventisette dedicata alle sanzioni. Alcuni speravano in una svolta grazie agli aiuti finanziari. Ma ieri non sono stati registrati progressi nei negoziati tra l’Ungheria e la Commissione. Non è escluso che Orbán voglia tirare la corda fino al Consiglio europeo del 30 e 31 maggio per cercare di ottenere un’esenzione di cinque anni (o totale) dall’embargo. Il suo governo ha bisogno del petrolio russo per mantenere bassi i prezzi dell’energia per i consumatori e alti i tassi di popolarità di Orbán.


Man mano che passano i giorni, con le opinioni che si abituano alla guerra mentre si iniziano a sentire sempre di più le sue conseguenze economiche, altri leader potrebbero cadere nella tentazione di rompere i ranghi. Emmanuel Macron e Olaf Scholz, i due principali leader europei, non sono immuni da questo rischio. I ripetuti appelli al dialogo e al cessate il fuoco che arrivano da Francia e Germania – e che stanno provocando irritazione sia a Kyiv sia nelle capitali dell’Europa dell’est – tradiscono il desiderio di un ritorno alla normalità. Il consigliere di Volodymyr Zelensky, Mykhailo Podolyak, ha spiegato che l’Ucraina non accetterà un cessate il fuoco prima del ritiro completo della Russia perché “non è interessata a una nuova Minsk”. Gli accordi di Minsk erano stati la scusa di Francia e Germania per continuare, dal 2014 in poi, il business as usual con la Russia malgrado l’annessione della Crimea e il sostegno ai separatisti filorussi nel Donbas. Macron e Scholz hanno lasciato ad altri il compito di convincere Erdogan e Orbán: l’Amministrazione Biden per gli F-16 e la Commissione per il petrolio. Mostrare più determinazione con i sabotatori interni, invece che insistere su un improbabile cessate il fuoco, potrebbe essere più utile per accelerare la vittoria dell’Ucraina e la fine della guerra nell’interesse occidentale.

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