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Qui Bruxelles

Come l'Ue può uscire dall'impasse sull'energia

David Carretta

Scholz è un Orbán meno rumoroso e la Commissione lo asseconda. Gas in rubli, veti ungheresi, freni tedeschi e proposte italiane

Bruxelles. Al pasticcio sull’embargo del petrolio provocato dal veto dell’Ungheria di Viktor Orbán sul sesto pacchetto di sanzioni dell’Unione europea, ieri si è aggiunto il pasticcio sul pagamento delle forniture di gas dalla Russia. La Commissione di Ursula von der Leyen per l’ennesima volta ha ribadito che effettuare i pagamenti sulla base del decreto firmato da Vladimir Putin il 31 marzo scorso – attraverso un meccanismo che prevede due conti, uno in valuta e l’altro in rubli, presso Gazprombank – costituisce una violazione delle sanzioni imposte dall’Ue.

Nello stesso momento, alcuni stati membri e i loro colossi energetici hanno annunciato – tra cui Eni – la decisione di adeguarsi al decreto di Putin per evitare il rischio di vedersi tagliare il gas, come già accaduto con Polonia e Bulgaria. Le trattative sull’embargo del petrolio e le ambiguità sui pagamenti del gas mostrano chiaramente che c’è un costo che alcuni stati membri dell’Ue non sono disposti a pagare per debilitare le capacità belliche di Vladimir Putin: gli idrocarburi russi devono continuare ad alimentare il motore dell’economia europea. In entrambi i casi, molto più di Orbán, è la Germania di Olaf Scholz a dettare i tempi e l’intensità delle sanzioni dell’Ue, indebolendo il sostegno all’Ucraina.

Il pasticcio sui pagamenti del gas è venuto alla luce del sole ieri pomeriggio, quando Eni ha pubblicato un comunicato per annunciare la decisione di adeguarsi al decreto di Putin.

 

“Eni, in vista delle imminenti scadenze di pagamento previste per i prossimi giorni, ha avviato in via cautelativa le procedure relative all’apertura presso Gazprombank dei due conti correnti denominati K, uno in euro e uno in rubli, indicati da Gazprom Export (...) in coerenza con la nuova procedura per il pagamento del gas disposta dalla Federazione russa”. La decisione è stata “condivisa con le istituzioni italiane” ed Eni ritiene che sia  “non incompatibile con il quadro sanzionatorio in vigore”. La conversione euro-rubli sarà svolta dalla Borsa di Mosca senza coinvolgimento della Banca centrale russa. Appena qualche ora prima, il portavoce della Commissione aveva detto l’opposto: “Tutto quello che va al di là delle linee guida della Commissione – cioè aprire un conto nella valuta prevista dal contratto, fare un pagamento in questa valuta e fare una dichiarazione che dice che questo conclude il pagamento per la fornitura di gas – contravviene alle sanzioni”. Per la Commissione, “sono gli stati membri che sono incaricati di far rispettare le sanzioni”. Se non lo fanno “si applica il quadro generale delle procedure di infrazione”.

 

Dietro al linguaggio da giuristi c’è l’ambiguità su cui la Germania ha puntato per potere continuare ad approvvigionarsi di gas russo. Il calcolo di Berlino è che, come gatto e topo, l’Ue e la Russia possono inseguirsi a colpi di minacce, senza metterle davvero in pratica. A Mosca non conviene tagliare il gas all’Europa perché non può rivenderlo altrove. All’Ue non conviene imporre un embargo del gas perché significherebbe 2,5 punti in meno di pil e un’inflazione sopra il 9 per cento. La Commissione ha fatto il gioco di Berlino, pubblicando linee guida che lasciano margine di interpretazione: se a voce dice che il decreto Putin vìola le sanzioni, nei documenti non ha mai menzionato il secondo conto in rubli. Così, molto prima di Eni, Berlino ha detto che le società tedesche useranno i due conti K perché ai suoi occhi sono compatibili con le sanzioni. Il massimo che rischiano Germania e Italia è una procedura di infrazione che durerà anni. Ma la scelta della Commissione di assecondare Berlino, oltre a garantire a Putin i finanziamenti per la sua guerra, spacca l’Ue.

 

La Germania ha imposto alla Commissione la sua linea anche sull’embargo di carbone e petrolio, con un’uscita graduale di quattro e sei mesi. La tempistica ricalca  i piani che erano già stati annunciati a marzo dal governo tedesco (rinunciare al carbone entro fine estate e al petrolio entro fine anno). Scholz si sta comportando come un Orbán meno rumoroso: difendere a ogni costo l’interesse energetico nazionale. Il premier ungherese lo dice pubblicamente e non si nasconde dietro von der Leyen. Dietro le quinte, la Germania è intervenuta sulla Commissione per bloccare tutte le proposte alternative di sanzioni sugli idrocarburi, sostenendo che non possono funzionare. È successo con l’idea di Mario Draghi, che ha ampio consenso tra paesi dell’est e del nord, di imporre un tetto sul gas importato dalla Russia. Sta accadendo di nuovo sui dazi sul petrolio proposti degli Stati Uniti.

 

Ieri funzionari del Tesoro americano hanno detto che proporranno al G7 un’alternativa all’embargo con l’imposizione di dazi sul greggio. Il piano permetterebbe di tenere il petrolio russo sul mercato evitando un’impennata dei prezzi e di limitare più rapidamente le entrate per Putin. Il veto di Orbán non sarebbe più giustificato. Le entrate dai dazi potrebbero finire in un fondo per la ricostruzione dell’Ucraina. Anche qui c’è lo zampino di Draghi, che ha suggerito a Joe Biden la creazione di un cartello di compratori di petrolio. Il principale ostacolo si chiama Germania: il governo Scholz teme di vedersi tagliare il greggio russo prima di  trovare  alternative.

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