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Lo zar Putin e l’orgia del potere. L’Europa dalla Z alla Z

Stefano Cingolani

Za pobedu! Per la vittoria! Questo significa l’odioso simbolo sui carri armati russi. Ma quale vittoria per il Cremlino? La risposta è da cercare nella storia. Intanto la tensione nei Balcani cresce

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C’è Zelensky (Volodymyr Oleksandrovyč Zelens’kyj, presidente dell’Ucraina). C’è lo zar (Vladimir Vladimirovich Putin, presidente a vita della Russia). Poi ci sono anche i petrocelli. E c’è una Z che scritta così non esiste nell’alfabeto cirillico, ma è diventata per Putin quel che la famosa V fu per Winston Churchill. E pensare che a partire dagli anni 60 del secolo scorso è stata anche il simbolo della lotta alla dittatura (in greco è l’iniziale di vita). “Zeta - L’orgia del potere” s’intitola un film girato da Costa-Gavras nel 1969 (nella versione originale francese c’era solo la Z), trasposizione del romanzo di Vasilis Vasilikos sull’assassinio politico che aprì la strada al golpe dei colonnelli. I segni sono vuoti senza il significato che di volta in volta si vuol assegnare loro, eppure hanno il potere di assumere vita propria diventando essi stessi significato e viatico delle azioni umane. “Dare un nome alle cose è la grande e seria consolazione concessa agli umani”, ha scritto Elias Canetti. Così l’ultima lettera del nostro alfabeto è ormai un sigillo per la nuova distruzione della ragione.

 

Molto si è discusso su questo emblema. Perché dipingerlo sui camion e sui carri armati che hanno varcato i confini dell’Ucraina? Si è detto che l’insegna veniva scritta poco prima dell’attacco per non rivelare la strategia ai nemici, così in particolare “Z” stava per Zapad (ovest) e “V” per Vostok (est). Visto che l’attacco era soprattutto verso occidente, le “Z” hanno preso maggiormente piede. Perché non sono state usate le iniziali in cirillico? Perché tutti leggessero e tremassero in Europa e nel mondo occidentale. Il ministero russo della Difesa ha risolto il dilemma: la Z evoca l’espressione “za pobedu”, cioè “per la vittoria”. “Za rodinu! Za Stalina!”, per la patria e per Stalin, gridavano i soldati durante “la grande guerra patriottica”. “Za rodinu! Za Putina!” è quello che zar Vlad vorrebbe sentire.

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La seconda guerra cecena, un conflitto che rimanda ai racconti di Lermontov e  Tolstoj. Ma le truppe di Putin furono più feroci di quelle zariste
 

Ma che cosa significa vittoria per la Russia putiniana? Se lo chiedono tutti e nessuno finora ha la risposta. Si può cercarla in Cecenia, in Georgia o nella più vicina Crimea? La seconda guerra cecena durata dal 1999 al 2009 ha segnato la rivincita rispetto alla prima (1994-96) che finì con la sconfitta della Russia di Eltsin e la proclamazione dell’indipendenza cecena. Dieci anni per sottomettere il paese e sconfiggere i gruppi guerriglieri sulle montagne, un conflitto antico che rimanda ai racconti di Michail Lermontov e del giovane Lev Tolstoj. Ma le truppe guidate da Putin, ormai saldamente al Cremlino, furono più feroci di quelle zariste. Nel 2000 Grozny venne distrutta, tre anni dopo l’Onu la dichiarò “la città più devastata al mondo”. Dopo infinite polemiche sulle cifre, ci si orienta sui 200 mila morti durante l’intero conflitto, decine di migliaia civili. I ceceni fecero ricorso al terrorismo che innescò rappresaglie pesanti. Oggi il paese è sotto controllo, l’economia è collassata, Mosca dichiara di aver speso due miliardi di dollari per la ricostruzione. Secondo la Corte dei conti russa sono stati spesi 350 milioni. In compenso la Russia ha un nuovo eroe con tanto di medaglia: il comandante ceceno Adam Delimkhanov che s’è l’è guadagnata per il “coraggio e l’eroismo” dimostrato in Ucraina. Ha comandato le unità barbute impegnate nell’assedio di Mariupol “ripulendo la città da elementi criminali isolato dopo isolato”, come ha scritto il suo presidente, Ramzan Kadyrov, su Instagram.

 

Za pobedu pure in Georgia nel 2008. Fu una guerra lampo. L’Unione europea guidata da Nicolas Sarkozy favorì un cessate il fuoco
 

Za pobedu pure in Georgia nel 2008, la prima guerra europea del XXI secolo. La Russia intervenne per “proteggere” le popolazioni a maggioranza russa di Abkhazia e Ossetia del sud “minacciate” dal governo georgiano e vogliose di unirsi alla madre patria. Fu una guerra lampo. Le forze di Mosca occuparono in pochi giorni le principali città georgiane, proseguendo l’offensiva anche dopo la richiesta di tregua il 10 agosto e spingendosi fino a pochi chilometri dalla capitale Tbilisi. Fu l’Unione europea guidata allora da Nicolas Sarkozy a favorire un cessate il fuoco e a garantire un piano di pace firmato dal presidente georgiano Mikheil Saakashvili e dal russo Dmitrij Medvedev (erano gli anni della staffetta, con Putin primo ministro). Oggi la Ue non sarebbe accettata come arbitro. L’annessione di una Crimea russificata e ora l’attacco all’Ucraina hanno cambiato il gioco e la posizione dei giocatori.

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Un’altra Z, quella di Zukov, l’uomo che sconfisse Hitler superando l’impreparazione dell’Armata rossa, gli errori e l’inadeguatezza di Stalin
 

Le guerre di Putin rimandano a un’altra Z, quella di Žukov, l’uomo che sconfisse Adolf Hitler superando l’impreparazione dell’Armata rossa, le incertezze, gli errori e l’inadeguatezza strategica di Stalin con il quale si confrontò a muso duro subendo le ire del Supremo. Il primo grave contrasto nel 1941 sulla necessità di abbandonare Kyiv sotto l’avanzata tedesca: fu esonerato, divenne comandante del fronte di riserva, ma riuscì a fermare a Smolensk l’offensiva della Wehrmacht che puntava su Mosca. Coraggioso fino all’eccesso, violento, brutale, sotto il suo comando tra il 1941 e il ’42 furono condannati 994 mila soldati e ufficiali considerati disertori, 157 mila vennero fucilati, l’equivalente di 15 divisioni che furono rimpiazzate solo un anno dopo grazie alle riserve provenienti da oltre gli Urali. Žukov utilizzò la strategia della terra bruciata, bloccò i tedeschi a Leningrado, intervenne per liberare Stalingrado, prese Berlino prima degli americani, la sua impulsività gli fece commettere gravi errori come l’operazione Marte nel 1942. Celebrato da eroe, Stalin temeva la sua popolarità e lo mise sotto tiro; emarginato, calò su di lui la damnatio memoriae. Dopo la morte del dittatore fu ripescato, divenne ministro della difesa ed ebbe un ruolo decisivo nel salvare Nikita Kruscev dal golpe della vecchia guardia guidato da Nikolaj Bulganin nel 1957. Come ricompensa venne accusato di “culto della personalità”, costretto all’autocritica e da allora visse in disparte come un recluso, fino alla morte nel 1965.

 

Non c’è uno stratega come Zukov accanto all’autocrate del Cremlino. Già molti hanno perso, se non la testa, la loro posizione o sono finiti in galera
 

Non c’è uno stratega come Georgij Konstantinovich Žukov accanto al nuovo autocrate del Cremlino, nessuno che sappia tenergli testa, ma già molti hanno perso se non la testa certo la loro posizione o sono finiti in galera. Simon Sebag Montefiore nel secondo volume della sua biografia di Stalin, basata sui documenti desecretati negli anni di Eltsin e secretati di nuovo da Putin, racconta con gran quantità di dettagli i rapporti turbolenti tra l’esercito e il partito, così come tra i generali e il Piccolo padre. Quel che accade oggi negli alti comandi russi presenta molte somiglianze. Anche zar Vlad ha rivoluzionato la catena decisionale dopo le batoste subite nella prima fase della guerra, assumendo in prima persona la condotta del conflitto e promuovendo Alexander Dornikov, un altro “eroe della Russia” grazie all’intervento in Siria che gli ha procurato in occidente l’appellativo di macellaio. E’ lui a guidare l’offensiva sul fronte sud est dal Donbas al Mar Nero.

 

Žukov adesso viene considerato un personaggio mitologico e la Grande guerra patriottica è più che mai concepita come il battesimo di fuoco e di sangue per l’Unione sovietica imperiale collassata nel 1991, una grande potenza da ricostruire, un regime per molti versi da restaurare, basti pensare alla “sacra alleanza” con la chiesa ortodossa sottoposta al potere politico quanto e più di allora sotto la guida del patriarca Kirill, nato Vladimir Michajlovich Gundjaev, che ha benedetto la crociata contro “l’immorale occidente”. Putin e i suoi corifei hanno riverniciato la memoria dell’Urss mettendo in luce le promesse mancate degli anglo-americani, allora come oggi. Mosca fu lasciata sola, gli alleati non aprirono un secondo fronte se non due anni dopo nonostante il grido di dolore della Russia invasa e le pressioni di Stalin. Non solo: senza la gloriosa vittoria sovietica a Stalingrado, Hitler non avrebbe perduto la guerra. Gli studiosi sono ancora divisi, ma i documenti ormai non mancano. Giuseppe Boffa, comunista italiano, corrispondente da Mosca per l’Unità, studioso acuto e onesto, nella sua “Storia dell’Unione sovietica” tradotta e pubblicata anche in Russia, ricorda il discorso radiofonico di Churchill la sera del 22 giugno 1941: “Daremo tutto l’aiuto possibile alla Russia e al popolo russo… La causa di ciascun russo che combatte per il suo focolare e per la sua patria è la causa degli uomini e dei popoli liberi di ogni parte del mondo”. Gli Stati Uniti che non erano ancora in guerra, grazie alla legge di “affitti e prestiti” erogarono 11 miliardi di dollari e una quantità senza dubbio insufficiente di mezzi bellici, ma più importanti furono le forniture di attrezzature civili, dai camion alla benzina per l’aviazione, fino alle attrezzature ferroviarie che consentirono ai treni di spostarsi. Le parole di Churchill e gli aiuti di Roosevelt (decisi con un espediente, contro la volontà del Congresso) richiamano quel che sta accadendo a sostegno dell’Ucraina perché è questa oggi “la causa degli uomini e dei popoli liberi”.

 

 

Il successo elettorale di Aleksandar Vucic in Serbia il 5 aprile e le tensioni militari ai confini del Kosovo riaprono il libro dei morti

 

Anche in serbo-croato “za pobedu” si può tradurre con “per la vittoria”. E’ vero che il simbolo guerresco dei serbi sono le tre dita (pollice indice e medio) mescolando la trinità del credo ortodosso e lo slogan della Grande Serbia (Dio, Patria e Zar), ma con l’evocazione della “vittoria negata” dalle potenze occidentali, il desiderio di una rivincita sostenuta dalla nuova Russia imperiale diventa d’attualità. Il successo elettorale di Aleksandar Vucic il 5 aprile e le tensioni militari ai confini del Kosovo riaprono il libro dei morti. Centomila e più negli otto anni lacerati dalle prime guerre in territorio europeo dopo il 1945. Vucic che viene dalla destra nazionalista guidata da Vojislav Šešelj, nel luglio 1995, pochi giorni dopo il massacro di Srebrenica – dove almeno 8.372 (alcuni dicono 10.000) uomini musulmani bosniaci, tra i 12 e i 77 anni, furono sterminati da parte dei militari dell’esercito della Repubblica serba in Bosnia-Erzegovina – proclamò: “Se voi uccidete un serbo, noi uccideremo cento musulmani”. Ratko Mladic, il responsabile primo del massacro, aveva rivelato candidamente che “la nostra vera priorità è sbarazzarci della popolazione musulmana”. Radovan Karadžic, medico da strapazzo diventato presidente dell’autoproclamata Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina, gli dà via libera e ordina lo spaventoso assedio di Sarajevo. Entrambi sono stati condannati dal tribunale dell’Aja. Entrambi sostenevano che Srebrenica fosse una montatura e una provocazione. Proprio come Bucha. Slobodan Miloševic, che scatenò il nazionalismo serbo dopo Josip Tito, è morto prima che finisse il processo per genocidio. Vucic per anni li ha difesi, poi nel 2014 ha detto di essersi sbagliato. Da allora governa il paese come primo ministro e poi, dal 2017, come presidente. Ha avviato i negoziati per l’adesione all’Unione europea, ha lanciato segnali d’amicizia agli Stati Uniti, all’Onu ha condannato l’invasione russa dell’Ucraina, ma di sanzioni a Mosca non se ne parla, anzi ha stretto i legami economici (gas soprattutto) e militari acquistando aerei, missili, elicotteri, veicoli blindati. Per il presidente del Kosovo Albin Kurti, è “una marionetta del Cremlino” che finirà per destabilizzare i Balcani con il sostegno russo. Gazprom ha il 56 per cento dell’industria petrolifera serba e il 51 per cento della grande unità di stoccaggio in Voivodina. Lukoil, ferrovie, banca Vtb, Rosatom, Roscosmos, e Sberbank: “E’ lo hardware della presenza russa in Serbia e Vucic è il software”, dichiara Kurti. Il presidente serbo è arrivato a dichiarare nel 2019, durante una sessione speciale del parlamento, che occorre riconoscere la sconfitta del 1999 in Kosovo: “Abbiamo perso quel territorio, dobbiamo ammetterlo”. Ma la vendetta ha il sapore dolce e Mosca la alimenta. Il nazionalismo russo del resto considera il nazionalismo serbo suo fratello di sangue.

 

Le tensioni nei Balcani hanno un pericoloso potenziale espansivo. La Macedonia del Nord si è vista rifiutare l’adesione all’Ue per il veto della Bulgaria. Per anni era stata bloccata dalla Grecia che non voleva si chiamasse Macedonia e adesso ci si mettono anche i bulgari. Le frustrazioni aprono sempre la strada alle peggiori tentazioni. Il malessere in quel crogiolo di conflitti rischia di contagiare la repubblica ellenica: rimasta ai margini dopo la grande crisi del 2008-2010, Atene si dà da fare per rimettersi in carreggiata, ma si sente minacciata dalle ambizioni del sultano Erdogan che ha assunto un ruolo cardine nel conflitto tra Russia e Ucraina. Il fianco sud est della Nato, dunque, è di nuovo instabile e può essere messo in subbuglio se il conflitto ucraino non si conclude presto. Fin dalla conferenza di Teheran, un anno e mezzo prima di Jalta, la Russia ha rinunciato alla Grecia, ma dal 1944 al 1949 il paese è stato lacerato da una guerra civile le cui propaggini sono arrivate al golpe del 1967. I prodromi sono raccontati dal libro e dal film “Zeta”. E’ la storia di un assassinio nel 1963 quando le ferite sanguinavano ancora e la Guerra fredda aveva raggiunto un punto di non ritorno (un anno prima con la crisi dei missili si era sfiorato lo scontro nucleare tra Usa e Urss). Il deputato socialista Grigoris Lambrakis, stella della sinistra ellenica, viene rapito e ucciso da una banda di estremisti di destra con la complicità della polizia e di parte dell’esercito. Scoppia uno scandalo, si dimette il governo guidato dal conservatore Konstantinos Karamanlis e seguono anni di estrema instabilità politica che creano le premesse del putsch militare chiamato dei colonnelli, ma al quale parteciparono anche generali. Il giovane re Costantino II, incapace di reagire, tenta di organizzare un contro-golpe (su suggerimento del presidente americano Lyndon Johnson), ma fallisce e lascia Atene per Roma in esilio volontario. La dittatura, la prima in un paese democratico europeo dopo il secondo conflitto mondiale, dura sette anni. Caduta la giunta cade anche la corona. Mosca non si è mai mossa, vigeva ancora la legge di Jalta.

 

Il patto segreto sui Balcani non è più segreto da molto tempo. Tutti gli storici citano le parole di Churchill e il foglietto che passò a Stalin con le percentuali esatte della spartizione: l’Unione sovietica avrebbe avuto il 90 per cento di influenza in Romania e il 75 per cento in Bulgaria; il Regno Unito il 90 per cento in Grecia e il 50 ciascuno in Ungheria e Jugoslavia. Stalin lesse il pezzo di carta, lo spuntò e lo restituì senza aggiungere altro. Le cose andarono un po’ diversamente, l’Urss si prese l’intera Europa centro-orientale, ma in un’intervista del 1956 con Cyrus Leo Sulzberger (della famiglia che possiede il New York Times), Churchill dichiarò: “Stalin non ha mai rotto la parola. Abbiamo concordato sui Balcani. Ho detto che avrebbe potuto avere la Romania e la Bulgaria, e ha detto che avremmo potuto avere la Grecia (…) Quando entrammo nel 1944 Stalin non interferì”. Non interferì nemmeno Leonid Brežnev nel 1967. Così come gli Stati Uniti non interferirono quando l’Armata rossa invase Budapest nel 1956 e Praga nel 1968. E’ questo l’ordine europeo, anzi mondiale, che Putin sogna di restaurare?

 

La maledizione della Zeta si espande oltre i confini dell’Europa. Cina, Iran, Egitto, Golfo Persico. La nostra fame di risorse ci lega di più ai nuovi dittatori

 

Ma se la Z è diventata ormai il sigillo dell’autocrazia, quante altre Z troviamo in giro per il mondo, proprio in quel mondo dal quale noi saremo sempre più dipendenti. Z come Zayed che ci porta nel Golfo Persico e nelle sabbie d’Arabia. Khalifa bin Zayed al Nahyan è il presidente di Abu Dhabi, figlio primogenito dello sceicco Zayed fondatore degli Emirati arabi uniti, una confederazione di sceiccati considerata un modello di tolleranza filo occidentale nel mondo musulmano. Ma il principe ereditario Mohammed bin Zayed, detto MBZ, vero uomo forte del regime, ha riempito di salamelecchi Ramzan Kadyrov, che Putin ha messo dal 2007 alla guida della Cecenia. Una foto lo mostra baciare la testa rossa del ceceno sorridente. Sotto la sua guida gli emirati combattono nello Yemen accanto all’Arabia Saudita e in Libia appoggiano il generale Haftar contro il governo legittimato dall’Onu. La compagnia aerea emiratina Etihad ha comperato l’Alitalia nel 2015, due anni dopo l’ha mollata in condizioni peggiori di prima. Nel giugno 2017, gli Emirati Arabi Uniti, allineandosi con Riad, hanno interrotto le relazioni diplomatiche con il Qatar. I qatarini presenti nel paese sono stati espulsi, mostrare simpatia per loro anche su Internet è considerato un crimine informatico ed è punibile con una reclusione da tre a quindici anni. I rapporti non sono mai stati buoni, ma sono peggiorati da quando nel 1995 l’erede al trono, Hamad bin Khalifa Al Thani, depose suo padre Khalifa bin Hamad Al Thani e avviò una politica di apertura verso l’Iran, l’Iraq, la Palestina finanziando anche gruppi fondamentalisti islamici, da Hamas ai Fratelli musulmani in Egitto.

 

Dal Qatar dovrebbe arrivare un aiuto significativo all’Italia per sganciarsi dal gas russo, così come dall’Egitto nonostante i mal di pancia e le resistenze di molti partiti a cominciare dal Pd. L’omicidio di Giulio Regeni e il comportamento del generale Abdel Fattah al-Sisi, che comanda con pugno di ferro, ergono una barriera etica che ostacola la necessità economica. L’attuale regime egiziano è un’altra autocrazia con la quale siamo costretti a fare i conti. Il primogenito del presidente, Mahmoud al-Sisi, capo dei servizi segreti, si dice sia in contrasto con il padre non certo in nome della liberal-democrazia, ma della trasmissione ereditaria del potere. Le missioni del governo italiano, introdotto dall’Eni nei paesi con i quali il gruppo energetico ha forti rapporti economici (al largo dell’Egitto ha scoperto il più grande giacimento di idrocarburi nel Mediterraneo), sono altrettanti viaggi sull’ottovolante della storia. Dall’Algeria e dalla Libia all’Angola passando per il Congo, l’Africa è destinata ad avere un ruolo sempre più importante come fornitrice di energia, non solo petrolio e gas, ma fotovoltaico, per non parlare dell’uranio che soprattutto dal Niger alimenta le centrali nucleari francesi. L’Italia si è spinta molto avanti, in pochi mesi la dipendenza dal metano russo si è già dimezzata e il peso sui consumi è sceso dal 42 al 21 per cento tra dicembre 2021 e questo aprile. Ma l’intera Europa affamata di risorse che non possiede, si sta gettando in braccio ad altri dittatori. E’ vero che nessuno di loro finora ha messo in gioco la pace mondiale come sta facendo Putin, tuttavia non va dimenticato che il fuoco del terrore islamico non è spento e gli odiatori dell’occidente nel mondo musulmano continuano a ricevere denaro e armi. Ci sono momenti in cui diventa necessario il patto con il diavolo, lo disse Churchill a Stalin il quale aggiunse alla russa: e con la nonna del diavolo. Fino a che punto, fino all’Iran? La tentazione è forte, anche in Italia.

 

Il nostro girotondo geopolitico attorno a una lettera dell’alfabeto latino ci porta in Cina fino a Zedong, il nome di Mao del quale Xi si autoproclama successore. Come si muoverà la Cina al di là della retorica sull’imperitura amicizia con la Russia sempre smentita dalla storia? Per ora non è chiaro, conteranno molto la situazione interna con il ritorno di fiamma del Covid-19, il rallentamento della crescita che rende l’export ancor più fondamentale e induce a non mettere in crisi la globalizzazione, le minacce contro Taiwan che spingono al riarmo anche il Giappone. Il grande gioco strategico dell’Impero di Mezzo si combatte nello scacchiere del Pacifico, non sul Baltico o sul Mar Nero, e lì i rapporti di forza sono ancora a favore degli Stati Uniti e dei suoi alleati che presidiano una lunga diga attorno al mar della Cina, da Nagasaki alle Filippine. Siamo tornati in un mondo a somma zero, dove nessuno può vincere senza danneggiare se stesso. Come con la Guerra fredda, e proprio come allora la parola d’ordine non è l’attacco, ma il contenimento. Troppe le incognite, nel mondo reale prevalgono le X, la Z è solo un sogno o meglio un incubo.

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