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Quando finirà la repressione?

Un anno dopo il golpe militare, il Myanmar è il paese delle "cose terribili"

Massimo Morello

Un paese piegato dalla ferocia della dittatura, che spera nei suoi giovani e nel ritorno della sua leader. Intanto le sanzioni occidentali non hanno indebolito i militari, forti del sostegno di Russia e Cina e della politica di non interferenza dell'Asean

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"Terribili cose stanno accadendo" ripete, come ha fatto nell’ultimo anno, una fonte del Foglio a Yangon. "Mi sembra tutto normale. Il solito traffico". Chi racconta quel che ha visto lungo il percorso dall’aeroporto è appena arrivato a Yangon per lavoro. Anche l’aggettivo “normale” negli ultimi mesi è stato ripetuto. Almeno da chi spera di continuare a vivere in Birmania.

La normalità era quella che cercavano i militari guidati dal generale Min Aung Hlaing in quello che doveva essere un golpe in stile thai: incruento, con una repressione a bassa intensità e il graduale passaggio a una “democrazia controllata”. Ma i militari birmani, a differenza dei thai, hanno reagito con ferocia alle proteste. I morti sono stati circa 1.500 e l’orrenda prigione di Insein che tra il 2015 e il 2020 si era svuotata è stipata di migliaia di prigionieri e il sangue impregna le celle di tortura.

A un anno dal golpe tutto sembra ripetersi, come se non si riuscisse a sfuggire a un malefico karma. È come per il nome del paese. Dal 1948 è Myanmar, ma solo nel 1989 l’allora giunta militare iniziò una campagna di propaganda per diffonderlo e vietare la denominazione “coloniale” di Birmania. Fu allora che “Birmania” fu adottato dagli oppositori al regime. Dopo il 2012, ai primi spiragli di democrazia, scrivere Myanmar non fu più segno di adesione al regime. Dal febbraio scorso l’esonimo politicamente corretto è nuovamente Birmania.

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In questo samsara, in questo ciclo di dolore, la Birmania continua a essere una metafora per i fenomeni dell’epoca virale endemica. Come il tribalismo. La Birmania raccoglie 135 gruppi etnici, molti in lotta tra di loro e col governo centrale (emanazione dei bamar, il gruppo dominante) sia per l’autonomia sia, più spesso, per il controllo della droga. Si sono formati veri narcostati che il golpe ha inizialmente unito in alleanza. Le milizie etniche stanno anche reclutando i giovani che aderiscono al Pdf, le People’s Defense Forces, braccio armato del Nug, il Nationa Unity Government, sorta di governo ombra. L’obiettivo è addestrarli al combattimento, ma questi giovani partigiani sembrano destinati a divenire vittime sacrificali. Come gli abitanti dei villaggi nelle aree di conflitto. Con l’intensificarsi degli scontri, che sembra abbiano causato migliaia di morti tra i militari, Tatmadaw, le fore armate, ha messo in campo le armi pesanti e l’aviazione, provocando centinaia di migliaia di profughi.

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Col passare del tempo sembra che le milizie stiano cambiando strategia: concessioni in cambio di tregua. È il caso dei potenti gruppi Wa e Shan (in lotta tra di loro ma entrambi sostenuti dai cinesi, cui sono separati da pochi chilometri di giungla). Anche gli arakanesi, rappresentati dall’Arakan Army, rivendicano la loro autonomia. Stanziati nello stato del Rakhine (dove vivono gli ultimi Rohingya non ancora fuggiti), stanno trattando con la giunta e con la Cina. Il loro obiettivo è controllare il traffico di metamfetamine verso il Bangladesh. In cambio offrono la “pacificazione” della regione, che per i cinesi rappresenta lo sbocco sul golfo del Bengala, e la “soluzione” del problema rohingya.

La Birmania è lo scenario in cui si rappresenta il nuovo ordine mondiale. Dopo qualche esitazione (contrariamente a chi la indicava come mandante del golpe), la Cina ha deciso di sostenere la giunta. In cambio esige il controllo del corridoio di territorio che collega il porto di Kyaukpyu (sul Golfo del Bengala, nel Rakhine) allo Yunnan. Alla Cina si è aggiunta la Russia che cerca di riprendere quel ruolo in Sud-est asiatico perduto con il crollo dell’Unione Sovietica.

La Cina, a sua volta, influenza la politica dell’Asean, l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico - la Cambogia innanzitutto – che si mantiene dietro lo schermo di una parvenza di non-interferenza. Tanto più che i paesi dell’area non possono ergersi a modelli di democrazia.


Gli Stati Uniti hanno reagito con un riconoscimento ufficioso del Nug e sanzioni mirate ai leader della giunta e alle aziende controllate da Tatmadaw. Ma i generali hanno già spostato i loro interessi in paesi più disponibili come la Thailandia (Lang Suan, la via più elegante di Bangkok, si è popolata di ricchi birmani). Vanificate anche le sanzioni sulle entrate di gas con il ritiro della Chevron e della Total: resta la thailandese Ptt, dato che il gasdotto birmano aiuta ad accendere le mille luci di Bangkok. Quella che era un’economia di frontiera si sta metastatizzando in una dis-economia, dove le riforme del governo di Suu Kyi sono state bloccate. I poveri sono milioni.

I birmani continuano a sperare. Sperano nei giovani combattenti. In un contro-golpe. In Aung San Suu Kyi, che oppone la sua dignità alla farsa dei processi. Lei resiste sperando di mantenere così una possibile forza di mediazione. Ma fino a quando? "È passato un anno, quanti ne passeranno prima che possa tornare?" dice al Foglio un rifugiato a Bangkok. In questi giorni ha compiuto il rito in memoria di suo padre, morto a Yangon sei mesi fa. Da solo.

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