l'editoriale

L'ottima salute delle democrazie e la libertà minacciata nel mondo

Claudio Cerasa

Il summit di Joe Biden, gli stati canaglia, la fiducia tra istituzioni e cittadini nelle società aperte dopo la pandemia e il bla bla bla di chi difende la democrazia senza avere il coraggio di proteggerla attivamente quando è minacciata

Due anni dopo la pandemia, come se la passano le società aperte? L’occasione giusta per ragionare intorno a questo tema la offre il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, che tra oggi e domani presiederà in pompa magna un summit virtuale, insieme con altri 111 paesi, dedicato alla difesa della democrazia. Il summit arriva in un momento delicato per le democrazie per almeno due ragioni diverse: la stanchezza derivata dall’emergenza pandemica e il tentativo da parte di alcuni stati canaglia di superare le difficoltà registrate durante la pandemia mettendo in campo i propri arsenali militari. Per quanto esauste, logorate e affaticate, le democrazie festeggiano, per così dire, i primi due anni di pandemia con una consapevolezza che sarebbe un errore non riconoscere: la presenza nelle società aperte di un rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni più solido del previsto. Un rapporto di fiducia che nel corso dei mesi è stato misurato anche dalla percentuale di popolazione vaccinata registrata in giro per il mondo (Russia, Iran, Turchia hanno meno del 60 per cento dei cittadini vaccinati, la media europea è di circa 10 punti percentuali in più) oltre che dalla maggiore efficacia mostrata dai vaccini prodotti grazie alla collaborazione tra democrazie mature e giganti della farmaceutica (da Pfizer a Moderna arrivando fino ad AstraZeneca).

 

Durante la pandemia, le società aperte hanno offerto in numerose occasioni ai propri cittadini delle forme di protezione superiori a quelle offerte dai regimi illiberali (la crisi dell’esitazione vaccinale e la crisi della fiducia incriminata nelle istituzioni, ha scritto con saggezza ieri l’Atlantic, sono la stessa cosa) e anche per questa ragione le democrazie oggi non possono sottovalutare alcuni segnali offerti dai regimi illiberali. Iran, Russia e Cina, ha ricordato due giorni fa il Wall Street Journal, cercano di stabilire una nuova egemonia regionale, e spesso lavorano insieme per farlo. I cinesi lo fanno minacciando di invadere Taiwan. Gli iraniani lo fanno accelerando il proprio programma nucleare, arrivando a promettere un raddoppio della loro capacità di produzione di uranio arricchito. I russi lo fanno avvicinando ai confini dell’Ucraina personale militare che il Washington Post stima essere sulle 175 mila unità. Il grande raduno online di Biden, ha detto ieri Edward Luce sul Financial Times, non potrebbe essere programmato in modo più drammatico, e non solo l’accumulo di militari sul confine orientale dell’Ucraina e per l’escalation della Cina a Taiwan, ma anche perché le grandi democrazie, di fronte alle minacce degli stati canaglia, in questi mesi hanno mostrato poca sicurezza e molte fragilità. E così, dopo il disastroso ritiro dall’Afghanistan, oggi l’occidente democratico non sembra oggettivamente avere chiaro come difendere le democrazie in pericolo. Succede così che Putin minacci l’Ucraina e che Biden, dopo aver già ritirato le sanzioni americane contro il gasdotto Nord Stream 2 che dalla Russia arriva all’Europa, non trovi nulla di meglio dal promettere generiche sanzioni economiche per la Russia in caso di invasione, con un modello non troppo differente da quello che avrebbe dovuto disincentivare l’Iran a fare quello che sta invece facendo con l’arricchimento dell’uranio e che avrebbe dovuto disincentivare a sua volta la Cina dall’acquisizione del petrolio iraniano, che tuttora avviene in violazione delle sanzioni statunitensi.

 

Le democrazie oggi sono più solide che mai, ma quando i grandi del mondo si siederanno di fronte a un computer, oggi e domani, a discutere del futuro della democrazia si ritroveranno di fronte a una domanda a cui in pochi avranno il coraggio di rispondere: chi vuole difendere la società aperta può permettersi di non fare tutto ciò che è necessario fare per difendere le democrazie in pericolo in giro per il mondo? Senza rispondere a questa domanda, oggi, parlare di difesa della democrazia, purtroppo, rientra più nella sfera del bla bla bla che in quella della concretezza.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.