AP Photo/Andrew Medichini

Così Angela Merkel infine ha europeizzato la Germania

Daniel Mosseri

Abbiamo ricostruito il senso del rigore economico della cancelliera uscente assieme al professor Björn Hacker

Pubblichiamo un estratto di “Angela e demoni”, il libro di Daniel Mosseri pubblicato da Paesi Edizioni dedicato alla carriera della cancelliera Angela Merkel.

La prima volta che l’ho intervistato, nel 2014, era critico nei confronti di Angela Merkel. Allora Björn Hacker era un brillante esperto di governance economica e di integrazione europea con una borsa di ricerca della Friedrich-Ebert-Stiftung (Fes), la più antica fondazione politica tedesca, associata al partito socialdemocratico, a sua volta la più vecchia formazione politica tedesca. In quell’anno la crisi economica e finanziaria – esplosa nel 2008 – aveva raggiunto un picco e dalla Germania, “che non è mai stata toccata dalla crisi”, Hacker invocava l’adozione degli eurobond come strumento per far ripartire l’eurozona e il resto dell’Unione europea. Lamentando la prevalenza in Germania di un “pensiero unico del rigore”, Hacker spronava la cancelliera a fare di più. Nei mesi precedenti, ricordava lo studioso, Merkel aveva fatto muro prima contro il salvataggio degli istituti finanziari spagnoli e poi contro l’unione bancaria, “salvo accettare tutte e due le misure all’ultimo minuto: la stampa avrebbe potuto farla a pezzi per il cambio di linea ma questo non è mai successo”. Segno che il credito di cui Angela Merkel godeva presso i tedeschi era senza fine. Nel 2014 la cancelliera aveva appena concluso la sua seconda esperienza di governo, una coalizione fra la sua Cdu e il Partito liberale tedesco (Fdp), e si avviava a varare il suo terzo governo consecutivo: una riedizione del suo primo amore, ossia una grande coalizione con i socialdemocratici.

 

Hacker, nel frattempo, ha cambiato lavoro: oggi non è più un ricercatore alla Fes ma è professore associato di Politica economica europea all’Università di Scienze Applicate di Berlino (Htw). E i suoi toni nei confronti della ormai quattro volte cancelliera sono decisamente mutati: non è stato però l’accademico, un convinto europeista, a cambiare posizione. “Gli eurobond non saranno adottati finché io sono viva” aveva promesso la cancelliera nel 2012, rassicurando sia i propri alleati liberali sia i rigoristi del proprio partito (la Cdu) guidati dal ministro federale delle Finanze, Wolfgang Schäuble.

L’idea di obbligazioni garantite tanto dai tedeschi quanto dai paesi in crisi finanziaria – poco elegantemente definiti Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) – o dalla molto indebitata Italia, faceva rabbrividire molti in Germania, a cominciare dall’allora neo-presidente della Bundesbank, Jens Weidmann. “Nel 2012 non era aria di eurobond – riprende Hacker – ma del Fiscal compact, ossia di quel Patto di bilancio europeo che ha introdotto il pareggio di bilancio come obiettivo direttamente nelle costituzioni dei paesi che l’hanno sottoscritto. L’idea tedesca era semplice: indebitarsi è sbagliato e gli investimenti sono inutili”. Era dunque la Merkel, regina assoluta di un’Europa in crisi nera, a dettare legge: la parola d’ordine non era “solidarietà” ma “rigore”. I tedeschi, non importa se cristiano democratici o socialdemocratici, si erano convinti che il modello Agenda 2010 imposto anni prima dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, e che aveva in effetti giovato alla Repubblica federale avrebbe avuto effetti positivi anche in altri Paesi. “La Germania aveva cominciato a surfare l’onda dell’export e si illudeva che anche il sud d’Europa avrebbe fatto lo stesso”. Economie diverse con diverse risorse finanziarie, umane e tecnologiche che si sarebbero messe a fare tutte lo stesso lavoro: una visione che anni fa Hacker respinse come semplicemente insostenibile. “Oggi non sono più così tanto critico nei confronti della cancelliera”, osserva l’accademico, riconoscendo alla leader tedesca di aver cambiato traiettoria.

Mentre conversiamo, l’Europa è nel pieno della seconda ondata da Covid-19. Gli eurobond, è vero, non si sono materializzati, e da questo punto di vista Merkel ha mantenuto la promessa. “Però oggi abbiamo il Next Generation Eu, ovvero il piano di ripresa dell’economia attraverso il quale l’Unione europea può rifinanziarsi sul mercato, indebitandosi, e ripagando i debiti mettendo nuove tasse. Da questo punto di vista, lo strumento è persino superiore agli eurobond e, anche se la sua durata è di soli sette anni, io non credo che resterà una misura una tantum”.  Cos’è dunque successo fra quel 2012 del Fiscal compact e il 2020 del Piano di ripresa da ben 1.800 miliardi di euro? Da allora molti passaggi hanno reso l’Ue più unita e solidale, e non è stata tutta opera della cancelliera. Hacker ricorda, per esempio, che nel 2012 l’allora presidente del Consiglio Mario Monti ebbe il merito di legare l’approvazione del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, a un approfondimento dell’unione bancaria. A Mario Draghi Hacker riconosce il pregio della coerenza: “Aveva annunciato che avrebbe invece fatto di tutto per salvare la moneta unica europea ed è stato di parola”. Il riferimento è ovviamente all’ormai storico whatever it takes pronunciato da Draghi presidente della Bce nel luglio del 2012 per frenare la speculazione sui mercati, che avrebbe potuto mettere seriamente a rischio l’euro e l’intera impalcatura Ue.

 

Anche la cancelleria tedesca però ci ha messo del suo. E lo ha fatto mettendosi alla testa dei tedeschi che, non senza tentennamenti, hanno capito come il rigore a tutti i costi non avrebbe portato da nessuna parte. E’ stata per prima la Commissione Juncker (2014-2019) ad aprire al concetto di crescita, come ricorda Hacker: “Nel 2014 la disoccupazione giovanile superava il 50 per cento in Spagna e Grecia: a quel punto, anche in Germania abbiamo cominciato a capire che la cura avrebbe ucciso il malato”. E quando si parla di Germania, si parla direttamente di Angela Merkel. E’ fra il 2014 e il 2015 il periodo in cui il professore individua un processo di “conversione” della cancelliera su posizioni più solidali con i partner dell’Europa del sud. Scienziata di formazione, Merkel in questo frangente ha fatto dunque ricorso al suo proverbiale pragmatismo. Guardiamo il caso della Grecia: all’apice della crisi dell’euro, Wolfgang Schäuble affermò che l’Europa avrebbe potuto lasciare fallire il paese ellenico e che non sarebbe stata una tragedia. Eppure, alla fine anche il potente ministro delle Finanze tedesco si convinse della necessità di evitare un ritorno di Atene alla dracma. A fargli cambiare opinione furono non solo la determinatezza di Mario Draghi a “salvare l’euro a ogni costo”, ma anche l’opinione della stessa Merkel, secondo cui permettere ai mercati finanziari di decidere le sorti valutarie della Grecia avrebbe creato un precedente pericoloso qualora in ballo fosse entrato un Paese molto più grande. Come l’Italia, ad esempio. L’uscita della piccola Grecia dall’euro non avrebbe rappresentato un problema di per sé per la Germania. E tuttavia nel Paese ellenico cominciavano a circolare immagini di Merkel e Schäuble rappresentati come Adolf Hitler.

Merkel capì che occorreva evitare di arrivare a un punto di rottura. Fu dunque il suo acume politico a impedire danni molto più gravi. Se l’euro fosse franato e la Germania fosse tornata al marco tedesco, il modello economico basato sulle esportazioni a buon mercato si sarebbe fermato, con conseguenze pesanti e in parte imprevedibili sul sistema sociale tedesco. L’interesse della Germania a un’Europa forte, insomma, era ed è strategico: non si tratta solo di economia. Terrorismo, cambiamento climatico, migrazioni sono altri fenomeni globali che la Repubblica federale tedesca non può affrontare da sola, laddove può primeggiare quando si muove assieme agli alleati europei. “I francesi lo hanno capito come e meglio dei tedeschi, prima con il presidente conservatore Nicolas Sarkozy e poi con quello socialista Emmanuel Macron: è stato Sarkò a introdurre il concetto di unione bancaria; ed è stato Macron a spingere perché, dopo Juncker, alla testa della Commissione fosse scelta Ursula von der Leyen: una leader tedesca europeista, per molti anni ministra di Merkel e alla quale la cancelliera non poté dire di no. E’ stato sempre Macron – ricorda ancora Hacker – a pronunciare un discorso alla Sorbona prefigurando un’Europa più forte e integrata, centrata su un bilancio comune, anche se i tedeschi per tre anni lo hanno ignorato”. Merkel fu fulminea nel reagire al disastro di Fukushima con la chiusura anticipata delle centrali nucleari tedesche, decretata a marzo 2011. Velocissima fu anche nel decretare la politica di accoglienza ai profughi mediorientali nel 2015, forse nell’illusione che il resto dei governi europei l’avrebbe seguita. Sull’Europa, invece, la cancelliera ci è sempre andata coi piedi di piombo, avendo però cura di muoversi nella direzione indicata dagli altri soci del club comunitario. “Ci sono voluti tre anni e una pandemia perché la Germania rispondesse a Macron”, nota comunque Hacker. Anni in cui la Cdu ha anche pagato un alto prezzo politico perdendo milioni di voti sul fianco destro a vantaggio dei sovranisti di Alternative für Deutschland, euroscettici coerenti sin dal loro debutto sulla scena nazionale alle elezioni del 2013.

Tutt’oggi sono in molti in Germania a leggere il successo di AfD attraverso la lente della politica migratoria imposta da Merkel fra la fine del 2015 e l’inizio del 2016. Spaventati dall’arrivo di oltre un milione di musulmani, i tedeschi si sono buttati a destra. La stessa apertura ai profughi, secondo altri, avrebbe provocato effetti anche al di là del territorio tedesco: ad esempio, spaventando i sudditi inglesi al punto da convincerli a votare Sì al referendum sulla Brexit, celebrato a giugno del 2016. Non sta a noi stabilire se l’uscita dei britannici dall’Ue sia da attribuire alla Merkel: è vero però che il resto del mondo occidentale ha sempre osservato con attenzione ogni sua mossa. Così, a ottobre 2015 l’allora candidato repubblicano alla Casa Bianca Donald Trump definì “folle” la decisione della cancelliera di permettere l’afflusso di profughi mediorientali in Germania. Ragion per cui c’è chi si è spinto a sostenere che anche l’elezione di Trump sia – seppur indirettamente – opera della leader tedesca. Responsabile o meno, Merkel ha vissuto l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea come una bruciante sconfitta. E non solo perché Londra era e resta uno dei primi partner commerciali di Berlino, ma anche perché il Sì alla Brexit rappresenta un’affermazione di quel sovranismo inviso alla cancelliera, la leader che per oltre tre lustri ha guidato la Germania più multilateralista e globalista della sua storia. Per Merkel non si è trattato di una scelta ideologica: la cancelliera sa bene che la cooperazione in seno alle organizzazioni e ai forum internazionali, così come l’apertura agli altri Stati, sono il miglior antidoto a dazi, dogane, tariffe, agli standard divergenti sui prodotti e a tutto ciò che possa rappresentare un ostacolo alla penetrazione delle merci e dei servizi tedeschi nel resto del mondo.

L’immagine potente di un’Europa che, messa in ginocchio dalla pandemia, frana sotto il peso del proprio debito ha dunque dato ai tedeschi quella scossa necessaria per dire di sì al Next Generation Eu. Nel cambiamento di accenti di Merkel e nel definitivo abbandono della rigorosa Schäublenomics, Hacker legge la realizzazione del sogno di Thomas Mann: quello di una Germania europeizzata piuttosto che l’inquietante visione di un’Europa germanizzata. “Resta da vedere se questa sia una scelta strategica: oggi però la consapevolezza che bisogna procedere insieme e occuparsi anche dei problemi dei nostri vicini di casa mi sembra prevalente in Germania. Forse l’ultima voce contraria a questo tipo di approccio era quella di Friedrich Merz, lo storico rivale di Merkel in seno alla Cdu, uscito sconfitto dal congresso del partito che si è celebrato a gennaio 2021”. Il Björn Hacker intervistato nel 2021 è insomma più ottimista del ricercatore sentito nel 2014.
 

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