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Una destra senza complessi

Guido De Franceschi

Il Partito popolare spagnolo scappa da Vox e dal passato, ma non sa in che direzione correre. I consigli di Aznar, la mossa coraggiosa del leader Casado e la via stretta del conservatorismo di questi anni Venti

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La storia recente del centrodestra spagnolo è una storia di “complessi”: chi nel Partito popolare (Pp) si manifesta senza troppi imbarazzi come “di destra” si vanta di non averne e chi invece si fa portatore di un messaggio passe-partout, meno identitario, è stato spesso accusato di essere un complessato. Per esempio, Federico Jiménez Losantos, star giornalistica di quelli “senza complessi” e fustigatore delle posizioni annacquate di alcuni leader del Pp, ha utilizzato per anni la definizione “maricomplejinesper definire l’ex premier Rajoy e i suoi: è un neologismo che gioca con il nome di battesimo di Rajoy (Mariano), con la parola “complejos” (“complessi”) e, tanto per dimostrare di non avere complessi, anche con la parola “maricón” (“finocchio”), il tutto declinato con il diminutivo “-in”.

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La storia recente del centrodestra spagnolo è una storia di “complessi”: chi nel Partito popolare (Pp) si manifesta senza troppi imbarazzi come “di destra” si vanta di non averne e chi invece si fa portatore di un messaggio passe-partout, meno identitario, è stato spesso accusato di essere un complessato. Per esempio, Federico Jiménez Losantos, star giornalistica di quelli “senza complessi” e fustigatore delle posizioni annacquate di alcuni leader del Pp, ha utilizzato per anni la definizione “maricomplejinesper definire l’ex premier Rajoy e i suoi: è un neologismo che gioca con il nome di battesimo di Rajoy (Mariano), con la parola “complejos” (“complessi”) e, tanto per dimostrare di non avere complessi, anche con la parola “maricón” (“finocchio”), il tutto declinato con il diminutivo “-in”.

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Fino a un paio di anni fa, questa faccenda dei complessi aveva forse a che vedere con l’asimmetria del bipartitismo spagnolo in cui, se da un lato c’erano sia il Partito socialista (Psoe) sia altri partiti più piccoli che si collocavano alla sua sinistra, dall’altro c’era solo il Pp, che non aveva nessuno alla sua destra a parte qualche gruppuscolo da zerovirgolazero e che doveva quindi equilibrare al suo interno istanze centriste e spinte più radicali. O forse, in passato, i complessi veri o presunti avevano a che fare con il fatto che il fascismo, nella sua declinazione franchista, non era ancora così lontano nel tempo.
In ogni caso, la questione del non avere complessi (o del non avere il complesso di essere additato come qualcuno con i complessi) sembrava essere ormai solo un riflesso del passato. Ma poi il Pp e il suo attuale leader, Pablo Casado, si sono imbattuti in un problema gigantesco. Che non è “soltanto” l’aver perso (male) le due successive elezioni politiche del 2019 e l’essere quindi finiti all’opposizione del governo guidato dal socialista Pedro Sánchez e appoggiato da Podemos, il movimento radical-populista di Pablo Iglesias. E che non è “soltanto” l’aver ottenuto un risultato indegno di uno dei due grandi partiti nazionali nelle elezioni catalane del 14 febbraio (3,8 per cento dei voti e 3 seggi su 135).

 

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Il gigantesco problema del Pp e di Pablo Casado si chiama Vox. Il partito di estrema destra populista guidato da Santiago Abascal (che è un ex del Pp) va a caccia del consenso facile e della polemica mediatica. Ha un’agenda che può essere definita sovranista (se la si osserva da fuori della Spagna) o classicamente ultranazionalista (se invece la si guarda da dentro una Spagna alle prese con spinte centrifughe) e, nelle recenti elezioni catalane, ha compiuto quello che nel dibattito politico spagnolo si indica sempre, chissà poi perché, con la parola italiana “sorpasso”: ha doppiato i popolari come numero di voti e ha ottenuto il quadruplo dei loro seggi. E Vox è, by definition, un partito senza nessun complesso.

 

Per i popolari, che non avevano mai avuto concorrenti alla loro destra né in Spagna né, meno che mai, in Catalogna, il successo di Vox, iniziato nel 2018 in alcune elezioni regionali e poi confermatosi a livello nazionale, è stato uno shock. Tanto più che l’impennata dei consensi per Vox ha coinciso proprio con l’arrivo alla guida del Pp del falchetto Pablo Casado, uno che non aveva complessi. Infatti proprio da Casado, che nel 2018 aveva sconfitto la “continuista” Soraya Sáenz de Santamaría nella corsa per la leadership del partito, ci si aspettava la svolta a destra di sapore aznariano che avrebbe dovuto scuotere il partito e ravvivare l’attenzione degli elettori che Rajoy aveva fatto assopire.

 

Ma l’attrattività del Pp presso il suo elettorato potenziale sembra essersi inceppata proprio lì, e cioè nel tentativo di Casado di presentarsi come una reincarnazione di Aznar. E, visto che nei giorni scorsi proprio l’ex premier e alcuni suoi sodali del tempo, approfittando dell’attenzione mediatica per un anniversario politico che cade oggi, hanno criticato l’attuale gestione del partito, è opportuno riavvolgere il nastro.

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Esattamente venticinque anni fa, e cioè nelle elezioni politiche del 3 marzo 1996, trionfava per la prima volta il Partito popolare guidato da un quarantatreenne José María Aznar. Considerando il contesto allora spiccatamente bipartitico della democrazia spagnola, il verbo “trionfare” sembra eccessivo. Infatti, nel 1996, il Pp raccolse “solo” il 38,8 per cento dei voti a fronte del 37,6 per cento del Psoe. E ottenne 156 seggi su 350, mancando la maggioranza assoluta. Eppure, proprio di un trionfo si trattò.

 

Infatti, dopo quattordici anni di “felipismo”, e cioè dopo quattro legislature consecutive in cui aveva dominato il socialista Felipe González, con quella vittoria Aznar portava al governo il Pp, il partito che era nato nel 1989 come una rigenerazione, non solo onomastica, di quella Alianza popular che nel 1976, subito dopo la morte del dittatore, aveva radunato i reduci e i rottami del regime franchista disposti a misurarsi con la democrazia. E il Pp era il partito che aveva come fondatore Manuel Fraga, già per sette anni ministro dell’Informazione, e cioè della Propaganda, di Francisco Franco (Fraga mantenne poi la presidenza onoraria del Pp fino alla sua morte, nel 2012).

 

La vittoria del Pp alle elezioni del 1996 fu quindi storica: con l’ascesa alla carica di primo ministro del giovane leader del grande partito di centrodestra, che era stato impresentabile ma che era ormai saldamente approdato sulle spiagge del Partito popolare europeo e del liberalismo conservatore, si verificò il primo vero episodio di alternanza di governo della Spagna bipartitica. E questo cambio di mano concluse definitivamente il percorso di transizione del paese verso una matura democrazia.

 

La prima mossa di Aznar fu quella di stringere il cosiddetto Patto del Majestic con Jordi Pujol, il leader della coalizione catalanista Convèrgencia i Unió, che garantì un appoggio esterno al governo del Pp (un accordo simile fu poi raggiunto anche con il Partito nazionalista basco). E si intende bene quanto la Spagna del 1996 fosse diversa da quella di oggi se si pensa che proprio Convergència i Unió si sarebbe poi trasformata in Junts per Catalunya, il movimento irriducibilmente indipendentista di Carles Puigdemont, l’ex presidente della Generalitat catalana che si è rifugiato in Belgio per sfuggire alle condanne della giustizia spagnola e che i più gentili tra i politici del Pp definiscono “golpista”.

 

In quegli anni, invece, la grande preoccupazione della Spagna era il terrorismo dell’Eta. E proprio il fatto che il governo Aznar attribuì frettolosamente (e “forzatamente”) al sanguinario gruppo armato basco i terrificanti attentati jihadisti dell’11 marzo 2004, avvenuti a Madrid alla vigilia delle elezioni, costò ai popolari una sconfitta nelle urne che aprì, a sorpresa, la stagione zapaterista (ora non c’è più nemmeno l’Eta, ma questa è un’altra storia). E sempre in quegli anni, dopo l’arrivo al potere, la corruzione aveva cominciato a corrodere le strutture del Pp e poi a danneggiarne l’immagine presso gli elettori, a causa dei molti scandali e delle vicende giudiziarie, che hanno visto nuovi episodi nelle ultime settimane.

 

La crisi che sta attraversando oggi il Pp ha molto a che fare con quelle vecchie vicende e, in generale, con l’eredità che Casado ha ricevuto insieme con la guida del partito. E, a giudicare dalla grande eco mediatica che stanno ottenendo i suggerimenti non richiesti espressi da chi ha guidato il Pp prima di lui, sembra proprio che il leader popolare debba tentare l’impresa di immaginare il futuro mentre è inseguito dal passato.

 

Casado, dopo la disastrosa performance elettorale catalana, ha proposto che il partito lasci la sua storica sede di calle de Génova 13, a Madrid, un posto che da quarant’anni è come una sineddoche (infatti, se “Ferraz” è il Psoe, che ha il suo quartier generale al numero 70 di quella via della capitale, “Génova” è il Pp). Il trasloco avverrebbe non tanto e non solo per risanare il bilancio del partito e non tanto e non solo perché perfino la regolarità dei lavori di ristrutturazione del palazzo di calle de Génova 13 sono oggetto di indagine giudiziaria, ma proprio per dare un taglio netto con un passato che Casado sente come troppo gravoso per le sue spalle (ma “se ogni volta che un partito ha un problema dovesse andarsene dal luogo in cui sta, allora non avrebbe nessuna sede”, ha chiosato acido il potente leader dei popolari galiziani, Alberto Núñez Feijóo).

 

Casado, in effetti, vuole scappare. Da Vox e dal passato. Ma non sa da che parte mettersi a correre. Quando è arrivato a capo del Pp, nel 2018, Casado non aveva complessi e non era accusato di averne. Aveva solo trentasette anni e voleva riprendere il discorso di Aznar, che era stato interrotto dai sette anni di socialismo zapateriano e poi dai sette anni di sonnacchiosa amministrazione rajoyana. Un discorso di destra, ma rinnovato. Capace di iniettare forze fresche in un partito che i giovani ignoravano e di riportare a casa un elettorato che negli ultimi anni si era rivolto a Ciudadanos, forse in cerca, più che di centrismo, di proposte contemporanee, di idee nuove e di maggiore onestà.

 

E invece i Ciudadanos si sono sfaldati da soli, senza riconsegnare quasi nessuno dei loro voti ai popolari. E invece il discorso di destra (seppur estremo e non rinnovato) ha iniziato a farlo Santiago Abascal. E invece le proposte contemporanee (seppur retrive), le idee nuove (seppur vecchissime) e la rivendicazione di maggiore onestà (in assenza della prova del potere) gli elettori le hanno trovate in Vox.  
All’inizio, Casado ha cercato di neutralizzare Abascal con la sovrapposizione. Ha aggiustato la propria voce sui vocalizzi estremisti di Vox, ha accettato l’appoggio esterno dei sovranisti in importanti governi locali, tra cui l’Andalusia e Madrid, e ha regalato ad Abascal (e a Pedro Sánchez) la famosa foto di “Plaza de Colón” in cui, nel febbraio 2019, i leader del Pp, di Vox e di Ciudadanos apparivano per la prima volta spalla a spalla in un’occasione pubblica, ostentando una trina unità del centrodestra.

 

Poi, dopo aver inghiottito l’amarezza di un successo elettorale di Vox combinato con i risultati pallidi del Pp, Casado ha deciso una mossa coraggiosa, mostrando di non avere il complesso di avere complessi. L’occasione è arrivata nell’ottobre scorso quando Vox ha tentato in Parlamento una mozione di censura contro il governo Sánchez: una manovra innescata non perché avesse chance di riuscita, ma solo per imbarazzare il Pp costringendolo alla scelta tra il seguire, in posizione gregaria, l’azione dannunziana capitanata da Vox e il rifiutarsi di votare contro il governo socialista-podemita. Quel giorno, Casado ha aggredito a freddo Abascal, che è apparso intontito come un pugile distratto.

 

   

 

Dopo aver tracciato una linea chiara, precisando che Sánchez “è il peggior premier degli ultimi quarant’anni” (e non “degli ultimi ottant’anni”, come aveva invece affermato Abascal, dando a intendere che lui, evidentemente, preferisce Francisco Franco all’attuale primo ministro socialista), Casado si è poi rivolto in modo chiarissimo al leader di Vox: “Sono molte le differenze tra noi, grandi come la distanza che c’è tra il liberalismo riformista e il populismo antiliberale”. E poi, per chiarire quella “cosetta” dei complessi, Casado ha aggiunto: “Signor Abascal, non è che non abbiamo coraggio. Non è che ci siamo arresi. Non è che siamo codardi. Quello che succede è che non vogliamo essere come voi. Non siamo come voi perché non vogliamo essere come voi. Così: semplice. Il Pp non vuol essere un altro partito della paura, dell’ira, del rancore e della vendetta, dell’insulto e della lite, della manipolazione, delle menzogne e dell’involuzione frontista”.

 

Come a dire: la destra siamo noi, senza complessi, e voi siete solo una robaccia. A molti è sembrata una presa di posizione coraggiosa. Necessaria e anche molto aznariana. Tanto più che proprio Aznar aveva pubblicamente detto che il Pp non avrebbe dovuto accodarsi alla mozione di censura di Vox. Ma poi, in Catalogna, Vox ha continuato a crescere e il Pp a perdere voti. E Casado, dopo essersi accordato con il Psoe sulle nomine per la gestione della radiotelevisione pubblica, e aver quindi apparentemente avviato un percorso di larghe intese, ora si impunta sul rinnovo del Consiglio generale del potere giudiziario, l’organo ispirato al nostro Csm. Casado, mentre tenta l’allontanamento da Vox, pretende che i socialisti emarginino “simmetricamente” Podemos dalle decisioni importanti. Ma la simmetria non c’è. E non solo perché il Psoe (e Podemos) sono al governo e il Pp (e Vox) sono all’opposizione. Ma anche, e soprattutto, perché se Vox impensierisce sempre di più il Pp con la sua crescita, Podemos appare invece in declino e non preoccupa elettoralmente (specie finché è al governo) il Psoe. Proprio questa asimmetria frena però Casado da quel più affettuoso abbraccio larghintesista con i socialisti che rischierebbe di soffocarlo in quota “complessato”.

 

Ora, mentre c’è chi vede nel galiziano Núñez Feijóo la possibilità del ritorno a una meno identitaria moderazione rajoyana, che secondo alcuni sarebbe più appetibile per gli elettori ma per altri sarebbe solo un rinculare da complessati, Aznar e i suoi sostengono invece che le attrattive (e quindi le posizioni) offerte da Vox vadano subito riassorbite nell’alveo del Pp, che deve tornare a essere il partito capace di contenere tutto quello che c’è a destra della sinistra.

 

Ieri Casado e Aznar sono entrambi intervenuti nella celebrazione del 25esimo anniversario della vittoria del 1996 e l’ex premier, pur mostrandosi più morbido nei confronti dell’attuale leader, gli ha raccomandato di non abbandonare la “battaglia delle idee”. Per Casado ogni strada è stretta. E d’altra parte lo stesso Aznar ha confessato pochi giorni fa, in un’intervista a Jordi Évole che ha fatto rumore, che lui “mai avrebbe votato Trump, mai!” e che senza dubbio avrebbe scelto Hillary Clinton prima e Joe Biden poi. Insomma, Casado dovrebbe neutralizzare Vox, ma senza trumpizzare. Anche se poi molti, a sinistra, dicono che l’estremismo è stato seminato nel dibattito politico spagnolo proprio dagli aznaristi. E che sarebbero stati proprio loro a creare il “mostro” che ora li sta divorando.

 

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