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Eccoli i vent’anni di Putin

Anna Zafesova

Il palazzo segreto con il tetto che perde, le confessioni degli avvelenatori, i figli e le amanti. L’élite inetta della Russia non riesce più a proteggere neppure i segreti più intimi del Cremlino

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Difficile scegliere la più incredibile tra le infinite delizie del palazzo segreto di Vladimir Putin, mostrato nell'ultimo film-indagine di Alexei Navalny. Ma, perdendosi tra i broccati della sala del narghilè con palo per lo spogliarello e i fregi dorati del salotto da lettura, si perde quasi di vista il motivo per cui il più irriverente critico del presidente russo è riuscito a penetrare nella sua dimora nascosta: ha approfittato della complicità di chi vi stava facendo i lavori, perché la sontuosa reggia da un miliardo di dollari aveva il tetto che perdeva ed era stata invasa dalla muffa.

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Difficile scegliere la più incredibile tra le infinite delizie del palazzo segreto di Vladimir Putin, mostrato nell'ultimo film-indagine di Alexei Navalny. Ma, perdendosi tra i broccati della sala del narghilè con palo per lo spogliarello e i fregi dorati del salotto da lettura, si perde quasi di vista il motivo per cui il più irriverente critico del presidente russo è riuscito a penetrare nella sua dimora nascosta: ha approfittato della complicità di chi vi stava facendo i lavori, perché la sontuosa reggia da un miliardo di dollari aveva il tetto che perdeva ed era stata invasa dalla muffa.

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Errori di progettazione, esecuzione approssimativa e sciatta più probabilmente qualche furtarello degli addetti ai lavori: la casa di Putin non poteva non essere la rappresentazione fisica del suo regime, non solo nell’ossessione per la segretezza e nella grandeur pacchiana, ma sopratutto nell'incompetenza. Del resto, sarebbe sbagliato chiedere prodigi di efficienza a un sistema che non riesce nemmeno ad avvelenare il suo principale nemico, e gli permette di telefonare a uno dei suoi assassini per farsi raccontare come gli avevano messo il veleno Novichok nelle mutande. Impossibile esigere una ventilazione che funzioni da un alto grado dei servizi segreti – oltre che presidente al quarto mandato – che arresta il leader dell'opposizione sotto le telecamere di tutto il mondo, direttamente all’aeroporto, senza nemmeno chiedersi se avesse lasciato una busta segreta da aprire in caso di guai, e quale potesse essere il suo contenuto. Uno dei servizi di spionaggio più temuti al mondo non è riuscito a impedire che venissero caricate su YouTube le immagini del teatro privato e della stanza con macchinine giocattolo di Putin, e mentre il video ha fatto il record di più di 40 milioni di visualizzazioni in 48 ore, Navalny ha svelato il segreto principale del Cremlino: non le ville, le tangenti e le amanti, ma l’inettitudine.

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Non che fosse un segreto vero e proprio: gli indizi erano sotto gli occhi di tutti. Come quando, nel 2018, il presidente ha mostrato al proprio Parlamento un filmato con i nuovi missili ipersonici identico a quello già trasmesso sulla tv russa dieci anni prima (come si vedeva anche dalla scarsa qualità del CGI), o ha spacciato a Oliver Stone un filmato di un attacco degli americani in Siria per una brillante azione delle truppe speciali russe. O quando i suoi assassini dello spionaggio militare Gru si sono fatti beccare nel 2018 a Salisbury, dove hanno buttato una boccetta piena di Novichok in un cestino  per strada e si sono fatti riprendere da tutte le telecamere, per poi giustificarsi in un’intervista che avrebbe fatto morire d’invidia i Monty Python. Del resto, già dodici anni prima i killer dell’ex Kgb venuti a uccidere Aleksandr Litvinenko avevano cosparso di polonio alberghi, sushi bar e aeroporti di Londra.

 

Gli 007 russi si sono fatti riconoscere un po’ ovunque, dai Paesi Bassi alla Macedonia, dal Madagascar a Berlino, lasciandosi dietro una scia di prove, errori e scivoloni come le ricevute del taxi che li aveva portati dal quartier generale dello spionaggio militare all’aeroporto. Ovviamente possiamo ipotizzare di essere venuti a conoscenza soltanto delle operazioni fallite, ignorando quelle andate nel silenzio a buon fine, ma anche in questo caso il numero di quelle cannate resta comunque clamoroso. E del resto, anche nei tempi gloriosi della Guerra fredda, con le spie di una volta, gli agenti di Mosca si facevano beccare un po’ troppo spesso, vuoi con l’ombrello che aveva iniettato pallini avvelenati al dissidente bulgaro Georgi Markov a Londra (e che si era rotto già al secondo utilizzo, salvando la vita ad Aleksandr Solzhenitsyn), vuoi con una picozza a Città del Messico.

 

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Nonostante la nostalgia per il passato fosse diventata un’ideologia ufficiale, l’eredità sovietica ha procurato dei guai a Putin anche in altri campi, in una sequenza interminabile di incendi e collassi, navi affondate, aerei precipitati e dighe sbriciolate, per non parlare di prototipi di missili che esplodevano sulla pista di lancio e satelliti che non decollavano. Che l’Unione sovietica non fosse esattamente sinonimo di efficienza lo si deduce già dalla presenza, nel linguaggio dell'epoca, della parola “importnyj”, d’importazione, con la quale la generazione di Putin e dei suoi elettori designava qualunque cosa che non fosse prodotta in patria e di conseguenza, già per questo motivo, era migliore. Le missioni di lavoro all’estero erano il premio più ambito di una carriera sovietica, proprio per l’opportunità di fare scorta di tutto quello che a casa era introvabile o improponibile, dai vestiti agli elettrodomestici, fino alle buste di plastica dei supermercati. Una consapevolezza del fallimento offuscata poi per un decennio dalla ricchezza petrolifera, e dalla propaganda di Putin a torso nudo in compagnia di tigri, aironi e atleti, in un tripudio di cavalli e nastri che nessuno si aspettava che l’occidente avrebbe ingurgitato con la stessa prontezza dei meno vaccinati russi. Le dissertazioni sul “gran maestro di scacchi della geopolitica” saranno oggetto di studio della psicologia politica e degli esperti di fake news, che un giorno scopriranno come una vasta fetta di opinione pubblica e di esperti possa aver discusso seriamente di un “ingresso della Russia nel Mediterraneo”, mentre i mari venivano solcati dalla Admiral Kuznetsov, l’unica portaerei russa, sballottata da un teatro strategico all’altro, lasciandosi dietro una scia di fumo nero più denso di quello eruttato dalle prime locomotive ottocentesche. Costruita negli anni Ottanta come “Leonid Brezhnev”, l’ammiraglia della marina militare russa viene ora sottoposta a un meritato restauro, dopo che l’unico cantiere galleggiante che poteva contenerla è affondato per colpa di un black out.

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Il declino della Russia non è iniziato ieri, e tutto il fenomeno putiniano in un certo senso è stato frutto di una sindrome post-traumatica per la perdita dell’impero sovietico, con un misto di rimozione e illusione. L’uomo che vent’anni fa aveva promesso ai suoi elettori un pil pro-capite pari a quello del Portogallo (senza riuscirci), si è fatto buttare fuori dal G8 dopo aver annesso una penisola ucraina che riteneva sua, negando con sguardo candido di averla invasa con i suoi “omini verdi”. La Crimea è stata riconosciuta come russa da appena sette stati, tra cui la Corea del nord e il Venezuela, più o meno gli stessi che hanno votato per l'indipendenza delle autonomie che Mosca nel 2008 ha strappato nella guerra con la Georgia, rimaste insieme alla Trasnistria delle enclave di miseria che il loro status non gli permetterà mai di superare. Non è stata riconosciuta nemmeno dal dittatore bielorusso Aljaksandr Lukashenka, che pure si vanta di essere “l'unico amico di Putin”, nonostante finora sia sempre riuscito a gabbare Mosca.

 

Un segreto che può essere rimasto nascosto in bella vista all’opinione pubblica, ma che i potenti dell’occidente sapevano benissimo. George W. Bush e Barack Obama non avevano mai visto la stanza con le macchinine giocattolo di Putin, ma erano stranamente unanimi nel fastidio per il suo infantilismo. Per Bush parlare con lui era “come discutere con un tredicenne che ha torto”, a Obama era sembrato “il ragazzino annoiato in fondo alla classe”. D’altra parte, come potevano giudicare uno che aveva accusato il presidente americano (in quel caso Bush) di produrre le cosce di pollo da esportare in Russia in impianti diversi da quelli in cui venivano impacchettati i polli per il consumo interno. L’atteggiamento permaloso, stizzito e rancoroso di Putin era evidente anche a chi guardava gli eventi mondiali alla tv: perfino quando riusciva a invitare i leader a casa sua, per colpirli con lo sfarzo di Pietroburgo, ne approfittava per lamentarsi, accusare e minacciare. “Sembra una discussione tra liceali”, si lamentava Bush con Tony Blair, e non aveva ancora sentito Putin rivendicare del tutto seriamente all’Onu la ripartizione del mondo in una nuova/vecchia Yalta, o litigare ogni volta che qualcuno racconta una storia dell’Europa che non è stata copiata dai manuali sovietici o offendersi quando, in cambio di missili su Ucraina e Siria, riceve sanzioni economiche e tagli alle forniture del suo gas, ormai troppo caro in tutti i sensi.

 

Il Cremlino si offende ancora di più quando i suoi sportivi gareggiano – quando vengono ammessi alle competizioni internazionali – sotto la bandiera bianca olimpionica, essendo la nazionale bandita per doping di stato, in una serie di scandali che curiosamente sono iniziati appena Putin è entrato al Cremlino. E’ un complotto, un perenne sforzo dell’occidente collettivo a screditare una potenza di cui temono la concorrenza in tutti i campi. Intanto una ministra si fa scappare le statistiche vere della pandemia, che portano la Russia al secondo posto tra i paesi massacrati dal coronavirus, e più della metà dei russi non vuole vaccinarsi con un vaccino che sospettano essere stato creato in fretta e furia non per salvare loro, ma per compiacere il loro capo. La diplomazia immunologica di Putin è stata finora intensa ma poco fruttuosa – perfino Erdogan ha rinunciato allo Sputnik, preferendogli il vaccino cinese – mentre buona parte dei russi confessa ai sondaggisti che nutrirebbe molta più fiducia verso i vaccini occidentali.

 

   

 

Già nel 2014 Angela Merkel aveva stabilito che Putin abitasse “in un mondo tutto suo”. Dove però si trova a suo agio. Il suo procuratore speciale scrive sui social poesie contro Navalny, che pubblica sotto pseudonimo insieme a lodi ai bolscevichi e agli attori famosi. Il suo capo dell’agenzia spaziale accusa gli americani di aver trapanato un buco nella stazione orbitante internazionale e promette di dipingere i razzi russi con i motivi dell’artigianato popolare. Il suo cuoco manda mercenari in Libia, Siria e Repubblica Centroafricana, e troll nel resto del mondo. Il suo capo dello spionaggio estero dice che è stata Merkel ad avvelenare Navalny. Il suo ministro degli Esteri spiega che l’indagine sull’avvelenamento di Navalny non è stata aperta perché non è chiaro cosa è successo, in un ribaltamento logico e giuridico che fa temere per chi affida a quell’uomo la discussione di accordi internazionali. Del resto, la portavoce ufficiale della diplomazia russa si specializza in post su Facebook dove insulta mezzo mondo, e Putin è stato perfino costretto a chiedere scusa dopo che lei aveva paragonato il presidente serbo in visita alla Casa Bianca a Sharon Stone che apre le gambe in “Basic Instinct”.

 

Un’élite di peracottari, molti dei quali possono giustificare il bassissimo livello di competenza politica ed economica soltanto con il loro background di portaborse e bodyguard in un sistema già non governato da geni come l’Urss dei tempi di Brezhnev. A rivedere in una rapida sequenza gli ultimi vent’anni di giustificazioni del Cremlino, sembra un film in loop: non siamo stati noi, è un complotto dei concorrenti occidentali, non ci trattano da eguali, non è vero che i nostri militari hanno sconfinato, non è vero che i nostri agenti hanno avvelenato, non è vero che i nostri hacker hanno hackerato, non è vero che i nostri oppositori vengono uccisi, non è vero che i nostri atleti si fanno di doping, e comunque non glielo abbiamo somministrato noi, è un complotto, vogliono screditarci, gli americani fanno le stesse cose e nessuno gli dice niente, e se l’avessimo voluto ammazzare noi ci saremmo riusciti perché noi le cose le facciamo sul serio. Intanto i missili cadono, gli avvelenatori si fanno beccare con le mani nelle mutande, la reggia segreta perde acqua dal tetto e il colosso statale del gas Gazprom riduce la sua capitalizzazione di cinque volte in dieci anni, non tanto perché produce meno metano, ma perché perfino gli analisti della altrettanto statale banca Sberbank rilevano una gestione disastrosa che punta essenzialmente a consolidare i pacchetti azionari in mani vicine al regime a scapito di ricerca e investimenti. E il fatto che anche i segreti più intimi del capo del Cremlino, come le amanti e i figli illegittimi, stanno venendo a galla dimostra che anche pezzi del suo stesso establishment stanno ormai scavando sotto il suo trono.

 

 

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