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Le manette cinesi e noi

Giulia Pompili

I paesi occidentali sospendono i trattati di estradizione con Hong Kong. L’Italia ci sta pensando ma finora le prese di posizione (di Luigi Di Maio) sono state deboli

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A Hong Kong il patto sociale si è rotto dopo una proposta di legge sull’estradizione. Ed è sull’estradizione, di nuovo, che si sta consumando l’ennesima guerra diplomatica tra Pechino e resto del mondo occidentale. Nel 2019 le proteste nell’ex colonia inglese cominciarono quando il governo locale propose una norma che avrebbe dato modo alla Cina di estradare da Hong Kong chi ritenesse in violazione della legge. Dopo le manifestazioni era stata accantonata, ma la proposta è stata poi sostituita da un’altra legge, ben più ampia e articolata: quella sulla sicurezza nazionale imposta dal governo centrale cinese ed entrata in vigore il 30 giugno scorso. 

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A Hong Kong il patto sociale si è rotto dopo una proposta di legge sull’estradizione. Ed è sull’estradizione, di nuovo, che si sta consumando l’ennesima guerra diplomatica tra Pechino e resto del mondo occidentale. Nel 2019 le proteste nell’ex colonia inglese cominciarono quando il governo locale propose una norma che avrebbe dato modo alla Cina di estradare da Hong Kong chi ritenesse in violazione della legge. Dopo le manifestazioni era stata accantonata, ma la proposta è stata poi sostituita da un’altra legge, ben più ampia e articolata: quella sulla sicurezza nazionale imposta dal governo centrale cinese ed entrata in vigore il 30 giugno scorso. 

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Da un mese e mezzo il sistema giuridico di Pechino improvvisamente è entrato a far parte della vita quotidiana di Hong Kong, e in risposta agli arresti, alle denunce per sedizione, al giro di vite contro le libertà garantite nell’ex colonia inglese, si sono mossi vari paesi. Il primo governo a sospendere il trattato d’estradizione con Hong Kong è stato quello del Regno Unito, seguito poi da Nuova Zelanda, Canada, Australia e ultima la Germania.

 

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L’America di Donald Trump ha annunciato la stessa misura e la Francia ha fatto sapere che non ratificherà il trattato d’estradizione firmato tre anni fa. In risposta, il governo di Hong Kong ha deciso di sospendere la “collaborazione giudiziaria” con Germania e Francia. Il messaggio di certe azioni è chiaro: ci fidiamo del sistema giudiziario di Hong Kong, della Basic Law e delle garanzie di autonomia, ma ora che le mani di Pechino sono arrivate fino a lì non ci fidiamo più.

 

Sebbene complicato, quello dell’estradizione è un tema importante anche politicamente, proprio perché Hong Kong ha sempre rappresentato l’avamposto d’occidente per fare affari con l’oriente. Mentre i giornali internazionali se ne vanno, e le aziende cercano sedi altrove, i governi occidentali si muovono per mandare segnali contro Pechino: ogni azione di forza è un passo indietro verso la collaborazione.

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L’Italia è stata molto debole, all’inizio, nella risposta all’entrata in vigore della legge sulla sicurezza. Specialmente il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, l’uomo che ha posto la firma sulla Via della Seta con la Cina. Poi, ultimamente, il governo ha cambiato posizione. Da qui a mandare segnali concreti, però, ce ne vuole.

 

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Perché il nostro paese (come soltanto Francia, Spagna, Portogallo, Romania, Bulgaria e Lituania in Europa) ha un trattato di estradizione direttamente con la Cina. E’ entrato in vigore nel dicembre del 2015 e da allora, secondo fonti del ministero della Giustizia, Pechino ha richiesto all’Italia una ventina di persone, e ne sono state consegnate solo tre o quattro che avevano compiuto reati finanziari.

 

Certo l’estradizione in un paese autoritario non è facile: serve che il reato sia tale in entrambi i paesi (dunque è fatta salva la libertà d’espressione, per esempio) e che nel paese richiedente non sia punito dalla pena di morte. Non solo: quando la Cina, per esempio, emette un red notice, un avviso d’arresto sul database dell’Iterpol, e la persona ricercata viene fermata dalle Forze dell’ordine italiane, la prima cosa che si fa è capire se è un perseguitato politico o religioso, oppure se ha già fatto domanda di asilo.

 

In quel caso il red notice viene ignorato. Per Pechino però si tratta soprattutto di rafforzare le relazioni bilaterali, come nel caso della cooperazione di polizia: l’Italia è tra i pochissimi paesi al mondo che periodicamente ospita pattuglie cinesi sul suo territorio (una cooperazione che invece è stata interrotta in Francia): non vanno in giro ad arrestare la gente, e si occupano soprattutto per i turisti cinesi in Italia, ma è uno tra i tanti motivi per cui i dissidenti cinesi difficilmente scelgono il nostro paese per vivere.

 

Con Hong Kong, invece, l’Italia negozia già da qualche anno un trattato di estradizione a cui manca solo la ratifica (proprio come la Francia). E sembra che Forza Italia sia pronta a chiedere al governo di non ratificare quell’accordo, e forse anche di sospendere il trattato di estradizione con la Cina. Se ne è parlato, ha detto al Foglio Lucio Malan, senatore di Forza Italia e co-chair dell’Inter-Parliamentary Alliance on China, ma non c’è stata ancora nessuna azione concreta.

 

E invece nel Partito democratico al governo, secondo quanto risulta al Foglio, non c’è ancora stata alcuna discussione su questo argomento: il segretario Nicola Zingaretti, che non ha mai avuto un rapporto particolarmente stretto con i rappresentanti di Pechino sin dai tempi del suo incontro con il Dalai Lama, sarebbe pure aperto alla possibilità.

 

Il problema è che una eventuale proposta del Parlamento di sospensione del trattato dovrebbe passare attraverso il parere della Farnesina, cioè il ministero italiano considerato più filo-cinese e dalla coppia Di Maio Di Stefano, il sottosegretario grillino che l’anno scorso andò a Hong Kong nel mezzo delle proteste senza parlare mai di autonomia.

 

Entrambi sono preoccupatissimi di perdere la faccia con Pechino, gli altri invece sono preoccupati di eventuali ritorsioni cinesi contro l’Italia considerata amica di tutti, quindi di nessuno. Il Pd insiste sulle azioni contro la Cina a livello europeo, ma è chiaro che su questa materia sono i singoli paesi a dover decidere.

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