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Con la repressione di Xi e il potere eterno di Putin torna il vecchio mondo postbellico

Giuliano Ferrara

Il mondo globalizzato è diviso in due, un mondo due sistemi, il capitalismo con la democrazia liberale e quello senza. Cercasi un’alternativa, disperatamente

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Due presidenti a vita, in Cina e in Russia. Una oculata e feroce repressione a Hong Kong, un referendum brezneviano (Tony Barber, Financial Times) che eternizza il potere di Putin con i voti infantilizzati del paese profondo e contro le maggioranze adulte di Mosca e San Pietroburgo. Si definisce con sempre più acuta precisione il modello delle democrazie illiberali, non nella piccola Ungheria feudalizzata dal potere personale di Orbán o nella Polonia contrastata delle ultime presidenziali, ma nella gigantesca Eurasia. Tutto legale, niente legittimità politica. Il Parlamento cinese approva la legge repressiva che scatta prima ancora di essere conosciuta e seppellisce il contratto per la liberazione di Hong Kong dallo status di colonia britannica basato sull’idea di “un solo paese e due sistemi”, mentre l’elettorato russo offre un massiccio sostegno a una possibile stabilizzazione istituzionale della democratura putiniana. Dal quadro manca del tutto la funzione di contrappeso di effettive libertà civili, formali e sostanziali, che solo la divisione dei poteri, solo la libertà di stampa e stretti limiti nel controllo di stato della vita pubblica e dell’opinione pubblica possono garantire. Inoltre, e questa è la sorpresa o la delusione cocente per chi crede nel nesso storico tra capitalismo e democrazia, si conferma che l’accumulazione del capitale e lo sviluppo delle forze produttive e della finanza possono prosperare, almeno relativamente, in un ambiente pluralista centralmente gestito e autoritariamente controllato, che non prevede una vera e funzionante democrazia politica. Il mondo globalizzato è diviso in due, un mondo due sistemi, il capitalismo con la democrazia liberale e quello senza.

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Due presidenti a vita, in Cina e in Russia. Una oculata e feroce repressione a Hong Kong, un referendum brezneviano (Tony Barber, Financial Times) che eternizza il potere di Putin con i voti infantilizzati del paese profondo e contro le maggioranze adulte di Mosca e San Pietroburgo. Si definisce con sempre più acuta precisione il modello delle democrazie illiberali, non nella piccola Ungheria feudalizzata dal potere personale di Orbán o nella Polonia contrastata delle ultime presidenziali, ma nella gigantesca Eurasia. Tutto legale, niente legittimità politica. Il Parlamento cinese approva la legge repressiva che scatta prima ancora di essere conosciuta e seppellisce il contratto per la liberazione di Hong Kong dallo status di colonia britannica basato sull’idea di “un solo paese e due sistemi”, mentre l’elettorato russo offre un massiccio sostegno a una possibile stabilizzazione istituzionale della democratura putiniana. Dal quadro manca del tutto la funzione di contrappeso di effettive libertà civili, formali e sostanziali, che solo la divisione dei poteri, solo la libertà di stampa e stretti limiti nel controllo di stato della vita pubblica e dell’opinione pubblica possono garantire. Inoltre, e questa è la sorpresa o la delusione cocente per chi crede nel nesso storico tra capitalismo e democrazia, si conferma che l’accumulazione del capitale e lo sviluppo delle forze produttive e della finanza possono prosperare, almeno relativamente, in un ambiente pluralista centralmente gestito e autoritariamente controllato, che non prevede una vera e funzionante democrazia politica. Il mondo globalizzato è diviso in due, un mondo due sistemi, il capitalismo con la democrazia liberale e quello senza.

  

Putin e Xi sono due leader forti e geniali di temperamento e talento, che realizzano grandi progetti nazionali di stabilizzazione e consolidamento imperiale, l’uno con la gestione oligarchica delle immense risorse in petrolio, gas e materie prime della Russia, esposta a una dura recessione ma non alla contendibilità nella sfera del potere, l’altro con un turbocapitalismo di stato e commerciale che mantiene anche formalmente in vigore l’antica e corazzata dominanza del partito unico, senza per questo rinunciare ai benefici della ricerca avanzata, della tecnologia competitiva e dell’orizzonte inedito e formidabile dell’intelligenza artificiale. Se c’è una ragione affinché Trump si tolga dalla scena e sia in qualche modo ripristinata una autentica democrazia costituzionale in America e una politica di ricostruzione possibile dell’atlantismo come alleanza con l’Europa occidentale, eccola, squadernata nel soffocamento duro della protesta di Hong Kong e nella fine del suo eccezionalismo, con alti costi per tutti e per la Cina stessa, e nello zarismo postsovietico dell’autocrate intelligente venuto dalla scuola del Kgb. E’ uno schema vecchio, certo, che risale come origine ai primordi della Guerra fredda, addirittura al discorso churchilliano di Fulton, e ha il sapore di un complicato e incerto ritorno al passato. E’ uno schema vecchio sul piano economico, sul terreno dello sviluppo tecnologico e dei nuovi giochi mondiali di mercato, e anche culturalmente è difficilmente immaginabile il ripristino in Europa, tra i franco-tedeschi e i britannici in uscita, di una solidale politica estera e militare e tecnologica comune al servizio dell’alleanza politica il cui ultimo segnacolo è una Nato prostrata, estenuata e in parte delegittimata. Chi abbia una soluzione nuova l’avanzi e la spieghi in dettaglio e all’ingrosso, ma è forte l’impressione che un’alternativa al vecchio mondo postbellico, se alla democrazia liberale si tiene, non ci sia.

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