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Riapertura a chiazze

Eugenio Cau

In Spagna si decide provincia per provincia. Metodo da copiare, ma occhio alle polemiche

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Milano. Ieri è cominciata per metà della Spagna la “fase 1” della riapertura post coronavirus. “Fase 1” perché gli spagnoli hanno cominciato dallo zero, anche se le caratteristiche della fase 1 iberica sono piuttosto simili a quelle della fase 2 italiana. “Metà della Spagna” perché la gestione della riapertura decisa dal governo di Madrid non sarà, come sta avvenendo in Italia, monolitica e con poche eccezioni. Mentre in Italia governo e regioni litigano tra loro su chi può esercitare l’autorità per riaprire attività e commerci, in Spagna la nuova fase è stata calibrata in maniera granulare, e viene decisa utilizzando come unità territoriale minima non le regioni, ma le province. Funziona così: fino a due giorni fa tutte le province spagnole si trovavano nella fase 0 (con l’eccezione di alcune isole molto risparmiate dal virus). Il passaggio alla fase 1 era previsto per ieri, ma non era automatico: soltanto le province che hanno superato alcuni criteri standard (contenimento del contagio, posti letto disponibili negli ospedali e nelle terapie intensive e così via) hanno avuto dal governo il via libera per passare alla fase 1. Le province che non hanno superato il test, invece, sono rimaste alla fase 0. La divisione è stata abbastanza netta: ieri metà degli spagnoli è potuta andare a fare colazione con un churro e cioccolata calda (nella fase 1 i bar possono riaprire, ma si può fare servizio al tavolo soltanto nelle zone all’aperto) mentre l’altra metà è rimasta costretta in casa. Tutte le aree del paese a più alta densità di popolazione, come le città di Madrid, Barcellona e Valencia, sono rimaste alla fase 0, che significa lockdown quasi completo.

 

La fase 1 della Spagna, dicevamo, è simile alla fase 2 dell’Italia, ma un po’ più liberale: gli spagnoli possono già andare a messa, anche se le chiese potranno riempirsi solo per un terzo, e lo stesso vale per i musei. I bar con servizio all’esterno sono riaperti, così come barbieri e parrucchieri. La distinzione in province è efficiente e potrebbe essere copiata: più è granulare la gestione del territorio e più è facile modulare aperture e nuovi lockdown. Il governo spagnolo ha previsto quattro fasi in tutto, dalla zero alla tre, che si attiveranno ogni due settimane: questo significa che il 25 di maggio un gruppo di province potrebbe passare dalla fase 1 alla fase 2 e riacquistare un altro po’ di libertà, mentre altre province sono destinate a rimanere indietro. Avere criteri standard per la riapertura aiuta la popolazione a capire cosa aspettarsi e cosa sta succedendo. Aiuta anche l’economia, perché le zone che per fortuna o per merito sono state meno toccate dal coronavirus possono aprire prima di quelle più colpite.

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Ovviamente non sono mancate le polemiche. Le decisioni del governo su chi può riaprire e chi no sono unilaterali e insindacabili, e molti governatori, specie quelli dei partiti dell’opposizione, si sono risentiti e hanno accusato il primo ministro Pedro Sánchez di fare favoritismi. In particolare i governatori dell’Andalusia e della regione di Madrid hanno protestato, hanno parlato di “danno reputazionale”, e un po’ tutta l’opposizione ha detto che è uno scandalo che la capitale rimanga in lockdown. Anche Ximo Puig, il governatore della regione di Valencia che fa parte dello stesso Partito socialista di Sánchez, si è opposto alla decisione del governo. Secondo i media spagnoli, alcuni governatori hanno notato con malizia che i Paesi Baschi sono passati alla fase 1 pur avendo curve di contagio non bellissime. Secondo alcuni retroscena (confortati da documenti visti dal giornale El Confidencial), Sánchez avrebbe acconsentito al loro passaggio alla fase 1 perché il suo governo nel Parlamento nazionale è dipendente dal Partito nazionalista basco, senza il cui voto Sánchez rischia di cadere.

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