Tensioni a Gaza per l'apertura dell'ambasciata americana a Gerusalemme (foto LaPresse)

Decine di palestinesi uccisi mentre l'America inaugura l'ambasciata a Gerusalemme

Redazione

Scontri al confine tra Israele e la Striscia di Gaza, oltre 50 morti e martedì la protesta continua. Le parole alla cerimonia

Milano. Oggi è il compleanno di Israele, settant’anni di vita, il giorno scelto dagli Stati Uniti per inaugurare il trasferimento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, come annunciato a inizio anno dal presidente Donald Trump. Mentre la delegazione americana celebrava l’amicizia con lo stato ebraico in una appassionata cerimonia, ai confini di Israele i palestinesi si riunivano per la “marcia del ritorno” che ricorda anche la “nakba”, la catastrofe, che si celebra martedì, il giorno successivo alla nascita dello stato ebraico: gli scontri con le forze israeliane sono stati brutali, in poche ore ci sono state decine di morti lungo la “fence” al confine con Gaza – se ne contano 41, all’ora in cui andiamo in stampa – centinaia di feriti, mentre pioveva gas lacrimogeno e si sentiva il continuo boato delle esplosioni. Le proteste palestinesi lungo la rete di divisione con lo stato ebraico sono cominciate il 30 marzo scorso, ogni venerdì, con scontri e morti – più di ottanta prima di lunedì – e lunedì si sono allargate in Cisgiordania, a nord di Betlemme e anche vicino alla nuova ambasciata americana a Gerusalemme. Ma è al confine con la Striscia che il conflitto è diventato più violento: il governo israeliano accusa Hamas, il gruppo al potere a Gaza, di strumentalizzare la protesta e i giornali di tutto il mondo hanno raccontato come il clima da festa di paese, con tendoni e baracchini, che c’era all’esordio delle manifestazioni si sia trasformato in uno stato di guerra.

  

L’inaugurazione dell’ambasciata americana a Gerusalemme – per ora si trasferisce soltanto l’ambasciatore, David Friedman, con quattro persone del suo staff, per gli altri ci vorrà tempo – sancisce l’alleanza tra gli Stati Uniti e Israele e l’allineamento di Trump con il premier israeliano, Benjamin Netanyahu. Mentre ringraziava e raccontava, con aneddoti personali, il legame con lo stato ebraico, Jared Kushner, genero di Trump inviato assieme a Ivanka come rappresentante del presidente, ha ricordato che l’apertura dell’ambasciata a Gerusalemme arriva a suggello di un’altra grande dimostrazione di alleanza: il ritiro dell’America dal “pericoloso” accordo sul nucleare iraniano (molti applausi dal pubblico). Entrambe le decisioni trumpiane sono state molto criticate soprattutto dai partner europei che non hanno seguito l’America né nel riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello stato ebraico (questo è il simbolo forte del trasloco dei diplomatici) né nel ritiro dal deal con Teheran. Soltanto quattro delegazioni europee lunedì hanno partecipato all’inaugurazione dell’ambasciata – Austria, Repubblica ceca, Ungheria, Romania – mentre il resto dell’Europa considera molto avventata la scelta strategica dell’Amministrazione Trump. Sull’accordo iraniano i rischi di collisione tra Europa e America sono grandi: il consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton ha detto che gli Stati Uniti potrebbero imporre sanzioni alle aziende europee che continuano a fare affari con l’Iran. Oggi a Bruxelles è previsto un incontro tra i tre paesi europei che hanno negoziato l’accordo nel 2015 – Francia, Germania e Regno Unito – e il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif: l’obiettivo è mantenere in piedi il deal anche senza la presenza americana, ma Teheran chiede “garanzie” che difficilmente gli europei riusciranno a dare se si ritrovano a dover fare i conti con le misure sanzionatorie di Washington.

   

Sulla questione palestinese, di fronte alla violenza delle ultime ore, gli europei accusano l’America di aver destabilizzato con il loro trasloco simbolico una regione già nel caos e di aver messo fine al processo di pace israelo-palestinese. Trump allora disse che il processo era già collassato, e le manifestazioni e proteste della piazza araba di fatto non ci furono. Ora che le vittime a Gaza hanno superato il picco del 2014, è necessario vedere che cosa accadrà anche negli altri paesi, e se Trump darà seguito anche all’altra promessa fatta in concomitanza del trasferimento: l’impegno, ribadito lunedì, a costruire “un piano onnicomprensivo di pace”.

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