La Russia si aggancia al Brent per arginare l'impatto delle sanzioni

Luciano Capone

Mosca cambia il metodo di calcolo delle tasse sul petrolio per arginare il crollo delle entrate: abbandona le quotazioni dell'Urals e costringe le compagnie petrolifere russe a ridurre gli sconti o subire una maggiore pressione fiscale

Le sanzioni occidentali, in particolare l’embargo europeo e il price cap del G7 sul petrolio russo, avevano due obiettivi: ridurre le entrate petrolifere della Russia e mantenere sul mercato globale un’offerta adeguata di energia. I dati mostrano che entrambi i risultati sono stati raggiunti: il prezzo del petrolio non è aumentato, rimanendo a un livello accettabile di 85 dollari al barile; e il flusso di soldi che riempiva le casse del Cremlino ha subìto una brusca strozzatura, visto che le quotazioni del petrolio degli Urali sono scese sotto i 50 dollari. Così, a gennaio, Mosca ha visto crollare i ricavi da oil & gas del 46% e il deficit salire a livelli record dal 1998.

 

Vladimir Putin, che aveva definito “stupido” il price cap, ha cercato di tamponare gli effetti delle sanzioni, ma le soluzioni proposte si sono dimostrate velleitarie. A dicembre aveva firmato un decreto per vietare, a partire da febbraio, l’export di greggio russo ai paesi che adottano il price cap e per tutti i contratti con un riferimento al price cap. Il decreto è stato inapplicato, perché di fatto voleva dire per la Russia rinunciare alle flotte e ai servizi assicurativi occidentali anche nelle transazioni sotto i 60 dollari al barile consentite dal tetto al prezzo. Nei giorni scorsi il vice primo ministro Alexander Novak, responsabile dell’Energia, in risposta al price cap ha annunciato il taglio della produzione di 500 mila barili al giorno, circa il 5% del totale, con l’obiettivo di far salire i prezzi. In realtà, più che una ritorsione, si è trattato di una presa d’atto degli effetti delle sanzioni occidentali che hanno ridotto la capacità di export russa. Tanto è vero che il prezzo del petrolio praticamente non si è mosso.

 

Alla fine, Mosca ha trovato una misura che potrebbe avere un qualche impatto. Il ministero delle Finanze ha cambiato la formula per determinare il prezzo del petrolio sulla cui base le compagnie petrolifere pagano le imposte. Così la Russia abbandona le quotazioni dell’Urals e si aggancia al Brent scontato di 34 dollari, che è più o meno l’attuale differenza tra Urals e Brent, ma poi lo sconto si riduce progressivamente di 3 dollari al mese fino all’obiettivo di 25 dollari a luglio. In questo modo, il governo russo cerca di chiudere il differenziale di prezzo aperto dalle sanzioni per tappare il buco di bilancio. In pratica, le compagnie petrolifere non pagheranno più le tasse sulle effettive quotazioni del petrolio russo ma sul prezzo internazionale del Brent meno uno sconto stabilito dal governo russo.

 

Un obiettivo della misura è quello di disincentivare qualsiasi forma di elusione da parte delle compagnie petrolifere russe che possono giocare sui costi di trasporto e assicurazione gonfiati per pagare meno tasse. Con la nuova formula, Mosca allinea intelligentemente gli incentivi delle società petrolifere all’interesse statale di massimizzare le entrate fiscali: il governo fissa lo sconto massimo e quindi le tasse dovute, così le compagnie russe sono costrette o a ridurre lo sconto che praticano a Cina e India o a subire una maggiore pressione fiscale.

 

È un tentativo drastico, da parte del Cremlino, di riequilibrare le entrate visto che ha approvato un budget con un prezzo medio del petrolio degli Urali a 70 dollari al barile ma, dopo le sanzioni, si è ritrovato con quotazioni crollate sotto i 50 dollari. Si vedrà se la misura avrà solo un effetto fiscale interno o anche un impatto sul prezzo effettivo del greggio russo. E’ in ogni caso la dimostrazione che le sanzioni funzionano, ma vanno costantemente riviste e ricalibrate, perché la Russia cerca e in una certa misura riesce ad adattarsi e a trovare vie di fuga. Più che un braccio di ferro è una partita a scacchi.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali