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Recovery, cioè produttività

Ignazio Visco

Il lavoro, lo studio, l’innovazione, la ricerca, il coraggio di osare e di diventare grandi combattendo la retorica del piccolo è bello. La rinascita dell’Italia secondo Visco

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Pubblichiamo un estratto dell’intervento intitolato “Economia, innovazione, conoscenza”, pronunciato mercoledì scorso dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 2020-2021 del Gran Sasso Science Institute. della Banca d’Italia

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Pubblichiamo un estratto dell’intervento intitolato “Economia, innovazione, conoscenza”, pronunciato mercoledì scorso dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 2020-2021 del Gran Sasso Science Institute. della Banca d’Italia

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Il contenimento dell’epidemia ha richiesto – e in molti paesi, tra cui il nostro, ancora richiede – l’introduzione di forti limitazioni alle libertà personali di movimento e di interazione sociale, prolungati periodi di sospensione della didattica in presenza nelle scuole e nelle università, la chiusura temporanea o restrizioni di rilievo per molte attività produttive. Di fronte a questo scenario, la reazione di governi, banche centrali e autorità di vigilanza è stata rapida ed eccezionale. Ampi trasferimenti pubblici e riduzioni di imposte sono stati decisi in pressoché tutte le economie, mentre le banche centrali e le autorità di vigilanza hanno introdotto una vasta gamma di misure per contrastare le tensioni sui mercati finanziari e sostenere l’erogazione dei prestiti alle famiglie e alle imprese.

 

L’insieme di tali provvedimenti ha consentito di attenuare l’impatto della crisi, scongiurando il rischio di una grave e generalizzata restrizione del credito. Il recupero dell’attività produttiva registrato a livello globale e in Italia durante i mesi estivi, quando la diffusione dell’epidemia aveva segnato un primo rallentamento, non sarebbe stato possibile senza l’ampio sostegno fornito dalle politiche economiche. Gli effetti economici della crisi sono stati in ogni caso dirompenti. Le più recenti previsioni dell’Ocse indicano che il prodotto mondiale si contrarrà di oltre il 4 per cento quest’anno, la recessione più profonda dalla fine della Seconda guerra mondiale. In Italia, secondo le proiezioni da noi diffuse la scorsa settimana, la caduta del prodotto interno lordo (pil) potrebbe essere di circa 9 punti percentuali.

 

Nonostante il recupero dell’industria, più intenso nei mesi estivi, il quadro resta debole nei servizi, e specialmente nei comparti più esposti agli effetti della pandemia, quali quelli del commercio al dettaglio, dei trasporti, degli alloggi e della ristorazione. Sulla domanda pesa, inoltre, l’aumento della propensione al risparmio delle famiglie a fini precauzionali. Le proiezioni per i prossimi anni, seppur circondate da un’incertezza senza precedenti, suggeriscono che nel nostro paese il pil non recupererà il livello registrato alla vigilia dello scoppio della pandemia prima della seconda metà del 2023. Ancor più tempo sarà necessario per riuscire a tornare ai valori del 2007, precedenti la doppia recessione causata dalla crisi finanziaria globale e da quella dei debiti sovrani dell’area dell’euro. Si tratterà, quindi, di un sostanziale ristagno dell’attività economica nel complesso di circa un ventennio, dopo un lungo periodo, peraltro, di crescita in media già debole.

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Per comprendere le ragioni di questo deludente andamento dell’economia italiana, è necessario riflettere sulle determinanti della produttività delle imprese e sulle conseguenze dei grandi cambiamenti avvenuti a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, in particolare l’accelerazione del progresso tecnologico, con lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni, e il processo di integrazione internazionale dei mercati. A tali cambiamenti l’Italia non ha saputo far fronte, accumulando gravi ritardi, in particolare nell’ambito della ricerca e dell’innovazione, della digitalizzazione e in ultima istanza nella quantità e nella qualità del capitale umano.

 

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Dagli anni Novanta il pil pro capite mondiale ha nettamente accelerato in seguito al progresso tecnologico e alla globalizzazione. Tali fenomeni hanno favorito non solo i movimenti tra paesi di persone, beni, servizi e capitali finanziari, ma anche lo scambio e la diffusione di idee, informazioni, metodi di produzione. I loro effetti sono stati visibili tanto nell’economia, quanto nella società e nella vita di ogni giorno. Tra il 1990 e il 2019, in particolare, il prodotto mondiale è aumentato di quasi tre volte; il commercio internazionale è cresciuto a un ritmo pressoché doppio, rendendo disponibili a famiglie e imprese beni e servizi da tutto il mondo; la mortalità infantile si è più che dimezzata, passando dal 64 a meno del 30 per mille (da 11 a 4 nei paesi avanzati); la vita media alla nascita è salita di 7 anni, a oltre 72 anni (oltre 80 nei paesi ad alto reddito, 83 in Italia); oltre un miliardo di persone sono uscite dalla povertà estrema (definita da un reddito o una spesa per consumi minore di 1,9 dollari al giorno ai prezzi del 2011), pur in presenza di un aumento della popolazione globale di oltre due miliardi, concentrato nei paesi meno sviluppati.

 

Mentre nei paesi avanzati la produttività ha mostrato una tendenza al rallentamento e il pil è poco meno che raddoppiato, nelle economie emergenti e in via di sviluppo esso è aumentato di oltre quattro volte (di oltre otto in quelle asiatiche). La crescita assai più rapida di queste ultime ha contribuito a ridurre i divari di reddito a livello globale ma, in parallelo, è cambiata la distribuzione dei redditi all’interno dei singoli paesi, sia in quelli avanzati sia in quelli emergenti, nella direzione di una maggiore disuguaglianza. Come è stato efficacemente osservato, la disuguaglianza globale si è così “internalizzata”: a una minore distanza di reddito tra i due gruppi di paesi si è in parte sostituito un allargamento dei divari tra i ricchi e i poveri di entrambi i gruppi.

 

Ne sono derivate una riduzione della capacità degli Stati di garantire pari opportunità a tutti i cittadini e una diminuzione del “grado di mobilità sociale inter-generazionale”, ossia della possibilità per i figli di passare a uno status sociale diverso da quello dei loro genitori. Le conseguenze, particolarmente preoccupanti, riguardano non solo la dimensione del reddito, ma anche quelle dell’istruzione, della qualità del lavoro e della salute. A fronte di questi cambiamenti, la risposta delle imprese italiane è stata lenta: si è puntato soprattutto a riforme che consentissero di ridurre il costo del lavoro, mentre gli investimenti, non solo privati, sono stati insufficienti. La nostra struttura produttiva è rimasta sbilanciata verso imprese molto piccole, che dispongono di pochi mezzi, sia finanziari sia in termini di competenze manageriali, per effettuare rilevanti investimenti in ricerca e sviluppo e innovare, e verso i comparti tradizionali, dove la concorrenza dai paesi emergenti e in via di sviluppo è stata più intensa.

 

Se le imprese italiane avessero la stessa struttura dimensionale di quelle tedesche, la produttività media del lavoro nell’industria e nei servizi di mercato sarebbe superiore di oltre il 20 per cento, superando anche il livello della Germania. Le differenze nella composizione settoriale del valore aggiunto nei due paesi svolgono un ruolo meno importante, anche se non del tutto trascurabile, nello spiegare la bassa produttività: se l’Italia avesse la medesima composizione industriale della Germania, la sua produttività del lavoro sarebbe maggiore, a parità di altre condizioni, del 3 per cento. Per questo motivo, è essenziale attuare riforme volte a creare condizioni più favorevoli alla crescita delle imprese, ridurre gli oneri amministrativi e burocratici che ne ostacolano gli investimenti, aumentare la qualità e l’efficienza dei servizi pubblici.

 

 

 

 

La capacità di adattamento della pubblica amministrazione alle nuove esigenze del mondo produttivo è stata invece, in questi anni, particolarmente limitata. Ai ritardi nell’ammodernamento delle infrastrutture, materiali e immateriali, si è affiancato l’insufficiente utilizzo delle potenzialità delle nuove tecnologie nei processi amministrativi con oneri cospicui a carico delle imprese e dell’intera società. Secondo le indagini della Banca Mondiale, in Italia l’efficacia dell’azione della pubblica amministrazione si colloca su valori ben al di sotto di quella stimata per paesi quali Francia e Germania, e poco al di sopra della media per il complesso dei paesi considerati, che include numerose economie emergenti e in via di sviluppo.

 

Nel 2018 la spesa pubblica e privata per ricerca e sviluppo era pari, in Italia, all’1,4 per cento del pil, un punto percentuale in meno della media dei paesi Ocse e inferiore alla metà del livello di economie avanzate quali gli Stati Uniti e la Germania. L’incremento di 0,4 punti percentuali registrato dall’inizio del nuovo millennio non è stato sufficiente a ridurre questo divario. Nello stesso periodo, alcuni grandi paesi manifatturieri come la Germania, la Corea del Sud e il Giappone, che già partivano da livelli più elevati, hanno mostrato incrementi simili o nettamente superiori. In Cina l’incidenza della spesa per ricerca e sviluppo è salita dallo 0,9 al 2,2 per cento del prodotto, un aumento ancora più notevole se si considera l’impressionante crescita del pil cinese, a dimostrazione del costante impegno intrapreso da quel paese per migliorare le sue capacità nei campi della scienza e della tecnologia.

 

Alla differenza con le altre economie avanzate contribuisce principalmente il basso livello degli investimenti in ricerca da parte del settore privato, pari allo 0,9 per cento del pil, circa la metà della media Ocse. E’ un risultato che, in parte, risente della ridotta presenza nel nostro tessuto produttivo di imprese in grado, per dimensioni e capacità manageriali, di dotarsi delle competenze e risorse necessarie per sostenere i costi fissi dell’attività di ricerca. Il complessivo “investimento in conoscenza” da parte delle imprese è stato efficacemente sintetizzato dall’Ocse in un unico indicatore denominato “spesa in capitale basato sulla conoscenza”, che comprende, oltre alle spese per ricerca e sviluppo, anche quelle per software, diritti d’autore, progettazione, ricerche di marketing, formazione specifica per le imprese e know how organizzativo. Tale indicatore colloca l’Italia nella fascia bassa dei paesi avanzati.

 

Il ritardo del settore privato è poi ampliato da un impegno di risorse pubbliche insufficiente, inferiore allo 0,5 per cento del pil contro una media Ocse dello 0,7 e meno della metà del livello della Germania. Il basso livello della spesa si riflette nel minor numero di ricercatori presenti in Italia rispetto ai principali paesi avanzati – appena 5,5 ogni mille occupati, contro i quasi 9 nella media dei paesi dell’Ocse. Il numero di brevetti, normalizzato in base alle dimensioni del pil, rispecchia tale carenza, attestandosi a meno della metà rispetto alla media degli stessi paesi.

 

 

 

 

Eppure, più di quanto a volte riconosciuto nel dibattito pubblico, l’Italia può vantare un sistema della ricerca di qualità in complesso elevata, comparabile a quella dei maggiori paesi europei. La percentuale di pubblicazioni di autori residenti in Italia che si collocano nel primo decile di quelli più citati in tutti i settori della conoscenza è superiore alla corrispondente percentuale media per l’Unione europea, più elevata anche di quella di autori residenti in paesi come Francia e Germania. Nel solo ambito delle scienze, l’incidenza delle citazioni (ponderata per il settore disciplinare) delle pubblicazioni di autori che lavorano in Italia è più alta non solo di quella degli autori provenienti da Francia e Germania, ma anche di quella degli autori che risiedono negli Stati Uniti. Tali risultati sono ancora più rilevanti se si considera l’esiguo impiego di risorse nel nostro paese. Il rapporto tra pubblicazioni e spesa in ricerca e sviluppo è infatti circa il doppio rispetto alla Francia e alla Germania, segnalando un livello di produttività tra i più elevati al mondo.

 

Se valorizzati con investimenti adeguati, questi risultati permetterebbero all’Italia di partecipare al sistema della ricerca europea su un piano almeno paritario e di attingere alle ingenti risorse che l’Europa destina ai progetti di ricerca in misura ben più elevata di quanto oggi sia in grado di fare. Ciò potrebbe costituire una leva fondamentale per lo sviluppo economico. Un maggiore impegno finanziario, sia pubblico sia privato, andrebbe corredato con una più chiara strategia di lungo termine. (…)

 

I progressi compiuti negli ultimi anni hanno riguardato soprattutto la componente dell’indice che misura il grado di connettività, riflesso dell’intenso sviluppo della telefonia mobile, la cui diffusione è in Italia in linea con la media europea (con buone prospettive anche nella preparazione all’introduzione delle nuove tecnologie mobili di quinta generazione, 5G). Per quanto riguarda la dimensione quantitativa, i dati mostrano che gli italiani non frequentano la scuola per un tempo sufficiente. La graduatoria con riferimento alla quota di popolazione di età compresa tra i 25 e i 34 anni in possesso di un titolo di studio di livello terziario vede l’Italia al penultimo posto fra i paesi dell’Ocse: 28 per cento a fronte di una media del 45, con valori che superano il 60 per cento in Canada, Giappone e Corea del Sud (diapositiva 12). Per contro, l’Italia è uno dei paesi in cui è più alta la percentuale di giovani tra i 15 e 29 anni che non studiano, non lavorano e non seguono percorsi di formazione (i cosiddetti Neet, not in education, employment or training); si tratta di oltre 2 milioni di giovani: il 22 per cento della popolazione in questa fascia di età (il 33 per cento nel Mezzogiorno).

 

Questo divario si traduce in lacune analoghe negli italiani adulti. Il programma di valutazione internazionale delle competenze degli adulti (Piaac), realizzato dall’Ocse tra il 2013 e il 2016, indica che in ciascun gruppo di età gli adulti italiani presentano costantemente risultati peggiori rispetto alla media. Nel nostro paese risulta, in particolare, una diffusa mancanza di quelle competenze – di lettura e di comprensione, di utilizzo della logica e di analisi – che rispondono alle esigenze della vita moderna e del lavoro. (…)

 

 

 

 

In un’economia globale dove i cambiamenti tecnologici hanno ridisegnato i vantaggi comparati delle economie nazionali, il nostro paese ha sofferto le debolezze di un modello di sviluppo caratterizzato da una bassa capacità innovativa. Sebbene l’Italia resti tra i paesi a più elevato livello di reddito e sia ancora il settimo produttore manifatturiero mondiale, gli indicatori documentano, come abbiamo visto, ampi ritardi che pesano sulle potenzialità di crescita, di occupazione e di reddito. (…)

 

La conoscenza va intesa in senso ampio, rimuovendo steccati tra i saperi che limitano la crescita culturale. Alcuni anni fa ricordavo l’importanza di superare una volta per tutte la barriera che ha a lungo separato la cosiddetta cultura “umanistica”, da conservare, da quella “tecnico-scientifica” su cui investire. Oggi ritengo che questo sia essenziale. Come ha sostenuto Edmund Phelps, premio Nobel per l’economia nel 2006, negli ultimi decenni, e non solo in Italia, si è andato affievolendo il dinamismo di fondo, diffuso e crescente, che negli ultimi due secoli era derivato dal “fiorire” di valori quali il bisogno di creare, la propensione a esplorare, il desiderio di affrontare nuove sfide. Phelps evocava quindi la necessità di ristabilire l’apertura all’innovazione e coltivare risorse quali “creatività, curiosità e vitalità”, attraverso un programma di forte recupero di riferimenti classici, osservando con rincrescimento il regresso del rilievo riservato agli studi umanistici nelle università americane. Forse negli ultimi anni qualcosa sta mutando. Ma bisogna fare molto di più.

 

In questa sede non c’è bisogno di ricordare l’accostamento tra fisica e poesia fatto nel bel testo di Leon Lederman e Christopher Hill, Fisica quantistica per poeti. Mi piace però richiamare le parole di Carlo Rovelli che, in Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza, scrive: “Poesia e scienza sono entrambe creazioni dello spirito che creano nuovi modi di pensare il mondo, per farcelo meglio capire. La grande scienza e la grande poesia sono entrambe visionarie, e talvolta possono arrivare alle stesse intuizioni. La cultura odierna che tiene scienza e poesia così separate è sciocca, secondo me, perché si rende miope alla complessità e alla bellezza del mondo, rivelate da entrambe”. La riscoperta dello studio, scientifico e umanistico, è la vera radice del progresso umano e sociale, la condizione per lo sviluppo economico. Non può che essere questa la base sulla quale costruire il nostro futuro.

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