PUBBLICITÁ

Le balle del virus

Stefano Cingolani

Un futuro senza certezze. Scenario delle speranze e delle paure. E anche di un’economia basata su numeri spesso improbabili

PUBBLICITÁ

Le conseguenze economiche dell’epidemia di Covid-19 saranno pesanti, ma quanto e come resta ancora oscuro. La crescita mondiale rallenterà, però le previsioni finora non sono affatto catastrofiche. Perché? E’ davvero possibile contrastare il contagio e lo choc da virus? Banche centrali e governo saranno in grado di reagire? Che cos’è il piano Marshall che tutti invocano? Bisogna “ripensare la globalizzazione” e riportare a casa le proprie aziende? Quante domande senza risposta. Di fronte a quel che non sappiamo bisogna assumere l’atteggiamento umile e intelligente di Jurgen Klopp il tecnico tedesco del Liverpool: “Non tollero che su un argomento così serio l’opinione di un allenatore sia ritenuta importante”, ha replicato ai giornalisti, “chi è realmente informato può dirci cosa fare e non fare e se le cose andranno bene o meno. Non un allenatore di calcio”. Ma chi è realmente informato? E se proprio gli esperti sapessero solo di non sapere? Quanto a noi, possiamo fare solo i cacadubbi. Cominciamo dalle previsioni e da quelle dell’Ocse, l’organizzazione dei paesi industrializzati, che se ne intendono. 

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Le conseguenze economiche dell’epidemia di Covid-19 saranno pesanti, ma quanto e come resta ancora oscuro. La crescita mondiale rallenterà, però le previsioni finora non sono affatto catastrofiche. Perché? E’ davvero possibile contrastare il contagio e lo choc da virus? Banche centrali e governo saranno in grado di reagire? Che cos’è il piano Marshall che tutti invocano? Bisogna “ripensare la globalizzazione” e riportare a casa le proprie aziende? Quante domande senza risposta. Di fronte a quel che non sappiamo bisogna assumere l’atteggiamento umile e intelligente di Jurgen Klopp il tecnico tedesco del Liverpool: “Non tollero che su un argomento così serio l’opinione di un allenatore sia ritenuta importante”, ha replicato ai giornalisti, “chi è realmente informato può dirci cosa fare e non fare e se le cose andranno bene o meno. Non un allenatore di calcio”. Ma chi è realmente informato? E se proprio gli esperti sapessero solo di non sapere? Quanto a noi, possiamo fare solo i cacadubbi. Cominciamo dalle previsioni e da quelle dell’Ocse, l’organizzazione dei paesi industrializzati, che se ne intendono. 

PUBBLICITÁ

Il prodotto lordo mondiale, secondo gli economisti dell’Ocse, scenderà quest’anno dal 2,9 al 2,4 per cento. Qualcosa non torna


 

LA CRESCITA. Il prodotto lordo mondiale, secondo gli economisti dell’Ocse, scenderà quest’anno dal 2,9 al 2,4 per cento. Dunque un taglio di mezzo punto. Se le cose peggioreranno si arriverà a un più 1,5 per cento. Male, ma niente a paragone con lo choc del 2008. Eppure l’Ocse parla di “un rischio senza precedenti”. Qualcosa non torna. Il Fondo monetario era stato più ottimista il 22 febbraio: la crescita globale sarebbe rallentata dello 0,1 per cento e quella cinese dello 0,4 per cento, insomma un’inezia. Le previsioni si basavano, ha annunciato il direttore generale Kristalina Georgieva, sulla ipotesi che nel secondo trimestre la produzione cinese possa riprendere e tornare alla normalità. Nel resto dell’Asia, d’altronde, la caduta non è altrettanto pesante finora: l’indice dell’attività manifatturiera è sceso di due-tre punti in Vietnam, Malesia, Myanmar, a Taiwan, è stabile in Giappone e va giù di poco persino in Corea del sud. Solo nel Celeste Impero crolla di oltre dieci punti. Per Standard & Poor’s l’Italia soffrirà di più, ça va sans dire. E l’agenzia di rating prevede un anno negativo con il pil che scende dello 0,3 per cento. Pessimo, ma l’Italia viaggiava già verso quota zero. E tuttavia queste previsioni non convincono, entrano in conflitto con la realtà che ci viene mostrata ogni giorno in televisione e raccontata dai media. Qualcuno si sbaglia, forse ancora una volta gli economisti che dalla grande crisi in poi non ne azzeccano una? O magari i giornalisti, altra categoria messa alla gogna per la loro vocazione sensazionalista? O i politici innamorati dello stato di eccezione, situazione ideale secondo Carl Schmitt nella quale esercitare la sovranità?

LE BORSE. Finora le piazze finanziarie sono state isteriche anche se hanno evitato il panico. In questi dieci anni sono cresciute in modo spropositato. Già nel 2017 la loro capitalizzazione ha superato il prodotto lordo mondiale: 77 mila 690 miliardi di dollari contro 76 mila 677 e da allora hanno continuato a correre. Il 2019 ha battuto il record, le borse hanno capitalizzato 17 mila miliardi di dollari in un anno, superando gli 85 mila miliardi. L’andamento dell’indice Standard and Poor’s composto dalle prime 500 compagnie americane mostra che mille dollari investiti nell’ottobre 2007 poco prima che arrivasse il tracollo, sono praticamente raddoppiati. Insomma, era giunto il momento di aggiustare il tiro, raffreddare la temperatura, sgonfiare il pallone aerostatico prima che scoppiasse. Certo nessuno avrebbe voluto farlo per il Covid-19, ma il virus s’è rivelato una occasione. Così è cominciato il gioco a rimpiattino con le Banche centrali. Io vendo, ridimensiono, grido al lupo, minaccio il crac e tu stampi moneta, io compro, mi riprendo e preparo il prossimo round. Non c’è la Spectre né il Gosplan finanziario mondiale, sia chiaro, ma è il riflesso condizionato di chi maneggia i titoli. La Federal Reserve ha tagliato i tassi, ma a Trump non è bastato. Il presidente americano ha annunciato uno stimolo da 8 miliardi di dollari, non è gran che, in percentuale al prodotto interno lordo e alla popolazione, è molto meno di quei 3,5 miliardi di euro stanziati dal governo italiano, in ogni caso, mostra la volontà di intervenire. La Bce ha promesso di agire anche se i suoi margini di manovra sono ridotti visto che i tassi stanno a zero, probabilmente finanzierà ancora le banche e riprenderà ad acquistare titoli. Vedremo. La Banca centrale cinese stampa da tempo e quella giapponese non ha mai smesso di farlo. Così le Borse sono tornate a salire. L’altalena continuerà, naturalmente, solo che a differenza dal 2008 oggi le Banche centrali sembrano a corto di munizioni. Come mai? Per capirlo bisogna guardare allo stato di salute del sistema finanziario. 


La Cina sarà costretta a cambiare, accelerando una tendenza già in corso come l’alleggerimento delle megalopoli


I DEBITI. Banche centrali più governi: è chiaro che la lotta all’epidemia porterà più debito. L’Institute of International Finance, l’associazione globale delle istituzioni finanziarie che include 420 delle maggiori banche, assicurazioni e fondi di investimento in 70 paesi, ha calcolato che l’ammontare dei debiti pubblici e privati ha raggiunto i 253 mila miliardi di dollari pari al 322 per cento del prodotto lordo mondiale. Il sistema finanziario nel suo complesso è schiacciato e reso fragile da questo fardello, se l’epidemia continua a diffondersi, c’è il rischio che l’intero meccanismo si spezzi. A quel punto l’intero circuito del credito può bloccarsi, creando un nuovo credit crunch, nonostante il costo del denaro sia ai livelli storicamente più bassi. Anzi, proprio i tassi di interesse vicino a zero schiacciano gli utili e mettono a rischio i bilanci delle banche e delle compagnie di assicurazioni che non sono in grado di garantire i rendimenti promessi alla clientela. Per evitare il grande ingorgo si chiede alle Banche centrali di fornire nuova moneta, ma il rischio è di creare un circolo vizioso, facendo scendere ancora più in basso gli interessi. Secondo l’Istituto, l’elevato indebitamento è il prezzo pagato al salvataggio del sistema economico attraverso la leva monetaria, dunque aprire ancora i rubinetti può favorire lo scoppio di una crisi. Il coronavirus è una miccia, e la rottura della catena del valore che arriva fino in Cina può dar fuoco alle polveri, così come avvenne nel 2007-2008 con i mutui subprime, ma oggi come allora la santabarbara è stata riempita dalle politiche monetarie e fiscali. Lo studio mette sotto tiro anche il quantitative easing, cioè l’acquisto di titoli pubblici e privati, conseguenza di una politica monetaria asimmetrica: le Banche centrali, cioè, hanno sostenuto i mercati quando sono caduti, ma non sono state in grado – o non hanno voluto per scelta politica – di sgonfiarli quando la bolla si è espansa di nuovo. William White, economista della Banca dei regolamenti internazionali, intervistato dal Financial Times sostiene che le politiche non convenzionali hanno preparato la scena per il prossimo ciclo di espansione e crisi.

PUBBLICITÁ

LE IMPRESE. Lo stock di titoli delle aziende di tutti i settori ha raggiunto i 13 mila 500 miliardi di dollari il doppio rispetto al dicembre 2008, secondo i calcoli dell’Ocse. La maggior parte dell’indebitamento grava non sul settore tecnologico, ma sulle imprese tradizionali. Le quattro sorelle digitali (Google, Apple, Microsoft e Facebook), infatti, detenevano da sole una liquidità di cassa pari a 328 miliardi di dollari. Secondo la teoria economica più diffusa, finanziarsi a debito per una impresa come per un governo non è un problema quando i rendimenti superano gli interessi (nel caso dell’economia di uno stato, il punto di riferimento è il tasso di crescita del pil). Ma è proprio questo il problema: i profitti delle industrie tradizionali sono inferiori, quindi proprio loro avranno maggiori difficoltà a rimborsare i prestiti. Ciò vale per gli stati già molto indebitati la cui crescita modesta stenta a tenere il passo con il servizio del debito (è il caso italiano). Il paradosso è che i colossi high tech che potrebbero indebitarsi senza problemi non ne hanno bisogno. Negli Stati Uniti, in Francia, in Germania e in Giappone i debiti delle imprese sono cresciuti più del prodotto lordo. Non è così in Italia, ma anche perché nel frattempo il debito pubblico ha continuato la sua ascesa. La spinta dei partiti populisti affinché i governi aumentino i debiti pubblici e le Banche centrali stampino più moneta può far esplodere la bomba. Anche perché questa pressione fa breccia nell’opinione pubblica e nessuno potrà resisterle. L’epidemia così diventa il grande tappeto sotto il quale nascondere la polvere di un decennio vissuto pericolosamente. Choc da coronavirus o choc da debito? La verità non potrà essere nascosta a lungo. 


La Banca centrale cinese stampa moneta da tempo, quella giapponese non ha mai smesso di farlo. Così le Borse sono tornate a salire


 

PIANO MARSHALL. Tutti lo chiedono, tutti lo vogliono, è il factotum di ogni crisi, anche di quella provocata dal coronavirus. Lo reclamano gli industriali, il presidente della Confindustria Vincenzo Boccia parla di tremila miliardi di euro, circa il doppio del pil italiano di un anno. Su scala europea, ovviamente, ma è davvero una bella sommetta. Lo ha rilanciato Silvio Berlusconi, seguito anche dalla Lega, insomma sarebbe la soluzione dei nostri mali. Ma di che si tratta? Nessuno lo ha spiegato con chiarezza, dunque si tratta di una gran quantità di denaro prestato a tassi minimi (ma su questo non c’è problema siamo a tasso zero) per un tempo se non proprio indefinito certo molto lungo, insomma da restituire con molta calma e garantito da un soggetto pubblico: lo stato, la Bce, l’Unione europea. A chi deve andare e per fare cosa? Non è chiaro. Gli imprenditori lo vogliono per coprire le perdite, al governo potrebbe servire per non sforare il deficit anche se aumenterebbe il debito, medici e scienziati per la ricerca e rafforzare la sanità pubblica e privata, i costruttori per sbloccare i cantieri (doveva essere fatto già da tempo); insomma ciascuno ha qualcosa di pur legittimo da chiedere. Tuttavia il megaprogetto resta una entità misteriosa, un ectoplasma che si materializza ogni volta che serve a coprire quel che non si fa, magari di meno roboante, ma altrettanto efficace nel breve periodo.

LA GLOBALIZZAZIONE. Bisogna ripensarla, si tambureggia. In realtà è stata pensata e ripensata fin dall’inizio, da destra, da sinistra e dal centro. Si sono distinti tra i tanti no global due fratelli di buona famiglia, ricchissimi finanzieri franco-inglesi rivali dei Rothschild. Il maggiore James, thatcheriano della prima ora, deputato europeo per un collegio francese, fondatore del partito euroscettico subito dopo il trattato di Maastricht del 1992, che voleva un referendum per l’uscita dal “superstato che distrugge lo stato-nazione”. Il minore Edward uno dei guru del localismo, ecologista, vicino a Serge Latouche – quello della decrescita (felice non è un aggettivo appropriato oggi come oggi). Nulla di nuovo, dunque, sotto questo epidemico sole? Si sta diffondendo la critica alla catena globale del valore e viene lanciata la parola d’ordine del re-shoring, cioè il rimpatrio delle produzioni delocalizzate. In realtà è un fenomeno già in corso in molti paesi industrializzati a cominciare dagli Stati Uniti e dalla Germania. Anche in Italia ci sono molti esempi. Ecco qualche nome: GTA moda (Veneto, pantaloni uomo) che produce il 50 per cento in Italia e 50 per cento in Romania; Falconeri (cashmere, fa parte del gruppo Calzedonia) dalla Romania, Artsana da India e Cina, Benetton dall’est Europa, Diadora dalla Cina, Wayel (bici elettriche) dalla Cina, Fastweb porta i call center dalla Romania alla Puglia, Vimec (montascale) dalla Cina. Tutto questo riguarda scelte imprenditoriali basate sulle proprie priorità produttive, per esempio privilegiare i vantaggi del Made in Italy rispetto ai risparmi sui costi. Ma attenzione, l’Italia si è difesa negli ultimi dieci anni alzando il valore aggiunto dell’export, riportare a casa le produzioni di minor qualità farebbe scendere il livello dei beni prodotti ed esportati. L’imprenditore Alberto Baban e gli economisti-finanzieri Orlando Barucci e Fabrizio Pagani sul Corriere della Sera hanno proposto un re-shoring finanziato dallo stato e sostenuto, magari, dalla Ue. Ma che ne pensano i contribuenti e i consumatori? Alla fine saranno loro a pagare con le tasse e con i prezzi. 


Un Piano Marshall che resta però un’entità misteriosa, un ectoplasma che si materializza ogni volta che serve a coprire quel che non si fa


LA CINA. Perderà la sua centralità? L’impatto dell’epidemia può avere senza dubbio importanti conseguenze geopolitiche che alla fine potranno rivelarsi anche positive. La Cina sarà costretta a cambiare, accelerando una tendenza già in corso come l’alleggerimento delle megalopoli, il ritorno dalle coste all’entroterra, uno sviluppo più equilibrato e sostenibile. Ci saranno ricadute interne, anche se è presto dire fino a che punto. La lotta al virus di per sé spinge all’apertura, chiudersi a riccio, come ha fatto la Cina nella prima fase, è stato un errore madornale. Lo è sempre stato, ovunque nel mondo. Facciamo un salto nel passato. E’ il 1848 e il governo prussiano invia in Slesia il giovane Rudolf Virchow (diventerà successivamente il fondatore della ‘patologia cellulare’ e il padre delle politiche sociali nella sanità), allo scopo di combattere un’epidemia di tifo scoppiata tra la popolazione polacca. Egli constata subito che la vera causa del male era dovuta a due fattori: le pessime condizioni di igiene e povertà e la presenza di uno stato autoritario e repressivo. Lo scienziato suggerisce come ricetta preventiva “l’istruzione accompagnata dalle sue figlie: la libertà e la prosperità”. Ancor oggi è quello che dobbiamo chiedere alla Cina e a noi stessi. Ma chi, colpito dalla sindrome di San Giorgio, spera di riportare il dragone rosso nella caverna si sbaglia di grosso. La Cina non tornerà né ai tempi della dinastia Qing né a quelli di Mao. Così come è semplicistico parlare del secolo asiatico che rimpiazza il secolo americano, è altrettanto ingenuo pensare che il Covid-19 metta carponi il gigante d’Oriente. Il che, oltre tutto, sarebbe un guaio anche per tutti gli eredi di Marco Polo.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ