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Il fantasy di Marlon James ridà vita ai miti dell'Africa

Edoardo Rialti

I romanzi della trilogia "Stella Nera" fuggono dalla solita ambientazione nordeuropea e pescano a piene mani dal folklore e dalle leggende del continente africano. Così realizzano il sogno di Pasolini, che lì voleva ambientare la sua "Orestea"

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La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni” dichiarava in apertura Il Fiore delle Mille e una notte di Pasolini. Una saggezza ancestrale che si esprime per accumulo e prisma, e rifugge il conforto della verità univoca, lineare. Le grandi storie sono sempre un po’ ambigue, residuo delle varianti infinite del racconto mitico che abbraccia tutte le opposizioni e proprio per questo comunica esperienze che hanno l’inesorabile sentore della verità. L’eroe salva la principessa, e in un’altra versione l’abbandona. Uccide il mostro, e ne è ucciso. Perché noi siamo fatti così. Come scrisse Roberto Calasso “primo nemico dell’estetico fu il significato. Il simbolo appare come un’immagine che è anche qualcos’altro. L’estetico appare in una figura che è come tante altre. Il dio è un ragazzo, si presenta come un ragazzo ateniese, nudo come loro, con un lieve sorriso. Spesso non ha attributi che permettano di riconoscerlo. Si affida solo all’apparire”. Persino la lineare affidabilità del romanzo moderno – il suo sotteso assenso alla segreta domanda “è vero?”, parte della nostra tendenza complessiva alla razionalizzazione dei processi cognitivi, resta sottoposta a questo tremito sotterraneo, e ciò oggi pare premere più forte ancora, nelle nuove direzioni della narrativa. “La realtà non è più quella di Tolstoj” dichiarava Foster Wallace, e forse non lo è mai stata del tutto. 

Il Pasolini che per le sue location aveva eletto India, Nepal, Etiopia, aveva sognato pure di realizzare un film sull’Orestea, ambientandolo invece nell’Africa della Tanzania e dell’Uganda, sedi ideali d’una saga che vede il faticoso mutarsi dei conflitti tribali e delle forze ancestrali della colpa negli alfabeti razionalizzanti delle leggi e della democrazia. Tra le possibilità c’era anche avvalersi dei cantanti blues americani, altra commistione d’una sorgente artistica indigena con una griglia occidentale. Del progetto sono rimasti la traduzione di Eschilo e un documentario dove, telecamera in spalla, udiamo la vocetta sognante e ironica del regista soffermarsi su volti di guerrieri masai o donne velate e commentare: “Ecco, questo potrebbe essere Agamennone, questa potrebbe essere Clitennestra…” Il ruolo delle Furie sarebbe stato affidato ad alberi e rovi, distorti dal vento e dalla sabbia. Il tutto si conclude con un dibattito sulla liceità dell’operazione con gli studenti universitari africani a Roma, un dialogo che li vede tentennare, obbiettare, opporsi anche categoricamente a quella che pare l’ennesima applicazione coloniale di uno stampo esterno su una realtà altra e vera in sé.

Il progetto di Pasolini: girare una “Orestea” in Tanzania e Uganda, sedi ideali d’una saga sul mutarsi dei conflitti tribali nell’alfabeto delle leggi

Un altro tentativo pasoliniano di film africano, “Il padre selvaggio”, doveva a sua volta chiudersi col “fosco, innocente sorriso” del protagonista, riconciliato infine con una sapienza della vita che se ne infischia delle riduzioni razionali occidentali. A sessant’anni da tali abbozzi e immagini, uno scrittore giamaicano pare idealmente rispondere alle ambizioni del poeta italiano. Anche in questo caso si comincia con l’ascoltare una storia senza sapere se fidarci davvero di chi la sta raccontando, e a scrutarci dal fondo di una cella lurida è ancora una volta un sorriso scaltro, insanguinato che potrebbe fregarci con allegria, come per uno scherzo condiviso. Come il mercante che tenta di rifilare un tappeto costoso e alla domanda “è davvero magico? Vola davvero?” replica che forse sì, lo è. E poi, alle nostre proteste per essere stati imbrogliati, si limiti a fare spallucce: non è stato divertente, comunque? 

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La trilogia fantasy africana Stella Nera di Marlon James (in Italia pubblicata da Frassinelli, nelle belle traduzioni di D’Accardi, Reposi e Cosi) è stata opzionata per il cinema dall’attore Michael B. Jordan – il cattivo di Black Panther, per intendersi – prima ancora che fosse disponibile sugli scaffali. Al momento sono usciti i primi due volumi, Leopardo nero, Lupo rosso e Strega della luna, Re ragno. James aveva già vinto il Booker Prize con Breve storia di sette omicidi che affrontava il tentato assassinio di Bob Marley in un alternarsi di punti di vista e che si apriva in modo memorabile con una sorta di coro greco: “Ascoltate. I morti non smettono mai di parlare. Forse perché la morte non è affatto morte, è solo stare chiusi in castigo dopo la scuola. Sai da dove vieni ed è sempre da lì che torni. Sai dove vai anche se pare che non ci arrivi mai e sei morto e basta. Morto. Suona definitivo, invece è una parola che avrebbe bisogno di una forma progressiva”. Quando James ha annunciato che il suo progetto successivo sarebbe stato una trilogia legata ai racconti mitici del continente africano e dei suoi antenati, ha incontrato le solite resistenze che il mondo editoriale “serio” oppone al fantastico. Ottimi incassi, certo, ma comunque ciò avrebbe costituito uno scarto e una riduzione rispetto alla letteratura alta nella quale si era già imposto. “Per me non era affatto un salto” ha dichiarato James.

James, vincitore del Booker Prize, ha ripercorso la sua vita di lettore di miti europei per “attingervi risposte o meglio ancora domande ben poste”

In una delle conferenze più ambite nel mondo degli appassionati e studiosi di Tolkien, organizzata annualmente dal Pembroke College di Oxford, James ha raccontato nel 2019 cosa abbia voluto dire per lui cimentarsi con la costruzione di un Signore degli Anelli africano, se tale definizione vale davvero qualcosa e non risulti utile solo per le fascette di copertina. Ha ripercorso la sua vita di giovane lettore di miti europei, dalle tragedie classiche ai poemi anglosassoni o alle saghe scandinave, per “attingervi continuamente risposte o meglio ancora domande ben poste”, proprio come, a suo giudizio, aveva fatto lo stesso Tolkien per reagire al trauma della Prima guerra mondiale. Il frutto di tale ricerca è che adesso noi tutti “viviamo in un mondo che Tolkien ci ha aiutato a capire”, quella cerca e quella ritraduzione in un nuovo linguaggio artistico hanno offerto coordinate a milioni di lettori per interpretare l’universo, e inserire i propri drammi e interrogativi in un orizzonte più ampio, giacché la mitologia crea nuove mitologie. 

Nel bene o nel male, i racconti ci plasmano, e James ovviamente non ignora che il mito è stato spesso una cornice fondamentale del razzismo, giacché può contribuire a narrare “un passato inventato per violenza”. In ogni caso, i miti sono proiezioni fondamentali di paure e speranze, ci aiutano a gestire il conflitto e la perdita, innestandoli sullo sfondo di un mondo immenso, e oscuro, che preme. Re Artù e Robin Hood continuano a essere presenti nei dibattiti inglesi in Parlamento o nel rapporto con la Casa reale. Ciò aiuta a comprendere quale enorme torto subisca chi non ha accesso ai propri miti, chi è stato defraudato di essi come parte della propria immaginazione speculativa, come intere generazioni di giovani africani cresciuti con fumetti, film, libri americani ed europei. Per questo, all’ennesima discussione sul cast interamente “bianco” de Lo Hobbit (difeso da puristi che paiono aver dimenticato che “la Terra di Mezzo non è reale, e puoi farci quello che vuoi”), James si è scoperto a sbottare “tenetevi il vostro dannato Hobbit” e a scrivere Stella Nera. Una missione da lettore prima ancora che da autore, nella quale si è immerso nelle raccolte sul folklore africano, scoprendo che “il romanzo stava scrivendo me”, riconnettendolo a un passato di immagini che egli per primo ignorava, e che spesso, nella loro inversione di prospettiva rispetto ai canoni occidentali, schiudevano delle sorgenti di significato, ricche in sé.

Ad esempio, in molte leggende africane la mezzanotte costituisce l’ora più dolce e riposante del giorno, quella più attesa perché è il momento in cui gli antenati visitano i vivi in forma di animali, mentre il pieno mezzodì è il momento del terrore e del massimo pericolo perché i mostri ti possono vedere benissimo, e i vampiri a quelle latitudini se ne infischiano della luce: “Un bell’uomo bianco, i capelli fibrosi come crini di cavallo. Devi stargli vicino per vedere che non sono capelli ma piume. Bianco come una nuvola, più bianco di un albino con ancora del sangue che gli scorre sottopelle. Gli Ipundulu non vengono da una regione precisa, perché adorano spostarsi e nascondere le loro tracce. E così fanno, andando da un posto all’altro, sempre in cerca di un nuovo cuore da strappare via dal petto e di un nuovo corpo dal quale bere il sangue. Dal momento in cui ti vede fa agire la tua mente contro di te, al punto che la notte è il giorno e tu sei la sola a non sapere che la tunica bianca che indossa sono ali”. 

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All’ennesima discussione sui cast interamente “bianchi”, ha sbottato “tenetevi il vostro dannato Hobbit” e ha iniziato a scrivere “Stella Nera”

Il risultato è una storia dalla potenza vertiginosa, scritta – in dialettica significativa col resto della formazione di James – in inglese (come fece pure Salman Rushdie con un’operazione simile) e scandita in tre tempi, per cui la stessa vicenda viene raccontata da altrettanti punti di vista diversi, un po’ come in Rashomon di Kurosawa. La stessa storia, e al tempo stesso una storia diversa. Nel primo volume seguiamo le avventure di un cacciatore dal fiuto prodigioso e un guerriero leopardo mutaforma, saltuari compagni d’arme e al contempo amanti, che assieme a una bislacca compagnia di novelli Argonauti (tra cui un malinconico gigante costretto per le deducibili dimensioni ad accoppiarsi solo con giumente e vacche) è sulle tracce di un bambino misterioso che può essere una benedizione o una orribile minaccia, mentre nel secondo volume a raccontarci l’impresa è invece una strega con centinaia di anni sulle spalle, che quella medesima avventura l’ha vissuta in una prospettiva radicalmente diversa, intrecciata alle trame di un elusivo re ragno che sa influenzare i ricordi altrui: “Se vivete a lungo quanto me non sono molte le cose che non diventano divertenti, anche il dolore, anche la crudeltà, anche la perdita. Perché questa è la verità. Tra dèi e principesse e re e nobili è tutto un gioco, e come puoi non ridere se loro non sanno giocare?”. 

Come raccontare questo mondo abbacinante, fastoso e lurido, come selezionare qualcosa di questa prosa lirica e crudele che aggredisce tutti e cinque sensi con profumi e fetori, sangue, sperma, battaglie feroci e racconti che danno su altri racconti, verità inghiottite dalle fauci del coccodrillo spalancate a ghermire la luna? Si può dire che quanto Pasolini si augurava con molte incertezze di suscitare, qui viene incontro dalla direzione opposta. Quanto abbiamo già incontrato – e forse addomesticato – nei troll, nei fattucchieri, nei boschi magici, negli eroi delle storie più note del nostro alfabeto immaginario, ci balza addosso con nomi e colori diversi. Le Erinni sono iene che rapiscono e marchiano con l’urina. “C’era qualcuno nella buca. Veniva da me nel buio. Potevo vedermi come mi vedevano gli dèi, tutto rattrappito e tremante di paura”. Le varie Circe e Calipso e Dame del Lago qui sono delle “anti-maghe” che vivono nella foresta circondate da bambini dai colori strani che fluttuano come palloncini. Tutta la potenza del mito, la sua costante tendenza “al convivio o allo stupro”, come scrisse sempre Calasso, ci viene riconsegnata, altra e identica allo stesso tempo. I guerrieri fanno sesso tra loro, le bambine sono vendute come schiave di piacere, i mercanti ingaggiano divinità dei fiumi, e ognuno ha qualcosa da raccontare, che scompone quanto già saputo fino a quel momento.

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Un cacciatore dal fiuto prodigioso e un guerriero leopardo mutaforma,  una strega di centinaia di anni e un elusivo re ragno che influenza i ricordi altrui

E al di là di tutti soliti inganni e violenze, ecco profilarsi pure qualcosa di nuovo, totalmente alieno: “E’ in arrivo una minaccia, strega, e non dal Sud, o dal Nord, e nemmeno dall’Est, ma dall’Ovest. Una minaccia di fuoco e malattia e morte e putrefazione che viene di là dal mare: tutti i grandi anziani, santoni e yerewolo l’hanno vista. Io li ho visti nel terzo occhio, uomini rossi come il sangue e bianchi come la sabbia. E solo un unico regno, un regno unito, potrà resistere a loro e alle lune, gli anni e le ère dei loro assalti”.  Chi ha dunque ragione, tra i vari narratori? Anche per questa ambivalenza, il sentenziare proverbiale delle diverse voci (“Io mi scopavo un leone, vorrei dirle. Non c’è da vergognarsi se ti scopi un serpente… I morti sembrano più vecchi dei vecchi… Anche essere scemo è una maledizione) assume i tratti del noir: “Cosa hai fatto in questi anni, Inseguitore? Troppo e troppo poco”.

Come in Gilgamesh o in Ellroy, a emergere è sempre la nostra solitudine sotto il tacco di un destino che non abbiamo scelto, il desiderio di non piegarsi: “Non credo nel credere. No, è falso. Io credo che ci saranno antilopi nei boschi e pesci nel fiume e gli uomini vorranno sempre chiavare, che di tutti i loro scopi è l’unico a piacermi.” E in fondo a tutto questo, mescolati a bugie e tradimenti, pure l’amore, e la dedizione. Un eroismo che ha poco a che spartire con la verità. In fondo l’ultimo banco di prova d’una grande narrazione è quando in essa si è condotti a un punto di non ritorno e da quel momento, ciò che essa ti ha consegnato, si vede semplicemente dappertutto, dentro e fuori di noi, in attesa. “Forse è così che finiscono tutte le storie, quelle con vere donne e veri uomini, veri corpi che soccombono alle offese e alla morte, e dove il sangue versato è reale. E forse è per questo che le grandi storie che ci raccontiamo sono così diverse. Perché noi raccontiamo storie per vivere e quel genere di storia ha bisogno di uno scopo, quindi quel genere di storia dev’essere una bugia. Perché alla fine di una storia vera, c’è soltanto spreco”.

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